Il silenzio degli in-docenti, di Alessandro D’Avenia
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Riprendiamo da La stampa del 12/12/2013 un articolo scritto da Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2014)
Il mio articolo su docenti, in-docenti, in-decenti ha suscitato un acceso dibattito, che voglio proseguire, cercando di sollevare non inutili “sensi di colpa” ma fecondi “amorosi sensi”. Spesso i docenti perdono l’amore originario per il loro mestiere a causa delle condizioni del sistema. Burocrazia. Famiglie assenti o aggressive. Ragazzi più o meno sdraiati. Stipendio. Questi sono i demoni che infestano la nostra professione e sembrano trasformare un docente in un in-docente (neologismo, ci tengo a ribadirlo, da prendere alla lettera: colui che non riesce più a trasmettere).
L’in-docente, pur rimanendo competente nella materia, perde gradualmente le sue “abilità relazionali”. Capita a tutti (anche solo a tratti) in questo mestiere, ma siamo sicuri che le cause ultime siano quelle segnalate? O quelle segnalate sono solo conseguenze di cui si traveste la vera causa?
La risposta è nella lettera di una docente di istituiti professionali che mi ha scritto a proposito del primo articolo:
In un professionale mi sono trovata benissimo, perché lì c’era un nucleo stabile di insegnanti e un vice-preside che avevano a cuore la scuola e quei ragazzi. Mi sono sempre confrontata con i colleghi di scienze e di fisica sui contenuti e su come proporli, su come gestire alcune situazioni in classe; questo è stato molto importante e mi ha dato la possibilità di raccogliere qualche frutto. Il collega di scienze mi ripeteva sempre che per quei ragazzi era importante avere di fronte degli adulti che credono in quello che fanno; lì, pure in modi diversi, ci credevano (quasi) tutti. Di conseguenza i ragazzi avevano comunque il senso della scuola, di come fosse giusto comportarsi. Spesso si comportavano male lo stesso, ma c’era la consapevolezza di questo “male”. Ho avuto sì delle sconfitte (insegnare a un professionale è come per un medico lavorare in oncologia: sai in partenza che il più delle volte non vinci tu), ma anche delle soddisfazioni. Ben diversa è stata l’esperienza in un altro professionale. Il problema maggiore è stata la mancanza di coesione fra gli insegnanti: la maggior parte dei miei colleghi aveva letteralmente alzato “bandiera bianca”, si era arresa e puntava alla sopravvivenza personale. I pochi che provavano ad affrontare i problemi si trovavano perciò di fronte a un muro. È stato un anno duro, perché non mi sono mai sentita appoggiata. Docenti e dirigente si perdevano in una burocrazia puntigliosa, mentre alcuni problemi enormi venivano ignorati perché “la scuola non ha gli strumenti”. Venivano approvati progetti che prevedevano gli interventi (purtroppo inutili) di alcuni pedagogisti ed educatori. Sicuramente, in condizioni diverse (con insegnanti che vogliono insegnare e mantenere vivo il “senso della scuola”), molti problemi sarebbero rimasti irrisolti, perché enormi, ma almeno la scuola si sarebbe offerta per quello che è, una scuola appunto, e non un contenitore, in cui i ragazzi bivaccano allo scopo di conseguire (immeritatamente) un titolo di qualifica professionale, senza la minima intenzione di alzarsi dalla sedia a sdraio.
Che cosa è ciò che la docente chiama “il senso della scuola”? Mettendo a confronto le due situazioni risulta chiaro: le relazioni tra docenti. Posso essere il più esperto della materia, ma se non amo più comunicarla, non amo più le persone a cui devo comunicarla, non amo più le persone con cui devo comunicarla, non passa niente di quello che conosco. Il sistema scuola è costituito da relazioni: con gli altri docenti, con i ragazzi, con i genitori.
In un mondo ormai basato sulla rete di persone e di saperi, la scuola è ancora fondata sul “broadcasting”: la “cattedra” emette messaggi indifferenziati ad un pubblico passivo. Per un cervello del 2013-14, che ha un modo di ascoltare e apprendere reticolare e partecipativo, e sempre meno analogico e frontale, è come essere sintonizzati su frequenze diverse. La scuola deve passare dall’età della radio-tv a quella della rete.
La rete costringe a tornare all’elemento umano della macchina. La lettera evidenzia che la differenza tra le due scuole non sono le mura, ma le relazioni tra docenti. Una scuola è a immagine delle relazioni dei docenti fra loro: funziona se funzionano queste relazioni. E quando funziona una relazione? Quando è reale. E quando è tale? Quando produce effetti, perché reale, insegna la scienza, è ciò che produce un effetto.
La relazione docente-studente che effetti produce se reale? La curiosità, il metodo, l’amore per la materia e quindi la conoscenza, la crescita reciproca. Se non ci sono questi effetti è perché non c’è la relazione. Perché non carichiamo le lezioni su youtube dove i ragazzi potrebbero comodamente guardarle quando vogliono e noi evitare ogni fatica? Perché prepariamo “quella” lezione per “quella” classe per “quel” giorno? Perché è nella relazione curata in modo unico che si comunica.
La relazione docente-docente che effetti produce se reale? Il sostegno reciproco, l’approfondimento di passioni comuni, l’arricchimento di porzioni di sapere che ci sfuggono, in alcuni casi l’amicizia. I docenti però spesso si fanno la guerra per invidia, per paura, per stupidità, o semplicemente si lasciano succhiare la vita da quei demoni di cui parlavo all’inizio. Il docente si spegne per solitudine preceduta dal velenoso “silenzio degli in-docenti”.
Solo l’umano rinnova i sistemi, non la tecnologia, e l’umano nella scuola è un intreccio di relazioni, ciascuna con beni specifici in gioco. Sparita la relazione sparisce il senso della scuola, statale o non, vecchia o nuova, di periferia o di centro che sia. Senza relazione emergono solo mura e funzionari (la fase terminale dell’in-docente è il funzionario). C’è scuola dove c’è relazione e costruzione di beni relazionali che senza quella relazione sarebbero irraggiungibili, come pretendere dall’acqua di fare a meno dell’idrogeno o dell’ossigeno: il senso della scuola è questo, il bene relazionale che solo la reciprocità educativa può produrre.
Non sono un dochisciotte a caccia di docenti ideali, ma di docenti nascosti dentro loro silenzio, che possano ritrovare luce attraverso pratiche virtuose, come accade in tante scuole che ho visitato (professionali, tecnici, alberghieri, licei…) e che sarebbero da imitare: docenti che lavorano in equipe con attenzione rivolta non solo alla loro materia, ma ai colleghi e agli alunni come persone. Docenti che continueranno a fallire come ci capita tutti i giorni nonostante gli sforzi, perché fallire è proprio dell’umano e delle relazioni. Ma docenti che, singolarmente e insieme, oltre a fallire, porteranno i ragazzi a scegliere: stare al gioco relazionale e creare insieme qualcosa di buono o lasciarsi andare?
La responsabilità dei ragazzi è una risposta non un presupposto.
Propongo per l’ultimo giorno di scuola di dicembre un’occupazione fatta dagli insegnanti. Tutti i docenti di una classe la occuperanno e terranno una lezione di mezz’ora sull’argomento che amano di più. Dovranno solo raccontarlo a studenti e colleghi seduti nella stessa classe, insieme. Si magnificherà il sapere e la propria passione di comunicarlo a colleghi e alunni, riuniti per quel che sono: una comunità di ricerca di ciò che ha valore. Assisteremo all’assenza degli in-decenti, al fiorire degli in-docenti, alla gioia dei docenti. Sognare una scuola per tutti in cui sarà possibile scegliere chi è capace di dare senso alla scuola è forse prematuro, ma sognare un giorno di scuola veramente libera nella scuola dell’obbligo è solo questione di scelte.