«Gli scritti di Solženicyn ci destarono dal sonno, rivelandoci una realtà più orribile di quanto osassimo immaginare», di Angelo Bonaguro

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /06 /2014 - 15:30 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Angelo Bonaguro pubblicato il 2/11/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Il novecento: il comunismo nella sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (2/6/2014)

È stata inaugurata al museo «Terror Háza» di Budapest la mostra dedicata a Un patriota russo: Aleksandr Solženicyn. Come ha sottolineato la direttrice del museo Mária Schmidt, è la prima volta che in Ungheria viene dedicata una mostra così ampia alla figura del grande scrittore russo. Il museo, aperto nel 2002, è situato nell’edificio ottocentesco che nel 1944 ospitò una prigione nazista e dal 1945 al ’56 fu la «casa del terrore» dove la polizia comunista interrogava, torturava e deteneva i nemici del regime. Oggi ospita su quattro piani un percorso dedicato alle dittature nazista e comunista. La mostra temporanea espone immagini, video e materiali d’archivio messi a disposizione dalla Fondazione Solženicyn di Mosca, e vuol essere, oltre che un omaggio al personaggio, un’occasione per avvicinare le giovani generazioni al recente passato.

«A prescindere dall’età e dalla nazionalità noi tutti siamo nati a Budapest, siamo andati a scuola a Praga, ci siamo fatti le ossa nei lager sovietici e infine abbiamo raggiunto la maturità nei cantieri di Danzica», scrisse il dissidente russo Vladimir Bukovskij per indicare il filo rosso che univa questi popoli in un comune destino e desiderio di libertà. L’insurrezione ungherese del ’56, e la conseguente repressione militare sovietica, gettò nuove ombre sulla politica con cui Chruščev cercò di sedurre l’Occidente. «Nel contesto della destalinizzazione – ha scritto lo storico russo Judin – l’Ungheria propose un suo progetto di rivoluzione socialista che era assolutamente inaccettabile per un gigantesco impero che aveva monopolizzato l’unica teoria rivoluzionaria autentica». Per l’homo sovieticus quanto accadeva in Ungheria rappresentava una «restaurazione del capitalismo» e temeva che la politica di Imre Nagy avrebbe condotto alla rottura completa con il campo socialista.

Se poche furono le voci di protesta che si levarono in Urss, tuttavia in alcune università comparvero volantini di solidarietà con gli insorti, slogan di sostegno echeggiarono a Leningrado mentre durante un’assemblea per l’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, in una fabbrica lèttone qualcuno chiese coraggiosamente: «Ma quando succederà anche da noi?». Solženicyn, che all’epoca era appena rientrato in Russia dall’esilio kazako, fece cenno agli avvenimenti ungheresi nella prima parte di Arcipelago GULag parlando della «sistematica miopia e stupidità» di Roosevelt e Churchill i quali non assicurarono «alcuna garanzia di indipendenza all’Europa Orientale».

I suoi scritti – ha ricordato il premier magiaro Viktor Orbán intervenendo all’inaugurazione – circolavano nel samizdat ungherese e «ci destarono da un lungo e terribile sonno, rivelandoci una realtà che era ancor più orribile di quanto osassimo immaginare… Quei testi erano la cura contro il tumore in cui si era trasformato il sistema basato sugli ideali socialisti e che alla fine degli anni ’70 si andava metastatizzando in molte parti del mondo, lasciando dietro di sé milioni di morti. La penna di Solženicyn era guidata dal senso del dovere verso le vittime e dal senso di responsabilità verso i vivi». Anche Solženicyn, come altri protagonisti del dissenso, pur criticando il comunismo, «si opponeva innanzitutto a quelle concezioni del mondo che miravano a strappare dalle persone la loro autentica umanità». Citando san Giovanni, Orbán ha osservato come per lo scrittore russo il cristianesimo non implicava solo l’accettazione della sofferenza ma anche il problema dell’ingiustizia: «Molti oggi pensano che comportarsi da cristiani significhi unicamente porgere l’altra guancia. Questa è solo una parte di verità, perché non vanno dimenticate le parole evangeliche con cui ci rivolgiamo a chi ci colpisce senza ragione: “Se ho parlato male, dimostra il male che ho detto; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”». Per Orbán l’eredità peggiore del comunismo è la distruzione della reciproca fiducia tra le persone e tra i cittadini e le istituzioni: «La fiducia è un rapporto che va coltivato in anni di duro lavoro ma che può essere perso in un battito di ciglia. Il comunismo ateo, lentamente ma sistematicamente, ha separato la società dai valori che avevano determinato le relazioni civili durante i secoli».

Per superare questa eredità nefasta e ricostruire la cultura della mutua fiducia, il patriota Solženicyn «non ci propone l’autocritica come facevano i compagni, e nemmeno di prendere le distanze da quel passato che è parte costitutiva della nostra storia e della memoria di milioni di persone. No, egli incoraggia ogni paese post-comunista a convertirsi e a rinnovarsi. Come leggiamo nel preambolo della nuova Costituzione ungherese, che si apre con queste parole: “Dichiariamo che, dopo i decenni del XX secolo forieri di decadenza morale, è necessario un rinnovamento spirituale e intellettuale”. Perciò solo rivolgendoci alle nostre radici cristiane possiamo ripristinare la fiducia dei cittadini e costruire un paese rinnovato». È facile intuire come simili dichiarazioni possano infastidire un certo relativismo nichilista diffuso in Europa.

La mostra rimarrà aperta fino al marzo prossimo.