«La pagina “IN PRINCIPIO DIO CREÒ IL CIELO E LA TERRA” è stato come il freddo maestrale che ha pulito il cielo, che ha cacciato dal nostro orizzonte le chimere che l'oscuravano... I greci, a differenza degli ebrei, ammettevano una materia prima da cui sarebbe poi sorto il mondo... La Bibbia ebraica, per quanto dia piena soddisfazione alle esigenze della mente umana, è notoriamente teocentrica. L'uomo non è né il metro né il centro delle cose». Alcune riflessione sulla creazione in Genesi da un punto di vista ebraico (dal rabbino Dante Lattes)
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Riprendiamo sul nostro sito alcuni passaggi dal commento alla Parashàh Bereshìth, cioè a Gen 1,1-6,8, che si legge in apertura della lettura annuale della Torah, proposto da D. Lattes, Nuovo commento alla Torah, Carucci, Roma, 1986. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2013)
pp. 4-5
Non si è potuto negare alla prima pagina della Genesi quello che essa possiede di nuovo, di originale, di grandioso, di rivoluzionario. «La bella pagina «IN PRINCIPIO DIO CREÒ IL CIELO E LA TERRA» è stato come il freddo maestrale che ha pulito il cielo, come il colpo di scopa che ha cacciato dal nostro orizzonte le chimere che l'oscuravano. Una volontà libera, come quella che implica la parola creò, sostituita a diecimila volontà fantastiche, è a modo suo un progresso. La gran verità dell'unità del mondo e della assoluta solidarietà di tutti i suoi membri, misconosciuta dal politeismo, è almeno chiaramente intuita in quei racconti, in cui tutte le parti della natura sbocciano, grazie all'azione dello stesso pensiero e all'effetto dello stesso verbo». (RENAN, Hist. du peuple d'Israël, I, p. 80). E ancora: «Il narratore primitivo della Genesi ci fa assistere all'atto creatore. Noi vediamo il bocciolo del fiore sul punto di schiudersi; contiamo le pieghe che vi si sovrappongono, i molteplici significati che vi fan ressa, secondo l'essenza del mito che è quella di dire tre o quattro cose alla volta. Il risultato è grandioso, poetico, attraente. È un mare senza sponde, in cui è dolce naufragare» (ibid., II, 220). Non potendo dunque negare l'universalità del Creatore che mosse dapprima quelle cose belle, si è fatto tramutare dall'egoismo etnico posteriore quel Dio universale in un Dio nazionale che i profeti avrebbero finalmente riposto sul trono del mondo.
pp. 5-7
Dal testo della Bibbia la creazione appare avvenuta ex-nihilo, dal nulla. Nessuna materia o elemento è detto esistere prima. Il cielo e la terra del primo verso indicano le due porzioni del creato uscito dal nulla, l'uno la parte che è in alto ed è sede delle nubi, delle acque superiori, degli angioli, l'altra quella che è in basso, dove crescono le piante e gli animali, coi continenti e i mari. La terra appena creata era un'informe massa di materia (tòhu va-vòhu), sommersa sotto un liquido oceano (tehòm) tutto avvolto nelle tenebre (chòshech) e sfiorato dallo spirito di Dio (rùach Elohìm). I greci, a differenza degli ebrei, ammettevano una materia prima da cui sarebbe poi sorto il mondo. Di questa diversa concezione intorno alle prime origini delle cose si hanno gli echi fino dall'epoca farisaica. «Un filosofo - dice il Midrash - disse un giorno a Rabban Gamliel (I sec.): «Un grande artista è certo il vostro Dio; egli ha trovato però degli eccellenti materiali che lo hanno aiutato nella sua costruzione: il caos (tòhu e bòhu), le tenebre (chòshech), lo spirito o il vento (rùach), l'acqua (màim), e l'abisso (tehomòth)». R. Gamliel ribatté: «Ma anche questi elementi non erano stati altro che oggetti della creazione, come è esplicitamente dichiarato in altri passi biblici (Isaia, XLV, 7; Salmi, CXLVIII, 4; Amos, IV, 13; Prov., VIII, 24)». Secondo Neumark la dottrina della creazione monoteistica non poteva che sottoscrivere all'idea della creazione ex-nihilo, la quale era stata sostenuta non solo dalla Mishnàh, ma da alcuni apocrifi (Epistola di Aristea, II libro dei Maccabei) e dal Vangelo. Nell'Epistola agli ebrei (XI, 3) è scritto: «Per fede intendiamo che l'universo è stato formato mediante la parola di Dio in guisa che quel che si vede non è stato fatto da cose esistenti». [...]
Il compianto Gran Rabbino dell'impero inglese [J.H. Hertz] affermava che non c'è nulla di non ebraico nell'idea darwiniana intorno alle origini e all'evoluzione delle forme di esistenza, tanto è vero che il racconto biblico ammette la graduale ascesa dal caos amorfo all'ordine, dalla materia inorganica alle forme organiche della vita, dal minerale al vegetale, dall'animale all'uomo, purché non si dimentichi però che ogni stadio della creazione biblica non è prodotto del caso, ma è un atto della volontà di Dio. Questo divino intervento rappresenterebbe il dissidio irrimediabile fra Mosè e Darwin.
Renan aveva scritto con saggia misura: «Il vero è che la bella pagina con cui si apre la Genesi non è né dotta alla maniera della scienza moderna, né ingenua alla maniera delle cosmogonie pagane. È una scienza fanciulla; un primo tentativo di spiegazione delle origini del mondo, la quale implica un'idea giustissima della evoluzione successiva dell'universo. La chiara semplicità del genio ebraico e la limpidezza del racconto ebraico hanno soppresso le esuberanze mitologiche facendo di quella prima pagina un capolavoro dell'arte che richiede per certi soggetti di essere insieme chiaro e misterioso» (RENAN, 1.c., II, 387-8). «Le persone intelligenti si debbono convincere che intenzione della Torah non è l'insegnamento delle scienze naturali e che essa non è stata promulgata se non per indirizzare gli uomini sulla via dell'umanità e della giustizia, per infondere loro la fede dell'unità di Dio e nella Divina Provvidenza, giacché la Torah non era destinata soltanto ai dotti ma a tutto il popolo. Allo stesso modo che l'idea della Provvidenza non è stata esposta, né poteva esserlo, in forma filosofica, così neppure il fatto della creazione è stato narrato, né poteva esserlo, in forma filosofica. Iddio voleva far nota agli uomini la unità del mondo e l'unità della specie umana. Sono questi i due scopi che si propone il racconto delta creazione» (S.D. LUZZATTO, Il Pentateuco, 1871, pag. 2).
pp. 7-9
Nell'opera della creazione l'uomo rappresenta l'oggetto più nobile e più prezioso, sia perché egli è per la sua struttura e le sue doti intellettuali più vicino al creatore, sia perché sembra che esso sia il centro del mondo e, in terra, il signore degli altri animali. Josef Albo (morto nel 1440), ultimo fra i classici filosofici dell'ebraismo medioevale, afferma che dalle prime pagine della Genesi si ricava l'idea che la specie umana non solo è superiore a tutti gli esseri terrestri, ma che l'uomo solo è lo scopo principale della creazione di questo nostro mondo ('iqqàr kavvanath ha-jezirah ba-òlàm ha-shafèl) e per questo esso è stato l'ultimo ad essere creato fra gli animali (Iqqarim, I, 11). Questa supremazia dell'uomo sugli esseri e questa sua affinità col Creatore sono sottolineate nel racconto della Genesi e sono rilevate anche nella poesia ebraica, senza però che esse abbiano mai dato origine ad un sentimento di vanità e di orgoglio da parte del credente ebreo. Il poeta dei Salmi, di fronte alla magnificenza del creato, esprimeva la sua gran meraviglia nel riflettere alla speciale predilezione di Dio per i figli di Adamo. «Quando io vedo i tuoi cieli, opera delle Tue dita, la luna e le stelle che Tu hai creato, (io dico): che cos'è mai l'uomo perché Tu debba ricordarti di lui e il figlio di Adamo perché Tu ne abbia tanta cura? Tu lo consideri poco meno di Dio e lo circondi di gloria e di bellezza; Tu gli hai dato la signoria sulle opere delle Tue mani e tutto hai posto sotto ai suoi piedi: le greggi e gli armenti ed anche le bestie dei monti, gli uccelli del cielo ed i pesci del mare che percorrono le vie degli oceani» (Salmi, VIII, 4-9). E Giobbe (VII, 17-18) con minor candore e quasi con doloroso sarcasmo: «Che cos'è mai l'uomo perché Tu gli dia tanta importanza e lo degni della Tua attenzione, tanto da ricordarti di lui ad ogni alba e da esaminarne la condotta ad ogni istante?». L'uomo è in duplice maniera oggetto dell'attenzione divina: o allo scopo di conferirgli un superiore potere e una superiore dignità che le altre creature non posseggono o per controllarne tutti i passi e tutti i sentimenti, con inaudita severità; ciò che non accade nei confronti degli altri animali. Però, se esiste questa relativa superiorità e se l'uomo ha avuto la signoria sulle cose della terra (il poeta dei Salmi (CXV, 16) dice: «Il cielo è il cielo del Signore, ma la terra l'ha data ai figli di Adamo») l'ebraismo non pare abbia mai accarezzato l'orgoglio e la vanità della specie umana, la quale ha creduto fino ad un certo momento di essere il centro e lo scopo di tutto quanto esiste nel cielo e sulla terra. Una delle cause che, secondo Maimonide, portano fuori di strada l’intelletto umano e rendono l'uomo schiavo di se stesso, è di considerarsi scopo del mondo, il quale non sarebbe stato creato altro che per lui: «La più gran parte dei dubbi che provocano lo smarrimento umano hanno la loro origine nell'errore per cui l'uomo immagina che tutto ciò che esiste esista soltanto per lui» (Morèh nevukhim, III,25).
«L'antropocentrismo sembra così radicato nell'uomo quasi che fosse innato in lui. L'uomo è avvezzo a considerare il piano divino del mondo come un piano che miri al progresso dell'individuo e della collettività. L'uomo, come scopo dell'universo, è per naturale conseguenza il metro del mondo. Contro questa idea che sembra centrale nel pensiero umano e che apparirebbe consacrata dall'ebraismo che ha sottolineato il valore dell'uomo e della sua libertà e il valore della società, contro quest'idea Maimonide muove la sua battaglia. Egli è stato il primo che abbia osato di far discendere l'uomo dal suo piedistallo di gloria in cui si era collocato da sé. E in questo ha anticipato la scienza la quale aveva atteso a farlo fino che non ebbe abolito la credenza nel geocentrismo, cioè fino a Copernico e Galileo. L'uomo non è lo scopo di quanto esiste. Solo nel mondo dei fenomeni, nel nostro ristretto e limitato mondo, l'uomo è l'essere più privilegiato. Entro questa angusta cornice sembra che tutto sia creato per l'uomo e sia al suo servizio. Ma questo mondo non è tutto ciò che esiste e non si può dire che tutto sia stato creato per la sua gloria. «Se dirà che tutto quanto esiste sotto l'emisfero della luna è fatto per lui, ciò sarà sotto questo aspetto vero; è però sciocco pensare che tutto quanto esiste è fatto per l'uomo, il quale è piccolissima parte del creato e non ha nessun valore relativamente a tutto l'universo esistente» (Moreh, III,12-13). È un'auto-divinizzazione ed una forma di idolatria per effetto della quale sfugge purtroppo all'uomo la visione del più grande universo. Noi dobbiamo invece avvezzarci a considerare l'uomo non già come il centro del mondo, ma come il gradino più umile del mondo reale ed allora ci si riveleranno i gradini di tutto ciò che esiste fino al più alto, che è di essi il più perfetto, ed in ultimo acquisteremo l'idea dell'Ente necessario, fine a se stesso e scopo di tutto quanto esiste. Allora ci considereremo parte e scopo di questa realtà e procureremo colle oneste azioni e coi puri pensieri di servire questo supremo fine di cui siamo parte sostanziale anche noi» J. KAUFFMANN, Moreh Nevukhim di MAIMONIDE, parte I, Prefazione, pag. XL-XLI).
«La Bibbia ebraica, per quanto dia piena soddisfazione alle esigenze della mente umana, è notoriamente teocentrica. L'uomo non è né il metro né il centro delle cose» (LEON ROTH, Jewish Thought in the Modern World in The Legacy of lsrael, Oxford, 1928, p. 437).