«La chiarezza nei loro occhi è impressionante da vedere, come se Dio fosse lì da qualche parte. Penso che Jeffries usi la sua arte per onorare queste persone, non per pietà». Lee Jeffries. Homeless in mostra al Museo di Roma in Trastevere
Mettiamo a disposizione sul nostro sito un testo di Lee Jeffries, La mia prima mostra a Roma. Le immagini sono “tornate a casa”…, pubblicato sul catalogo della mostra Lee Jeffries, Homeless. The exhibition, Edizioni Punto Marte, Verona, 2013, p. 10, insieme a brevi note di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione del testo e delle foto se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (7/1/2014)
1/ La mia prima mostra a Roma. Le immagini sono “tornate a casa”…, di Lee Jeffries
Negli ultimi anni, ho vagato per le strade di Londra, Parigi, Roma, New York, Miami, Los Angeles o Las Vegas, sperando in un incontro. L'estraneo che cerco non è facilmente a portata di mano, e per ore, io cammino ed osservo, alla ricerca di uno sguardo che cattura la mia attenzione e finalmente pone fine alla mia ricerca.
Sono un fotografo autodidatta, un contabile di professione, e sono approdato alla fotografia nel 2008. Nell'arco di tre anni, le mie fotografie sono già state pubblicate su The Independent, CNN, The Guardian e la rivista TIME.
Il mio stile è unico e frequentemente si applica a ritratti di persone senza fissa dimora. Il mio stile si evidenzia nel trattamento della luce e dell'ombra, nella sobria inquadratura frontale, negli sfondi monocromatici scuri. Le persone che attirano la mia attenzione sono spesso emarginati: gli uomini e le donne escluse dall'attività sociale. Istintivamente, sono attratto da questi personaggi insoliti, outsider le cui storie personali tragiche sono prive delle carinerie del decoro sociale. I loro volti rivelano una sorta di sofferenza senza tempo: il disagio è per loro diventato uno stile di vita...
I soldi comprano le persone, le rendono docili e meno autentiche. Le persone al di fuori del nostro sistema sono dei sopravvissuti. Devono sopravvivere e la loro vita quotidiana come sopravvissuti è visibile sui loro volti.
La sofferenza e la spiritualità sono senza dubbio sinonimi. Non è un caso quindi, che in ultima analisi il mio scopo sia di fare appello al senso di fede e di umanità degli spettatori. Se solo poteste incontrare le persone che ho incontrato. Vedere le cose delle quali sono stato testimone.
Ho camminato su alcune delle vie più dure del mondo ed ho sentito urlare l'ingiustizia. E questo mi ha motivato a fare di più. La mia semplice speranza è che ogni volta che tiro fuori la macchina fotografica sia abbastanza fortunato da scattare un fotogramma che abbia alla fine il potere di influenzare. Di cambiare la percezione. Di rendere l'attenzione dello spettatore abbastanza forte per volere conoscere e fare di più.
Vorrei concludere con la citazione di questo commento di Jason Conran alle mie immagini, che sinteticamente ingloba tutta la mia etica....
"Se perdonate la mia indulgenza, questo lavoro non è assolutamente fotogiornalismo. Né va inteso come ritrattistica. È iconografia religiosa o spirituale. È roba potente. Jeffries ha dato a queste persone qualcosa di più che la dignità personale. Ha dato ai loro occhi un bagliore che raffigura la trascendenza, uno spiraglio di luce alle porte dell'Eden, per così dire. La chiarezza nei loro occhi è impressionante da vedere, come se Dio fosse lì da qualche parte. Egli ha fatto di queste persone qualcosa di più che poveri vecchi barboni pigramente in attesa di un'elemosina da parte di qualche impiegato gentile e premuroso. Li ha infusi di luce, non di tenebre. Anche il ragazzo cieco ha una luce che si riversa dagli occhi spenti. Penso che Jeffries usi la sua arte per onorare queste persone, non per pietà. Egli onora queste persone dando alle loro sembianze un significato più grande. Egli dà loro una significanza religiosa e spirituale. Egli li permea dell'anima iconica dell'umanità. Penso sia questo ciò che sta cercando di fare".
2/ Brevi note a partire da un colloquio su Lee Jeffries
Nei ritratti di Jeffries, nonostante tutto il resto sia sfigurato, appare comunque l’immagine di Dio nel volto dell’uomo.
Non solo nelle mani e negli occhi che si volgono in preghiera - c’è anche un’anziana donna ritratta vicino al DVD de Il compagno don Camillo - ma in ogni sguardo, in ogni vita ritratta.
Le foto sono un grido, ma sono anche un’affermazione, un riconoscimento.
Non si tratta semplicemente di alleviare le ferite che le rughe lasciano trasparire. Si tratta anche di riconoscere la dignità che è presente in quelle ferite. È nota la battuta con cui Anna Magnani rispose alla truccatrice che stava nascondendo le sue rughe: Lasciamele tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una, che ci ho messo una vita a farmele.