Il cinema cristiano? Non ha abbastanza cuore. Un’intervista di Andrea Galli a Barbara Nicolosi [Non si può avere una buona storia senza quella che chiamo un’alta posta in gioco. Un’alta posta in gioco vuol dire per esempio aver di mezzo la morte. E la morte più "profonda" che un uomo sperimenta viene dal peccato: la morte della capacità di amare, dell’istinto a prendersi cura degli altri, dell’abilità a vedere e penetrare la realtà. Perciò non si può togliere il peccato da una buona narrazione. Una moderna eresia nella Chiesa di oggi è l’impulso a essere innocui. Siamo così attenti a essere gentili e non-offensivi che alla fine non diciamo nulla che valga la pena di stare a sentire. Dovremmo essere meno melliflui e più duri]
Riprendiamo da Avvenire del 15/1/2014 un’intervista di Andrea Galli a Barbara Nicolosi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (19/1/2014)
Dal “convento” a Hollywood. È il salto che ha fatto Barbara Nicolosi, per nove anni religiosa della Figlie di San Paolo, poi passata a lavorare da laica nel mondo del cinema e diventata un punto di riferimento per chi cerca di coniugare fede e arte visive negli Usa. Sceneggiatrice di successo, fondatrice dei “Galileo studios” vicino a Los Angeles, di “Act One”, società che si occupa di formare professionisti per il cinema americano, di “Catharsis”, agenzia di consulenza per produttori e registi, docente universitaria e molto altro, Nicolosi pochi giorni fa ha tenuto una serie di conferenze alla Benedictine University vicino a Chicago. Una si intitolava: «Perché i pagani fanno film cristiani più belli».
Partiamo da questo titolo, che mi sembra eloquente…
«La prima cosa da chiarire, per dipanare la provocazione, è che non esistono film cristiani, così come non esiste una pizza cristiana, o una moto cristiana. Una categoria utile è piuttosto quella di "arte sacra", da riferirsi a ogni progetto, commissionato dalla Chiesa o no, a fini liturgici o catechetici. I film non possono ricadere in questa categoria, perché destinati per natura a un pubblico vasto. Un film fatto da cristiani dovrebbe lavorare a un livello teologico per i credenti, ma può e deve funzionare con un pubblico laico su un piano artistico e narrativo. Un film è tanto più "cristiano" quanto è capace di avere un impatto su un pubblico non cristiano. Per fare degli esempi citerei Un uomo per tutte le stagioni di Fred Zimmerman, del 1966, o La passione di Giovanna d’Arco, film muto del 1928 diretto Carl Theodor Dreyer. O in letteratura i racconti di Flannery O’Connor. Il limite della cinematografia dei cristiani è che troppo spesso è semplicemente brutta. Riflette quello che è successo nella Chiesa nel rapporto tra arte e fede, dove la ricerca di "nuove epifanie della bellezza", per dirla con le parole di Giovanni Paolo II, è stata sacrificata alla sciatteria e al culto del banale. I "pagani" che privilegiando il talento perseguono la ricerca del bello, realizzano inevitabilmente opere superiori».
Com’è il lavoro nell’ambiente hollywoodiano? Si scontra con pregiudizi o ostilità?
«Hollywood non è tanto anti-cristiana, quanto anti-cattiva cinematografia. E il modo per farsi sentire in un ambito del genere, e nella cultura popolare in generale, è di essere talmente bravi da non poter essere ignorati».
Alcuni esempi di film con un messaggio cristiano ben riusciti?
«Fatti da cristiani negli ultimi dieci anni ce ne sono molto pochi. Dove c’è una "buona intenzione" la storia generalmente fallisce. La Passione di Cristo è stata un’eccezione, ma Mel Gibson non ha girato film per la Chiesa, ha fatto piuttosto un atto di penitenza per i propri peccati. Alcuni ottimi film fatti da non credenti che veicolano messaggi cristiani sono L’ospite inatteso di Thomas McCarthy, Lars e una ragazza tutta sua di Craig Gillespie, e Juno di Jason Reitman, tutti e tre del 2007, oppure Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck del 2006, e il più recente Uomini di Dio di Xavier Beauvois, 2010, sui monaci di Tibhirine. E quasi tutto quello che è stato realizzato dalla Pixar, un esempio di eccellenza abbinata a temi profondi, di portata universale».
Anche “Gran Torino” del laicissimo Clint Eastwood è stato letto come un film dal messaggio cristiano: nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri amici.
«Gran Torino è un film robusto e Eastwood ha voluto fare del personaggio principale una figura cristologica, un archetipo ben presente nella tradizione hollywoodiana».
Ricche case di produzione, talento, fiducia in se stessi: cosa ci manca di più?
«Manca una comprensione adeguata della natura e del potenziale della narrazione attraverso le arti visive. Tra le prime venti università al mondo per il cinema non ce n’è una cattolica. Bisogna lavorare con figure di talento, indipendentemente dal loro orientamento religioso. Troppo spesso ho visto cristiani ingaggiare cattivi attori, sceneggiatori o registi solo per il fatto di essere dei credenti. Si finisce spesso con film quasi orribili. La maggioranza dei ricchi benefattori dona soldi per le opere di carità della Chiesa o per l’educazione in generale. Bisogna convincerli a investire risorse anche nelle opere d’arte. Abbiamo perso il valore di essere "patroni delle arti" come è stata la Chiesa in passato».
Meglio essere espliciti riguardo Dio e la fede – vedi “La Passione di Cristo” di Mel Gibson – oppure no?
«Servono parabole per la gente del nostro tempo che abbiano una serie di caratteristiche che aveva già individuato Aristotele nella Poetica. Le parabole efficaci non hanno bisogno di nominare Dio, proprio come quelle di Gesù. Dico sempre ai miei studenti: la storia basta, non c’è bisogno di allegare un’omelia. Abbiamo bisogno di parabole scritte da persone con il cuore pieno di vita e capaci di portare negli altri ispirazione e compunzione. O per dirla con Aristotele, la società ha bisogno di storie che generino esperienze di catarsi, di compassione e di paura del male. Gli studios di Hollywood sono controllati da megacorporation a cui interessano film che vendano. Questo è il loro ultimo parametro di riferimento. C’è spazio per una nuova generazione di professionisti in grado di raccontare storie guardando ai principi classici della narrazione e di abbinare il tutto alle potenzialità delle nuove tecnologie».
I cristiani hanno limiti dal punto di vista etico – scene di nudo, la sessualità in generale, il linguaggio, l’approccio alla violenza ecc. –: partono svantaggiati?
«Non si può avere una buona storia senza quella che chiamo un’alta posta in gioco. Un’alta posta in gioco vuol dire per esempio aver di mezzo la morte. E la morte più "profonda" che un uomo sperimenta viene dal peccato: la morte della capacità di amare, dell’istinto a prendersi cura degli altri, dell’abilità a vedere e penetrare la realtà. Perciò non si può togliere il peccato da una buona narrazione. Quello che i cristiani possono dimostrare è come parlare del peccato senza farlo diventare un’occasione di peccato per il pubblico. E’ ciò che fa la Bibbia con le sue storie ad alto tasso di drammaticità - adulteri, omicidi, inganni, tradimenti - ma mai narrate in modo da far violenza sul lettore. Una moderna eresia nella Chiesa di oggi è l’impulso a essere innocui. Va bene essere prudenti, ma spesso sembriamo degli stoppini bagnati. Siamo così attenti a essere gentili e non-offensivi che alla fine non diciamo nulla che valga la pena di stare a sentire. Dovremmo essere meno melliflui e più duri».