Senza macchia e senza ruga. La Chiesa dei puri. Callisto, Cornelio e la questione dei peccatori postbattesimali, di Manlio Simonetti
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 7-8/10/2013 un articolo scritto da Manlio Simonetti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Roma e le sue basiliche e, soprattutto, Basilica di S. Lorenzo fuori le mura in Roma: il diacono Lorenzo ed il vescovo Cipriano di Cartagine, al tempo delle persecuzioni di Decio e Valeriano, di Andrea Lonardo e Marco Valenti.
Il Centro culturale Gli scritti (1/12/2013)
La Chiesa senza macchia e senza ruga di Efesini 5,27 non era certo la Chiesa che Paolo aveva sotto gli occhi ma quella che egli vagheggiava per un futuro che credeva prossimo, la Chiesa degli ultimi tempi. In effetti dalle sue lettere e dagli altri testi della prima generazione cristiana risulta evidente che la vita della neonata comunità non era soltanto rose e fiori.
Il battesimo, in quanto purificava il neofita da tutti i suoi precedenti peccati e introduceva alla vita nuova in Cristo, era l'istituzione che avrebbe dovuto assicurare la purezza della Chiesa, ma nella realtà non era così, anche se la pressoché completa carenza di documentazione in proposito ci lascia del tutto all'oscuro riguardo ai provvedimenti che la comunità prendeva in merito a chi, già battezzato, incorresse in qualcuno dei peccati considerati particolarmente gravi in quanto pubblici, apostasia violenza adulterio.
Il comportamento di Paolo nei confronti del cosiddetto incestuoso di Corinto, il quale viene allontanato ma lasciandogli la possibilità del pentimento e della riammissione nella comunità, non fu avvertito allora come norma da applicare con regolarità, e nella Lettera agli Ebrei, da subito attribuita a Paolo, il peccato grave postbattesimale è comunque considerato irremissibile (6,4-8, e anche 12,16-17). Per lungo tempo questa norma è stata considerata dagli studiosi moderni effettivamente valida e generalizzata in tutte le comunità cristiane, senza tenere nel debito conto l'autonomia di ognuna di esse rispetto alle altre e le conseguenti varietà locali in ambito dottrinale liturgico disciplinare.
Questo equivoco ha pesato a lungo sulla valutazione del messaggio penitenziale che Erma rivolge ai fedeli della comunità cristiana di Roma e anche di fuori, più o meno tra gli anni Quaranta e Quarantacinque del II secolo, primo documento, a nostra conoscenza, che si occupi ex profèsso della questione del peccato postbattesimale.
Il messaggio, veicolato da uno scritto, il Pastore, prolisso e redatto in un greco approssimativo, era indirizzato a quanti fossero incorsi dopo il battesimo in qualche peccato grave e recitava: «Pentitevi del peccato che avete commesso, con sincerità e soprattutto in fretta, perché il tempo utile per la penitenza sta per scadere». Il messaggio era reso, per così dire, visivo, da una serie di immagini allegoriche, delle quali la più significativa è quella della torre, simbolo della Chiesa, la cui costruzione sta per essere completata: per il momento c'è ancora la possibilità, per chi ne è stato estromesso a causa del peccato, di pentirsi e di esservi riammesso, il che non sarà più possibile una volta completata la costruzione.
Erma non si è dato cura di esporre quale fosse, nella Roma cristiana del suo tempo, la prassi penitenziale praticata nella comunità, forse perché la considerava ben conosciuta dai suoi lettori o forse perché una vera e propria prassi penitenziale applicata con regolarità non c'era ancora.
Si è a lungo ritenuto, in base ai passi di Ebrei sopra citati, che anche a Roma il peccato grave postbattesimale fosse considerato irremissibile e comportasse l'allontanamento del peccatore dalla comunità. Su tale fondamento il messaggio di Erma andrebbe interpretato come una norma eccezionale e straordinaria: dato il gran numero dei peccatori postbattesimali che aspirano a rientrare nella comunità, è offerta loro una possibilità, non ripetibile, di pentirsi ed essere riammessi.
Ma più di recente questa interpretazione del messaggio di Erma è stata revocata in dubbio da più di uno studioso, e in effetti nulla ci assicura che nella Chiesa di Roma fosse in vigore la norma fissata da Ebrei. È vero che Erma parla di alcuni maestri che ritenevano non ci potesse essere altra penitenza se non quella battesimale, ed egli in linea di principio è d'accordo (31,1-2): ma questa norma non sembra presentata come prassi effettivamente in vigore a Roma, e soprattutto in precedenza (7,4) Erma aveva interpellato ironicamente un tal Massimo come attualmente membro della comunità pur essendo in precedenza incorso nel peccato di apostasia, il peccato più grave di tutti.
In definitiva, quello che con ragionevole sicurezza si può ricavare dal Pastore, è che nella comunità cristiana di Roma, verso la metà del II secolo, il problema proposto dai peccatori postbattesimali era considerato importante e urgente. Per risolverlo Erma, che non faceva parte della gerarchia ma era in evidente accordo con i presbiteri che allora erano a capo della comunità (8,3), proclama una specie di giubileo, la possibilità di un perdono straordinario e irripetibile. È evidente che la proposta di Erma non era niente di più di un palliativo, in quanto evitava di trattare l'argomento della penitenza postbattesimale a livello di teoria, in modo da proporre una effettiva norma applicabile in modo regolare e sistematico.
La conferma dell'importanza di tale questione e della carenza di una norma di validità universale nella comunità cristiana ci viene, intorno agli anni Settanta del II secolo, dalla vicenda di Dionigi, vescovo di Corinto che godeva di molto prestigio nelle Chiese d'oriente del suo tempo. Tutto quello che sappiamo di lui si legge nella Storia della Chiesa di Eusebio di Cesarea (4,23): che è dire i destinatari di alcune lettere e alcuni passi estratti da quelle. Apprendiamo così che Dionigi aveva scritto anche alla Chiesa di Roma il cui vescovo era allora Sotero, lamentandosi che alcune sue lettere fossero state alterate, ed evidentemente su questa base egli era stato messo sotto accusa presso il vescovo di Roma.
Uno dei motivi di questa polemica era se il peccato postbattesimale fosse remissibile o no, e Dionigi si era espresso a favore della prima alternativa, affermando che si devono ricevere nella Chiesa i peccatori che si convertono da quale che sia peccato. I suoi avversari erano evidentemente di parere opposto, e il fatto che nella disputa si fosse fatto ricorso alla Chiesa di Roma fa ragionevolmente supporre che qui quella questione fosse tuttora aperta.
Ce lo conferma l'aspra polemica che negli anni Venti del III secolo oppose l'uno all'altro, nella comunità cristiana di Roma, il vescovo Callisto e un personaggio di alta condizione e grande cultura, autore di scritti pervenutici o adespoti o erroneamente attribuiti, per svariato tempo identificato come Ippolito di Roma. Questo nome è risultato infondato, e in mancanza di dati precisi lo definiamo abitualmente o Pseudo Ippolito o Autore dell’Èlenchos, dal nome del suo scritto più importante (Confutazione di tutte le eresie): solo per comodità continuiamo qui a chiamarlo Ippolito.
Il contrasto tra Callisto, vescovo ormai monarchico della Chiesa di Roma, e Ippolito, leader di una comunità scismatica, era in prima istanza di carattere dottrinale, in quanto Ippolito, valorizzando sulla scia di Giustino e altri, la qualifica di Cristo come Lògos di Dio, che si legge all'inizio del Vangelo di Giovanni, di fatto affermava una concezione di Dio pericolosamente vicina al diteismo, come gli fu rinfacciato esplicitamente da Callisto, a sua volta autore di una formula dottrinale tendente ad assorbire Cristo nella divinità del Padre.
Ma il contrasto aveva anche un risvolto disciplinare molto importante. Ippolito accusa Callisto di permettere l'accesso alla sua comunità a non pochi, anche ecclesiastici, che si erano macchiati di gravi colpe. Ippolito riporta nell'Èlenchos (9,12,22-23) l'argomentazione con la quale Callisto giustificava la sua politica di manica larga nei confronti dei peccatori, ovviamente pentiti.
In primo luogo si riportava al Paolo di Romani, 14,4: «Chi sei tu che giudichi il servo di un altro?»; quindi adduceva dalla parabola della zizzania (Matteo, 13,29-30) le parole del padrone che comanda di raccogliere la zizzania insieme col grano, «cioè i peccatori nella Chiesa», e infine rilevava come, prima del diluvio, Noè avesse fatto entrare nell'arca indifferentemente animali puri e impuri, «e diceva che così doveva essere nella Chiesa», lasciando cioè ognuno alla responsabilità della propria coscienza, in attesa del giudizio finale di Dio.
I due argomenti della polemica appaiono quanto mai distanti uno dall'altro: ma se li accostiamo, ecco che ci troviamo di fronte a due concezioni della Chiesa diametralmente opposte una all'altra. Da una parte abbiamo la Chiesa di Ippolito, caratterizzata dalla dottrina cristologica del Lògos, tanto aperta all’influsso della filosofia greca e perciò a quel tempo ancora monopolio di una élite di persone colte, per altro quanto mai rigida nell'ammettere la presenza, al proprio interno, soltanto di fedeli di acclarata purezza di vita. Apertura in ambito culturale e chiusura in ambito disciplinare caratterizzavano una comunità di eletti, di puri, tutta chiusa in se stessa e indifferente a quanto accadesse fuori, anche fra i cristiani meno privilegiati.
Di contro abbiamo la comunità di Callisto, nettamente maggioritaria, perché accompagnava a uno scarso interesse per i dotti approfondimenti dottrinali la massima apertura sul piano disciplinare, in quanto sensibile alle esigenze e alle necessità di chi si sentiva in crisi con la propria coscienza e cercava aiuto da parte della comunità. In definitiva una Chiesa di carattere più popolare. La concezione aperta della Chiesa di Callisto ebbe la meglio su quella chiusa e accentrata su se stessa di Ippolito, e questa prevalenza avrebbe fissato per lungo tempo a venire caratteri e struttura della Chiesa di Roma.
Il contrasto tra Callisto e Ippolito tornò a rivivere alcuni decenni dopo in quello tra Cornelio e Novaziano, che sconvolsela Chiesa di Roma in un contesto comunitario molto tormentato a causa della persecuzione di Decio.
Appena eletto nel 250, questo imperatore tradizionalista, nell'illusione di far rivivere tradizioni ormai obsolete, indisse una persecuzione, la prima generalizzata in tutto l'impero, a danno dei cristiani, invitati a presentarsi singolarmente ad apposite commissioni che, verificato l'avvenuto atto d'apostasia, consegnavano al neoapostata un libellus, cioè un certificato attestante il fatto.
La persecuzione, che faceva seguito a un lunghissimo periodo di pace, colse del tutto impreparati i cristiani, ormai molto numerosi, senza dubbio di sincera fede ma in massima parte non disposti a fare gli eroi. Qualcuno rifiutò di apostatare e fu o giustiziato sul momento o incarcerato in attesa di una nuova prova, qualche altro cercò di sottrarsi con la fuga, qualche altro ancora riuscì a procurarsi il libellus a pagamento (tutto il mondo è Paese), ma per il resto l'apostasia fu ovunque generalizzata.
La persecuzione durò soltanto pochi mesi, perché s'interruppe quando Decio fu sconfitto e ucciso dai Goti, ma gli strascichi provocati da questo vero e proprio tsunami durarono ben più a lungo. In effetti gli apostati, ormai tranquilli da parte dell'autorità imperiale in quanto forniti del certificato liberatorio, senza neppure attendere la fine della persecuzione cominciarono in massa a far pressione sui pochi presbiteri che in qualche modo erano riusciti a far funzionare le varie comunità durante la persecuzione, chiedendo la riammissione nella comunità, a volte anche in modo violento e aggressivo. Si impose perciò ai superstiti brandelli della gerarchia l'oneroso compito di stabilire se e a quali condizioni l'apostata, il cosiddetto lapsus, potesse essere riammesso nella comunità.
Abbiamo già rilevato che il peccato di apostasia era considerato il più grave di tutti, e ora vi era incorsa dovunque la grande maggioranza dei fedeli: la difficoltà era di non facile soluzione e provocò gravi disordini in tutte le comunità di cui in qualche modo ci è giunta notizia, Roma Alessandria Antiochia Cartagine e altre.
Qui ci interessa la vicenda della comunità di Roma, che conosciamo bene grazie, oltre al solito Eusebio, soprattutto all'epistolario di Cipriano, l'autorevole vescovo di Cartagine, che durante e dopo la persecuzione si mantenne in stretto contatto con i superstiti presbiteri romani.
In effetti, giustiziato a Roma il vescovo Fabiano già prima della proclamazione dell’editto di Decio, durante la persecuzione quel che restava della comunità fu in qualche modo amministrato dai presbiteri che erano riusciti a evitare l'arresto. Tra questi primeggiava Novaziano, personalità di spicco soprattutto sul piano culturale, autore di un prolungato scambio epistolare con Cipriano. Terminata la persecuzione e sotto la pressione dei lapsi che chiedevano, a volte pretendevano, la riammissione, si procedette all'elezione del nuovo vescovo.
Contro l'aspettativa di Cipriano e di altri, invece di Novaziano la comunità propose l'elezione di un altro presbitero, Cornelio, figura scialba e anodina. Novaziano non si rassegnò allo smacco e riuscì a farsi consacrare vescovo anche lui, provocando così nella comunità romana lo scisma che da lui ha preso nome. Ma la maggioranza dei fedeli si schierò con Cornelio, e così fece, dopo aver non poco esitato, anche Cipriano, e così anche la maggioranza, non però la totalità, dei vescovi delle principali comunità cristiane, a cominciare da Dionigi, vescovo di Alessandria di grande prestigio.
Un concilio di sessanta vescovi italiani, riunito a Roma nel 251, confermò la validità dell'elezione di Cornelio e anatematizzò Novaziano. La questione sembrava risolta, ma non fu così: lo scisma si diffuse ben oltre le mura di Roma ed era ancora vitale verso la fine del IV secolo, dalla Spagna a Costantinopoli.
In effetti alla base del contrasto romano, al di là del conflitto tra due persone, si era riproposta la motivazione disciplinare del contrasto tra Callisto e Ippolito, in quanto Novaziano, forse discepolo d'Ippolito, era rigorista e, vagheggiando l'ideale della Chiesa dei puri, rifiutava la riammissione degli apostati nella comunità, mentre Cornelio era di manica molto più larga e, come si regolarono allora quasi tutti i vescovi della cristianità, autorizzò la riammissione dei lapsi nella comunità a seguito dell'espletamento di una adeguata penitenza, fissata dopo l'esame caso per caso.
Era così definitivamente risolto, a pro della soluzione più aperta e ragionevole, la questione riguardante i peccatori postbattesimali; ma la persistenza dello scisma novazianeo dimostrava che l'ideale di una Chiesa senza macchia e senza ruga già in questa vita attuale, pur se nettamente minoritario ed emarginato, era duro a morire.