Staccare la spina? No al supermarket morale, di Claudio Magris
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 10/12/2006 un articolo scritto da Claudio Magris. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/11/2013)
N.B. de Gli scritti. Presentiamo sul nostro sito questo articolo non perché lo condividiamo integralmente, ma per aprire una discussione sui problemi indicati.
L'eutanasia, con tutti gli interrogativi e le contraddizioni ch'essa comporta, invade le prime pagine dei giornali non quale problema generale da affrontare in sede legislativa - con la razionale e lucida freddezza necessaria alla discussione di ogni punto di un ordinamento giuridico - bensì emerge e travolge ogni volta le coscienze, le emozioni, i sentimenti con l'urgenza lacerante del singolo caso, ovviamente quasi sempre un singolo caso estremo di sofferenza e devastazione, che coinvolge l'assoluto dei valori, dell'etica, del sentimento universale-umano più che la relatività, la responsabilità e la coerenza logica di un codice penale.
I casi estremi - quello odierno di Piergiorgio Welby, quelli più o meno recenti di Terri Schiavo, ridotta ad uno stato vegetativo per quindici anni e la cui sorte dipendeva dalle diverse volontà di diversi familiari che si arrogavano il diritto di decidere per lei, quello di Ramona Maneiro che ha somministrato il cianuro all'uomo amato paralizzato da tre decenni, e molti altri - rendono più arduo ogni discorso sugli opposti principi morali e sulle opposte misure legislative chiamate in causa.
Oltre ad un certo limite, quando la condizione umana viene radicalmente sfigurata o il dolore diventa insostenibile, ogni comandamento o divieto, ogni imperativo morale categorico, ogni articolo di codice appaiono grottescamente inadeguati a quell'intollerabile strazio, assurdi, quasi caricature di se stessi.
Il segreto di ogni individuo - anche di un abietto assassino - non è mai del tutto comprensibile per l'articolo di legge che lo condanna; il codice penale russo non può capire a fondo Raskolnikov. Ma non può nemmeno evitare di mandarlo in Siberia, perché anche le due vecchie sue vittime, misteriose quanto lui e quanto ogni uomo, devono essere tutelate.
Se si inizia a transigere su una norma etica o giuridica, non si sa dove si va a finire o meglio lo si sa benissimo: si approda a un supermarket morale in cui ogni comportamento è optional e ciascuno sceglie quello che gli pare e gli fa comodo, magari convinto di combattere un'elevata battaglia, giacché tutti noi abbiamo la tentazione di nobilitare la nostra prosaica esistenza col pathos di grandi ideali e con la gratificante convinzione di essere perseguitati per questa battaglia anche quando non lo siamo affatto, per sentirci - pur nella più innocua banalità quotidiana - dei piccoli Galilei minacciati dall'Inquisizione.
Proposta in nome della pietà e della dignità umana, l'eutanasia può divenire facilmente un'obbrobriosa anche se inconscia igiene sociale; l'arbitrio di chi, in nome della qualità della vita, afferma che al di sotto di una certa qualità la vita non è degna di essere vissuta e si conferisce il diritto di stabilire quale sia il livello che autorizza a eliminare chi non lo possiede. Indubbiamente, per molti dei milioni di bambini spaventosamente denutriti che ci sono al mondo - e spesso lesi, nella loro scandalosa condizione, pure nel pensiero e nell'affettività - la morte sarebbe una sventura minore della vita infame che li attende, ma è dubbio che ciò autorizzi la loro eliminazione.
Un'ideologia che si autoproclama progressiva abbina spesso, scorrettamente, l'eutanasia all'aborto, che è una realtà completamente diversa. In primo luogo c'è un momento preciso in cui inizia la vita di un individuo, mentre è spesso difficilissimo o impossibile tracciare una frontiera tra la doverosa lotta alla malattia e l'inutile e crudele accanimento terapeutico. Inoltre nell'eutanasia ci si propone di porre fine all'esistenza di un individuo nel suo interesse, mentre nell'aborto - almeno in quello non terapeutico - si sopprime un individuo nell'interesse di altri.
Sono, siamo tutti contrari all'insensato accanimento terapeutico ed è sacrosanto che a Giulia, la ragazzina di Firenze progressivamente devastata da un tumore, sia stata risparmiata l'ultima chemioterapia, atta solo a differire di poco la sua morte, consentendole così di vivere più umanamente e pienamente la sua stagione estrema, breve ma non perciò meno importante e significativa, perché un giorno non vale necessariamente meno di un mese e anche un'ora di felicità è un assoluto, che sta eterno in Dio non meno di un secolo di storia. Ma dov'è la frontiera tra l'iniquità e la carità del gesto che interrompe l'esistenza di un altro? Ho conosciuto, pure da vicino, infanzie devastate per anni da quella crudeltà (della natura, del caos, della vita, di un dio, di chissachi) cui dobbiamo dire di no e anzi sputare in faccia; creature accompagnate sino alla soglia ultima con un affetto, una vicinanza, un mai arreso amore che ha permesso loro di esprimere per quanto potevano, sino all'ultimo, la loro persona sulla quale la vita passava come una ruspa perversa e idiota.
La scelta di chi è stato loro vicino in quel modo non è meno difficile ed eroica di quella di chi, mosso da altrettanto amore, sceglie di risparmiare a chi ama le sofferenze della distruzione. Togliere - letteralmente o metaforicamente - la spina può essere comunque un gesto amoroso e coraggioso solo se lo si fa pensando al bene dell'altro e non, magari inconsciamente, alle proprie sofferenze per il suo stato, che la sua morte infine placa. Bernanos parlava di certe anime così sensibili da non poter sopportare la vista di una bestiola che soffre sicché finiscono per schiacciarla col piede. Piergiorgio Welby - che rappresenta idealmente tanti altri compagni di sventura - ha liberamente, consapevolmente chiesto di morire. Qualsiasi filosofia o religione si professi, non si può non essere scossi da questa sua volontà e non sentirla vicina.
Certo, ognuno di noi ha doveri che potrebbero contraddire il suo proposito di morire; un pilota, direbbe uno di quei predicatori di un tempo amanti degli esempi eclatanti, non dovrebbe suicidarsi mentre guida l'aereo con i passeggeri di cui è responsabile, e ognuno è sempre in qualche modo pure responsabile di vite altrui, che si intersecano con la sua, e delle ferite che un suo gesto può loro inferire.
Ma nessuno può sapere se e quando il dolore e il peso di un'esistenza si fanno insostenibili; possiamo decidere di portare una croce pesante al punto di schiacciarci, ma non possiamo dire a chi cade sotto il peso della sua croce di continuare a portarselo. E nessun estraneo che in quel momento non soffre o soffre di meno può definire moralmente lecito o illecito il gesto di chi, schiantato dalla pena, decide di ritornare volontariamente agli elementi dissolvendosi in essi o di cadere volontariamente in quell'abisso insondabile che, diceva il teologo gesuita Karl Rahner, è Dio stesso; in quella notte che è forse la forma in cui ci si presenta la mano di Dio in cui cadiamo. Grandi civiltà come quella classica non hanno avuto paura della morte né del suicidio, che - non necessariamente solo in circostanze disperate, ma per vari motivi - la anticipa, comunque di poco.
È una grande perdita che si sia perduta questa naturalezza della morte. Non è la vita a essere sacra; la vita è mera opinione, diceva Marco Aurelio, ed è arduo dire, dinanzi alle piramidi di sofferenze accumulate in milioni di anni, che essa sia un bene e che il big bang sia un anniversario da festeggiare.
Ma sacri sono i viventi; in primo luogo gli esseri umani, che non hanno chiesto di vivere né hanno meritato di essere condannati a morte, e che hanno diritto a tutto il rispetto, a tutto l'amore, a tutta la sacralità possibili. Anche le richieste come quella di Welby devono essere considerate in questa sacralità.
Ma, visto che l'interessato non è materialmente in grado di soddisfare la sua richiesta, chi può - o deve o non deve - esaudirla? I medici, si dice, che possono valutare meglio di altri la sua condizione e ciò che lo attende. Ma i medici possono solo dire, con buona approssimazione, quello che lo aspetta, non il senso della sua sofferenza, della sua sopportazione o del suo rifiuto. Il loro giudizio di fatto non è automaticamente un giudizio di valore. Non a caso la scienza medica oscilla così spesso tra la tentazione di onnipotenza e la vile riluttanza ad assumersi delle responsabilità, forse anche in questo caso.
Lasciare la decisione alla famiglia, si dice. A quali membri della famiglia, qualora siano in disaccordo, come nel caso di Terri Schiavo lo erano il marito e i genitori? La sorte di una persona deve dipendere dal maggiore o minore affetto nutrito da altri nei suoi confronti o addirittura, talora, da interessi materiali, che possono indurre ad auspicare, a seconda dei casi, la sua morte o la sua sopravvivenza in qualsiasi condizione? È discutibile poter disporre della vita di non altro solo perché lo si è messo al mondo o perché si è fatto all'amore con lui o con lei. La famiglia non è e non può essere un tribunale tribale con diritto di vita e di morte; come tale essa, in Occidente, grazie a Dio è finita sin dai tempi della tragedia greca degli Atridi.
Qualcuno, per amicizia o per amore o per un comandamento della sua coscienza, può sentire il dovere di porre fine alle sofferenze di un altro, come l'ingegner Ezio Forzatti che ha staccato la spina alla moglie in ospedale, impedendo (con una Beretta scarica) al personale di fermarlo. Egli, tuttavia, non ha mai reclamato il «diritto» di compiere quel gesto e ha dichiarato di voler scontare la pena come un lutto. In qualche modo ha sentito che il suo agire era insieme giusto e punibile e si è assunto la responsabilità delle sue conseguenze.
Si può rispettare un gesto compiuto contro la legge che lo vieta, ma senza per questo voler spianare la strada alla trasgressione delle leggi vigenti, favorendo così un caos feroce. Esistono ad esempio sofferenze psichiche spaventose; una gravissima depressione può provocare una disperazione che chiede comprensibilmente di essere messa a tacere con qualsiasi mezzo, anche se per il nostro automatismo concettuale staccare una spina sembra diverso dal dare del cianuro a un nostro fratello preda di un'angoscia definitiva e insostenibile.
In tante incertezze una cosa è certa: non ci si può ipocritamente tranquillizzare convincendosi che vi sia una differenza sostanziale fra staccare una spina o praticare un'iniezione letale, perché entrambe danno con certezza la morte e un'iniezione può essere perfino più pietosa. Se, in un caso estremo, si ritiene meno ingiusto abbreviare la sofferenza e la vita di un altro non si può imbrogliare se stessi dandosi ad intendere, solo perché si è scelta la spina e non l'iniezione, di non aver fatto nulla e di aver lasciato fare alla cosiddetta natura.
La quale, peraltro, è così bella e seducente, ma sembra troppo spesso sbagliare conti e calcoli e infischiarsene crudelmente.