Chiamati a servire e ad annunciare. Incontro arcidiocesano di Catechesi. L’allora arcivescovo Jorge Mario Bergoglio parla ai catechisti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 /12 /2013 - 14:08 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un testo dell’allora arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio, tratto da Jorge Mario Bergoglio – Papa Francesco, Riflessioni di un pastore. Misericordia, missione, testimonianza, vita, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2013, pp. 167-176. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (29/12/2013)

Chiamati a servire e ad annunciare

Mc 3, 13-14
Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici - che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare.

Il testo di Marco ci permette di porci nella prospettiva della chiamata. Dietro ogni catechista, dietro ognuno di voi, c'è una chiamata, una scelta, una vocazione. Questa è una verità fondamentale della nostra identità: siamo stati chiamati da Dio, eletti da Lui. Crediamo e confessiamo l'iniziativa dell'amore che è alla radice di ciò che siamo. Ci riconosciamo come dono, come grazia.

E siamo stati chiamati per stare con Lui. Per questo ci diciamo cristiani, ci riconosciamo in stretta relazione con Cristo. Con l'apostolo Paolo possiamo dire: «E non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Questo vivere con Cristo è davvero una vita nuova: è la vita del cristiano, che determina tutto il suo essere e le sue azioni. Quindi, ogni catechista deve fare in modo di rimanere nel Signore (Gv 15,4) e curare, con la preghiera, il suo cuore trasformato con la grazia, perché è questo quello che ha da offrire e il luogo in cui si trova il suo vero «tesoro» (cfr. Lc 12,34).

Alcuni penseranno: Ma questo che ci sta dicendo potrebbe essere applicato a tutti i cristiani. Sì, lo è. Ed è quello che esattamente voglio condividere con voi questa mattina. Ogni catechista è innanzitutto un cristiano.

Può sembrare abbastanza ovvio, tuttavia, uno dei problemi più gravi della Chiesa e che spesso ipoteca il suo compito di evangelizzatrice, risiede negli operatori pastorali, noi che di solito stiamo più con le «cose di Dio», che siamo più integrati nel mondo ecclesiastico. Noi sovente ci dimentichiamo di essere buoni cristiani. Inizia quindi la tentazione di assolutizzare la spiritualità «di»: la spiritualità del laico, del catechista, del sacerdote, con il grave rischio di perdere la sua originalità e la sua semplicità evangelica. E una volta perso il comune orizzonte cristiano, corriamo la tentazione di cadere nello snobismo, di diventare influenzabili, di diventare come quelli che si divertono e ingrassano, ma non si alimentano, né aiutano a crescere. Le parti diventano dettagli e con il privilegiare i particolari, ci dimentichiamo facilmente della totalità, del fatto che siamo uno stesso popolo. Dunque iniziano i movimenti centrifughi che nulla hanno di missionario, se mai tutto il contrario: ci disperdono, ci distraggono e, paradossalmente, ci lasciano imbrigliati dentro le nostre chiusure. Non dimentichiamolo: il tutto è superiore alla parte.

Mi sembra importante insistere su questo perché una sottile tentazione del maligno è di farci dimenticare la nostra comune appartenenza che ha come fonte il Battesimo. E quando perdiamo l'identità di figli, fratelli e membri del popolo di Dio, ci intratteniamo nel coltivare una «pseudo spiritualità» artificiale, elitaria. Smettiamo di transitare per i verdi freschi pascoli per essere rinchiusi in sofismi paralizzanti di un «cristianesimo in provetta». Non siamo cristiani ma «élite illuminata» con idee cristiane.

Così, tenendo queste cose bene in mente, possiamo porre l'accento sui tratti specifici.

Il catechista è l'uomo della Parola. Dalla Parola con la maiuscola. Fu proprio con la Parola che nostro Signore conquistò il cuore della gente. Venivano ad ascoltarlo da ogni parte (Mc 1,45). Restavano meravigliati ascoltando i suoi insegnamenti (Mc 6,2). Capivano che parlava come chi ha autorità (Mc 1,27). Fu con la Parola che «ne costituì Dodici - che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14-15), attraevano al seno della Chiesa di tutti i popoli (Cfr. Mc 16,15-20).[1]

Questa relazione della catechesi con la Parolanon si muove tanto nell'ordine del «fare». ma piuttosto dell'«essere». Non si può avere una autentica catechesi senza una centralità e una referenza reali alla Parola di Dio che anima, sostiene e feconda tutto il suo agire. Il catechista s'impegna di fronte alla comunità a meditare e rimuginare la Parola di Dio affinché sia sua eco. Pertanto, la accoglie con la gioia che dà lo Spirito (1 Tes 1,6), la interiorizza e la fa carne e gesto come Maria (Lc 2,19). Trova nella Parola la saggezza dall'alto che le permetterà di fare il necessario e acuto discernimento, sia personale che comunitario.

Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4,12).

Il catechista è un servitore della Parola, si lascia educare da essa, e in essa ha la serena tranquillità di una fecondità che supera le sue forze: «Non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata» (Is 55,11). Il catechista può far proprio ciò che Giovanni Paolo II scrive sul sacerdote: «Deve essere il primo "credente" alla Parola, nella piena consapevolezza che le parole del suo ministero non sono "sue", ma di Colui che lo ha mandato. Di questa Parola egli non è padrone: è servo» (Pastores dabo vobis 26).

Per rendere possibile questo ascolto della Parola, il catechista deve essere uomo e donna che ama il silenzio. Sì, il catechista, siccome è l'uomo della Parola, deve essere anche l'uomo del silenzio.

Silenzio contemplativo, che gli consenta di liberarsi dell'inflazione delle parole che riducono e impoveriscono il suo ministero riducendolo a una verbosità vuota, come in tanti casi ci offre la società attuale. Silenzio dialogico, che renderà possibile l'ascolto rispettoso dell'altro e così abbellire la Chiesa con la diaconia della parola che si offre come risposta. Silenzio straripante di prossimità, che integrerà la parola con gesti creatori che facilitano l'incontro e rendono possibile la «teofania di noi».

Quindi, vi invito, uomini e donne della Parola: amate il silenzio, cercate il silenzio, rendete fecondo nel vostro ministero il silenzio!

Ma se vi è qualcos'altro di peculiare che deve caratterizzare il catechista è il suo sguardo. Il catechista, ci dice il Direttorio Generale per la Catechesi, è un uomo esperto nell'arte di comunicare. «La parte superiore e il centro della formazione dei catechisti è l'attitudine e la capacità di comunicare il messaggio Evangelico» (235). Il catechista è chiamato a essere un maestro della comunicazione. Vuole e cerca che il messaggio diventi vita. E questo senza disprezzare tutti i contributi delle scienze attuali sulla comunicazione. In Gesù abbiamo sempre il modello, il cammino, la vita.

Come il Maestro Buono, ogni catechista deve rendere presente lo «sguardo amoroso» che è inizio e condizione di ogni incontro veramente umano. I Vangeli non hanno risparmiato versetti per documentare la profonda impronta che lasciò, nei primi discepoli, lo sguardo di Gesù. Non stancatevi di guardare con gli occhi di Dio!

In una civiltà paradossalmente ferita dall'anonimato e, nello stesso tempo, spudoratamente malata di curiosità morbosa per gli altri, la Chiesa ha bisogno dello sguardo vicino del catechista per contemplare, commuoversi e trattenersi tutte le volte che sia necessario dare al nostro cammino il ritmo sanante di prossimità.[2] Precisamente in questo mondo il catechista deve rendere presente la fragranza dello sguardo del cuore di Gesù.

E dovrà iniziare i suoi fratelli a questa «arte dell'accompagnamento», in modo che i bambini e gli adulti imparino sempre a togliersi i sandali prima di entrare in un luogo sacro (cfr. Es 3,5). Sguardo rispettoso, sguardo guaritore, sguardo pieno di compassione anche davanti allo spettacolo cupo dell'onnipotenza manipolatrice dei media, del passo prepotente e irrispettoso di quelli come i guru del pensiero unico, così come degli uffici governativi, vogliono renderci insicuri nella difesa della dignità della persona, contagiandoci incapacità di amare.

Per questo, chiedo a voi, catechisti, proteggete il vostro sguardo! Non siete indecisi con questo sguardo dignitoso. Non chiudete mai gli occhi di fronte al volto di un bambino che non conosce Gesù. Non distogliete lo sguardo, non fate i distratti. Dio li mette, li manda affinché amino, guardino, accarezzino, insegnino. E i volti che Dio affida non si trovano solamente nelle sale parrocchiali, nel tempio. Andate oltre: siate aperti a nuove vie dove la fedeltà prende il nome di creatività. Ricorderete sicuramente che il Direttorio Catechistico Generale, nell'Introduzione propone la parabola del seminatore.[3]

Tenendo in mente questo orizzonte biblico, non perdete l'identità dello sguardo del catechista. Perché ci sono modi e modi di guardare. Ci sono quelli che guardano con gli occhi delle statistiche e spesso vedono solo numeri, sanno solo contare. Ci sono quelli che guardano con gli occhi dei risultati e spesso vedono solo fallimenti. Ci sono quelli che guardano con gli occhi dell'impazienza e vedono solo attese inutili.

Chiediamo a chi ci ha messo in questo campo, che ci faccia partecipi del suo sguardo, quello del seminatore buono e «spendaccione» di tenerezza. Affinché sia uno sguardo fiducioso e di lungo termine, che non ceda alla tentazione sterile di voler curiosare ogni giorno il seminato perché sa bene che sia addormentato o sia sveglio, il seme cresce da solo. Uno sguardo pieno di speranza e di amore, che quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano non si abbandona a reazioni di insoddisfazione o allarmismo, perché sa e ha memoria della fertilità gratuita della carità.[4]

Se vi è qualcosa di peculiare del catechista, è riconoscere l'uomo e la donna che «annunciano». Se è certo che tutti i cristiani devono partecipare alla missione profetica della Chiesa, il catechista lo fa in un modo speciale.

Che significa annunciare? Più che dire qualcosa, è raccontare qualcosa. È più che insegnare qualcosa. Annunciare è affermare, gridare, comunicare, è trasmettere con tutta la vita. È avvicinare all'altro il proprio atto di fede che, per essere totalizzatore, si fa gesto, parola, sguardo, comunione e annuncia non un messaggio freddo o un semplice corpo dottrinale. Annuncia, soprattutto, una Persona, un evento: Cristo ci ama e ha dato la sua vita per noi (Cfr. Ef 2,1-9). Il catechista, come ogni cristiano annuncia e testimonia una certezza: che Cristo è risorto ed è vivo in mezzo a noi (Cfr. At 10,34-44). Il catechista offre il suo tempo, il suo cuore, i suoi doni e la sua creatività affinché questa certezza diventi vita nell'altro, in modo che il progetto di Dio si faccia storia nell'altro. Inoltre è proprio del catechista che questo annuncio, con al centro una persona, Cristo, si faccia anche annuncio del suo messaggio, dei suoi insegnamenti, della sua dottrina. La catechesi è insegnamento. Bisogna dirlo senza complessi. Non dimenticate che voi come catechisti completate l'azione missionaria della Chiesa. Senza una presentazione sistematica della fede il nostro seguire il Signore sarà incompleto, se ci sarà difficile dare conto di ciò che crediamo, saremo complici del fatto che molti non arrivano alla maturità della fede.

E sebbene in un certo momento della storia della Chiesa si separò troppo kerigma e catechesi, oggi devono essere unite, ma non coincidere. La catechesi dovrà, in questi tempi di diffusa incredulità e indifferenza, avere una forte impronta kerigmatica. Ma non dovrà essere solo kerigma, altrimenti alla fine smetterà di essere catechesi. Dovrà gridare e annunciare: - Gesù è il Signore! - ma dovrà anche portare gradualmente e pedagogicamente il catecumeno a conoscere e amare Dio, a entrare nella sua intimità, ad avviarlo nei sacramenti e nella vita del discepolo.

Non smettete di annunciare che Gesù è il Signore, contribuite che sia veramente «Signore» dei catechizzati. Per questo aiutateli a pregare in profondità, ad approfondire i suoi misteri, a gustare la sua presenza. La catechesi non manchi di contenuto, ma nemmeno sia ridotta a semplici idee, come quando escono dal concatenamento umano, dalla sua radicazione nella persona, nel popolo di Dio e nella storia della Chiesa, portando malattie. Le idee, così intese, finiscono per essere parole che non dicono nulla e che possono trasformarsi in nominalismi moderni, in «élite illuminate».

In questo contesto diventa molto importante il testimone. La catechesi, come educazione alla fede, come trasmissione di una dottrina, richiede sempre un sostegno testimoniale. Questo è comune a tutti i cristiani; senza dubbio, nel catechista acquista una dimensione speciale. Perché si riconosce chiamato e convocato dalla Chiesa per dare testimonianza. Il testimone è chi avendo visto qualcosa, la vuole raccontare, narrare, comunicare. Nel catechista l'incontro personale con il Signore non solo dà attendibilità alle sue parole, ma anche al suo ministero, a quello che è e quello che fa.

Se il catechista non ha contemplato il Volto del Verbo fatto carne, non merita di essere chiamato catechista. Inoltre, può ottenere il nome di impostore, perché sta ingannando i loro catechizzandi.

Ancora una cosa: siete catechisti di questo tempo, di questa città imponente che è Buenos Aires, in questa Chiesa diocesana che sta camminando in assemblea. E per essere catechisti di questo tempo segnato dalla crisi e dai cambiamenti, non vergognatevi di proporre certezze. Non tutto è in movimento, non tutto è instabile, non tutto è il risultato della cultura o del consenso. C'è qualcosa che ci è stata data come dono, che supera le nostre capacità, che supera tutto quello che possiamo immaginare o pensare. Il catechista deve vivere come ministero proprio quello che dice il Vangelo di Giovanni: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto l'amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16). Siamo certamente di fronte a un momento difficile, molti cambiamenti, che noi inclusi ci portano a parlare di cambio d'epoca.[5] Il catechista, di fronte a questo nuovo e impegnativo orizzonte culturale, in più di un'occasione si sentirà messo in discussione, perplesso, ma mai abbattuto. Dalla memoria dell'azione di Dio nelle nostre vite, possiamo dire con l'apostolo: «So infatti in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12). In questi momenti di svolta storica e di grande crisi, la Chiesa ha bisogno della forza e della perseveranza del catechista che, con la sua fede umile ma sicura, aiuti le nuove generazioni a dire con il salmista: «Con il mio Dio scavalcherò le mura» (Sal 17,30), «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me» (Sal 23,4).

Il compito dei catechisti, che nel vostro caso si realizza qui, a Buenos Aires, in questa grande città che con la sua complessità è in qualche modo unica. Siete catechisti di Buenos Aires, e in questo senso per quello che implica una grande città, dovrete differenziarvi dai catechisti di qualsiasi altro luogo.

Ogni grande città ha grandi ricchezze, molte possibilità, ma anche molti pericoli. Uno di questi è quello dell'emarginazione. A volte mi chiedo se come Chiesa diocesana non siamo complici di una cultura di emarginazione nella quale non c'è posto per l'anziano, per il bambino molesto, non c'è tempo per intrattenersi sul margine del cammino. La tentazione è grande, soprattutto perché si basa su nuovi dogmi moderni, come l'efficienza e il pragmatismo. Pertanto, ci vuole molto coraggio per andare contro corrente, per non rinunciare all'utopia possibile che sia proprio l'inserimento a segnare lo stile e il ritmo del nostro passo.[6]

Essere incoraggiati a pensare la pastorale e la catechesi a partire dalla periferia, da quelli che sono più lontani, da quelli che solitamente non contribuiscono alla parrocchia. Anch'essi sono invitati alle Nozze dell'agnello. Qualche anno fa lo dissi in un Incontro Arcidiocesano di Catechesi (IAC): Uscite dalle caverne! Oggi lo ripeto: uscite dalla sacrestia, dalla segreteria parrocchiale, dai salotti vip! Uscite! Abbiate presente la pastorale dell'androne, delle porte, delle case, della strada. Non aspettate, uscite! E, soprattutto, abbiate presente una catechesi che non escluda, che conosca ritmi diversi, aperta alle nuove sfide di questo mondo complesso. Non vi trasformate in rigidi funzionari, fondamentalisti della pianificazione che esclude.

Dio vi ha chiamato a essere catechisti. In questa Chiesa di Buenos Aires che sta attraversando tempi dello Spirito, siate parte e protagonisti dell'assemblea diocesana, non per impugnare, né imporre, ma per fare insieme l'appassionante esperienza del discutere con gli altri, di lasciare che sia Dio a scrivere la storia.

Ogni anno voi come catechisti vi riunite nella IAC che è sinonimo di comunione. Lasciate per un giorno il lavoro quotidiano della parrocchia per sperimentare la ricchezza della comunione, la bella sinfonia del diverso e del comune. È un giorno di condivisione, per arricchirsi con l'altro, di fare l'esperienza di vivere nel cortile dedicato a Giovanni Battista de La Salle, nella «tenda dell'incontro», con chi settimana per settimana, a grandi e a piccoli, annuncia Gesù. Vivono questa comunione anche con gli altri agenti pastorali, con gli altri membri del popolo fedele. Contributo e compromesso per questo tempo di grazia, che sarà per tutti l'assemblea Diocesana. Siate diaconi, cioè, servitori quasi ossessivi della comunione. Aggiungete a questo soffio dello Spirito che ci invita a superare il nostro individualismo locale che canonizza il «non ti coinvolgere». Bandite per un momento la mentalità nostalgica e tanghera del «non andrò», per battere i profeti della sventura che già il cammino li trova vecchi e stanchi.

Nel mondo attuale c'è già troppo dolore e i volti rattristati come di coloro che nascondono la gioia pasquale e che credono nella Buona Novella del Vangelo. Quindi proclamate con gioia che Gesù è il Signore. Questa gioia profonda che è generata proprio dal Signore.

Buenos Aires, 12 marzo 2005

Incontro arcidiocesano di Catechesi

Note al testo

[1] Riunione Plenaria della Commissione per l'America Latina (CELAM), Roma, 19 gennaio 2005.

[2] Lettera ai Catechisti, Buenos Aires, agosto 2004.

[3] Cfr. DCG 14-33.

[4] CELAM, Roma, 19 gennaio 2005.

[5] Cfr. COMISION EPISCOPAL PARA LA ACTUALIZACIÓN DE LAS LÍNEAS PASTORALES PARA LA NUEVA EVANGELIZACIÓN - CONFERENCIA EPISCOPAL ARGENTINA (CEA), Documento Navega Mar Adentro (NMA), Mayo 2003, n. 24.

[6] JORGE MARIO BERGOGLlO, Lettera ai Catechisti, agosto 2005.