San Luigi dei Francesi. L'età di Caravaggio, Bruno e Galilei

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /11 /2013 - 14:16 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio le registrazioni ed i testi commentati nell'incontro tenuto da Andrea Lonardo il 29 ottobre 2013 su L'età di caravaggio, Bruno e Galilei, presso la chiesa di San Luigi dei Francesi. Per altri files audio vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (3/11/2013)

Registrazione audio

Download sluigi_caravaggio_bruno_galilei.mp3.

Riproducendo "sluigi caravaggio bruno galilei".


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Ufficio catechistico di Roma www.ucroma.it (cfr. anche www.gliscritti.it )

Indice

Programmazione 2013-2014

Stage per i catechisti della pastorale battesimale
- La diocesi propone, ove non siano stati fatti, stage di formazione per nuovi catechisti per la pastorale pre e post-battesimale a partire dal Sussidio di pastorale battesimale già disponibile. Dove siano già stati fatti, invece, propone un secondo stage sul cammino delle famiglie ed uno scambio di esperienze sul lavoro fatto.
Gli stages saranno organizzati dalle prefetture in collaborazione con l’Ufficio catechistico e l’Ufficio liturgico.

Incontri formativi di prefettura per i catechisti
- La diocesi invita ogni prefettura ad organizzare tre incontri formativi per tutti i catechisti sui seguenti temi:
a/ La vita secondo lo Spirito e la vita secondo la carne
b/ La fede è capace di illuminare il matrimonio, la famiglia e la sessualità
c/ Le esigenze etiche irrinunciabili che sono a fondamento del diritto e della politica

Itinerari di formazione e spiritualità
Viaggio di studio in Grecia (orientativamente 21-30 luglio)

Corso sulla storia della Chiesa di Roma (VII anno): dall’età barocca all’illuminismo
Sabato 29 ottobre 2013 – ore 20.45 San Luigi dei Francesi: L’età di Caravaggio, Bruno e Galilei.
Sabato 7 dicembre 2013 – ore 9.45-12.00 Sant’Agnese in Agone: L’età barocca e la fede.
Sabato 18 gennaio 2014 – ore 9.45-12.00 San Pantaleo: I santi della carità in età barocca.
Sabato 15 febbraio 2014 – ore 9.45-12.00 Santa Maria in Via Lata: Dalla monarchia assoluta all’illuminismo.
Sabato 12 aprile 2014 – ore 9.45-12.00 Santa Susanna alle Terme di Diocleziano: La nascita degli Stati Uniti
ed il pensiero liberale.

Una Bibbia da amare. Stage sul libro della Genesi
Giovedì 14 (sera con il rabbino Di Segni su Gen 1 e 2 nella lettura ebraica) e sabato 16 (mattina con Andrea Monda su Lewis, Tolkien e la creazione, Gianluigi Prato sui racconti di creazione dell’Oriente antico, preghiera dei Salmi della creazione commentata dalle suore del monastero) novembre 2013, Monastero dei Santi Quattro Coronati.

Maestri della catechesi e dell’educazione. Stage su Giovannino Guareschi.
Venerdì 14 (sera) e sabato 15 (mattina) marzo 2014, Pontificio Seminario Romano Maggiore.

Bernini, Borromini e il barocco: la trasmissione della fede nell’arte
- Lunedì 5 maggio 2014 – ore 21.00-22.30 Santa Maria della Vittoria: Bernini.
- Lunedì 12 maggio 2014 – ore 21.00-22.30 San Carlino alle Quattro Fontane: Borromini.
- Lunedì 19 maggio 2014 – ore 21.00-22.30 Santi Luca e Martina al Foro Romano: Pietro da Cortona e gli altri.

Catecumenato
Incontro del papa Francesco con i catecumeni per la chiusura dell’Anno della fede, sabato 23 novembre alle ore 16.00

Materiali disponibili sul canale Youtube Catechistiroma
- PRIME COMUNIONI 1 - TRASMETTERE AI BAMBINI IL CUORE DELLA FEDE
- CRESIME 1. RACCONTARE AI RAGAZZI LA FORZA DELLA CONFERMAZIONE

Un’offerta per le fotocopie e per lasciare qualcosa alla chiesa che ci ospita, se possibile!

1/ I dipinti secondo l’ordine iconografico

I/ La vocazione

Mt 9,1Salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città.
9Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Mc 21Entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni. 13Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. 14Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.

Lc 527Dopo questo Gesù uscì e vide un pubblicano di nome Levi, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi!». 28Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì. 29Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla numerosa di pubblicani e di altra gente, che erano con loro a tavola. 30I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: «Come mai mangiate e bevete insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 31Gesù rispose loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; 32io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano».

II/ Matteo e l’Angelo

Mt 1,1Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. 2Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, 3Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, 4Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmon, 5Salmon generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, 6Iesse generò il re Davide.
Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria, 7Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asaf, 8Asaf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, 9Ozia generò Ioatàm, Ioatàm generò Acaz, Acaz generò Ezechia, 10Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, 11Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.
12Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatièl, Salatièl generò Zorobabele, 13Zorobabele generò Abiùd, Abiùd generò Eliachìm, Eliachìm generò Azor, 14Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, 15Eliùd generò Eleazar, Eleazar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, 16Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.
17In tal modo, tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici.

III e IV/ La resurrezione del figlio di Egippo ed Il martirio di Matteo

la prima del Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari) sulla volta (1591-1593) con a dx Isaia e Daniele e a sx Ezechiele e Geremia 

da Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Einaudi, Torino, 1995, pp. 771-772 (riprende la Passione latina di Matteo detta dello pseudo-Abdia, scritta dopo il 550)
Mentre Matteo stava predicando queste cose [nella città di Naddaver o Natdaber in Abissinia, cioè in Axum, il regno a cui apparteneva Candace di At 8,27 ss., anche se generalmente si dice in Etiopia; il riferimento di Matteo all’Etiopia è presente in Rufino (HE III,1.X,9), Socrate (HE I,19), Eucherio di Lione (Bibl. Patr. Max. VI, 852, Gregorio Magno In Re 4,4, cfr. M. Erbetta (a cura di), Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, II, Atti e leggende, Marietti, Genova, 1992, p. 518], si sentì rumoreggiare la folla, perché era morto il figlio del re. I maghi, non riuscendo a resuscitarlo, seppero convincere il re che era stato rapito e portato al cielo fra gli dei, e perciò fecero fabbricare una statua e costruire un tempio in suo onore. Però l'eunuco, di cui s'è fatta sopra menzione, riuscì a far trattenere i maghi e poi chiamò l'apostolo, che pregò e lo resuscitò. Per questo il re, che si chiamava Egippo, mandò a dire in tutte le sue province:
- Venite a vedere Dio, nascosto sotto le fattezze d'un uomo. Accorsero con corone d'oro e con diverse specie di offerte sacrificali, con l'intenzione di farne sacrificio a lui. Matteo però calmò la loro esaltazione dicendo:
- Uomini, cosa state facendo? Io non sono Dio, sono soltanto un servo di Gesù.
Quelli allora presero l'oro e l'argento che avevano portato, e seguendo l'ordine di Matteo costruirono una chiesa, che riuscirono a portare a termine in trenta giorni; Matteo vi stette per trentatré anni, convertendo tutto l'Egitto alla fede; il re, la moglie e il popolo intero ricevettero il battesimo. La figlia Efigenia fu offerta a Matteo, che la dedicò a Dio e la mise a capo di più di duecento vergini.
Poi Irtaco succedette a Egippo, e cominciò a provare un violento desiderio di Efigenia: giunse a promettere a Matteo metà del suo regno se l'avesse convinta ad acconsentire di diventare sua moglie. L'apostolo gli disse di venire la domenica in chiesa, come era solito fare il suo predecessore, e alla presenza di Efigenia e delle altre vergini sentire quanto buoni siano i giusti matrimoni. Il re ci andò in fretta, pieno di gioia, nella convinzione che Matteo volesse in questo modo favorire il matrimonio di Efigenia. Matteo radunò le vergini e tutti i fedeli, e parlò del bene del matrimonio: per questo ebbe molti complimenti da parte del re, che era per parte sua convinto che Matteo avesse detto queste cose per spingere Efigenia al matrimonio. Poi, quando riuscì ad avere il silenzio dell'uditorio riprese a predicare e disse: 
- Allora, se il matrimonio è cosa buona, quando si mantien fede al patto, sapete bene voi tutti che se qualche servo volesse far sua la moglie del re, non soltanto meriterebbe l'ira del re, ma anche la morte, e non per il fatto che ha voluto prender moglie, ma perché sarebbe giudicato colpevole di aver violato il matrimonio del suo re prendendosi la sua sposa legittima. E le cose stanno così per te, o re, che sai che Efigenia è divenuta sposa del Re Eterno, ed è stata consacrata col sacro velo: come potresti prendere la sposa di uno più grande di te e legarti a essa in matrimonio?
Il re perse la testa dalla furia e se ne andò; Matteo invece restò sereno e senza paura si mise a incoraggiare tutti alla pazienza e alla costanza; di fronte alle altre sante vergini benedisse Efigenia che si era per paura rifugiata presso di lui. Quando la messa era appena finita arrivò il boia mandato dal re: mentre Matteo stava con le braccia tese verso il cielo, il boia gli conficcò la spada nella schiena e lo uccise, consacrandolo martire. Quando i fedeli lo seppero corsero al palazzo del re per incendiarlo, ma furono a stento trattenuti dai preti e dai diaconi; celebrarono allora con gioia il martirio dell'apostolo.

2/ La cappella Contarelli, crocevia dell’evoluzione di Caravaggio

I/ Il martirio di San Matteo

da Caravaggio e le Storie di San Matteo nella cappella Contarelli: un’introduzione alla visita, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
È la prima tela dipinta con figure a grandezza naturale, enormi rispetto all’abitudine di Caravaggio che aveva fin qui dipinto solo quadri di dimensioni molto più ridotte. Le precedenti opere erano state dipinte per essere esposto in abitazioni private.La Cappella Contarelli rappresenta la prima committenza pubblica ed obbligò il maestro a misurarsi con dimensioni molto maggiori.
Le analisi radiografie del Martirio di San Matteo hanno evidenziato una precedente versione del dipinto, opera dello stesso Caravaggio: in questa prima versione le figure erano molto più piccole di quelle attuali. Caravaggio le aveva inserite in un’architettura, in una scena che si svolgeva in un interno – le radiografie hanno messo in rilevo, ad esempio, una parete con due pilastri ed una nicchia – e questa composizione aveva l’evidente scopo di “riempire” l’opera, oltre che di situarla.
Caravaggio dovette, però, rendersi conto che la tela così dipinta non era adeguata allo spazio della Cappella e sfigurava in un ambiente tanto grande. Per questo dipinse sulla precedente la versione attuale: è corretto dire, pertanto, che la cappella Contarelli fu decisiva nella sua evoluzione pittorica. Fu la committenza del ciclo su San Matteo che lo obbligò a modificare i canoni cui si era abituato: da quel momento il Merisi iniziò a misurarsi con figure a grandezza naturale, inserendole sempre più negli sfondi scuri che gli divennero caratteristici.

- un contesto sacramentale

Matteo con camice, cingolo e pianeta
altare con la croce, battistero con catecumeni o neofiti appena battezzati (non solo la predilezione per il nudo)

un cerchio di orrore e l’autoritratto del Caravaggio

- Caravaggio dipingeva precedentemente stendendo prima un fondo grigio
ora inizia a dipingere con uno fondo scuro (bruno, rossastro o nero) che rende “invisibile” lo sfondo (lo sfondo non è più importante; su questo sfondo emergono le figure con il colore che si sovrappone al fondo scuro

la pittura diviene più veloce
non disegna più con il carboncino un disegno previo, ma incide sul fondo scuro i tratti essenziali dell’opera

II/ La vocazione di San Matteo

da Caravaggio e le Storie di San Matteo nella cappella Contarelli: un’introduzione alla visita, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
L’opera è realizzata in un ambiente cattolico, in piena età controriformista, eppure si sottolinea che la Grazia irrompe nella vita dell’uomo. Non sono solo i documenti del Concilio di Trento ad attestare come la Chiesa del tempo difendesse la Grazia e come le opere dell’uomo non fossero sufficienti alla salvezza, ma anche la pittura del tempo lo esprime a suo modo. Certo la Chiesa di Roma affermava l’importanza della carità e delle opere a lei conseguenti, ma ben sapeva che le opere sono il frutto della Grazia perché è la fede che genera la carità.

Caravaggio aveva già utilizzato il taglio di luce che viene esaltato nella Vocazione di Matteo in un’opera precedente, e precisamente nella Maddalena penitente, conservata nella Galleria Doria Pamphilj. Nella tela è raffiguratala Maddalena con la sua ampolla contenente il balsamo per ungere il corpo di Cristo che è il suo attributo iconografico, vestita con abiti damascati bellissimi.
Qualcosa di indefinito avvolge la figura, al punto che è difficile dire in quale momento la Maddalena sia rappresentata, se dopo aver solo intravisto il maestro o se dopo aver già asciugato con i suoi capelli il Cristo. È evidente solo la dolcezza dell’incontro e come ella stia meditando su di esso: sta comprendendo che nel Signore sono dati a lei perdono e salvezza.

La vocazione di San Matteo è la II tela realizzata da Caravaggio per la cappella Contarelli.
Nella tela si vede sulla destra il Cristo, con un’aureola appena accennata, che chiama Matteo, il gabelliere, seduto a un tavolo, indicandolo con il braccio disteso. Si deve notare che il braccio del Cristo è una citazione del braccio di Adamo dipinto da Michelangelo nella Creazione dell’uomo sulla volta della cappella Sistina. Appare qui evidente che Caravaggio non è semplicemente un innovatore, ma è un innovatore amante della tradizione: anche il Merisi, come tutti, ha imparato a dipingere contemplando le opere realizzate prima di lui.
Caravaggio doveva aver visto e rivisto l’opera di Michelangelo, entrando quindi a più riprese nella Sistina, per riuscire a riproporre il particolare del braccio michelangiolesco. Forse avvertiva come una sfida il fatto di portare lo stesso nome di Battesimo del Buonarroti, ma certamente lo sentiva come maestro, come punto di riferimento con cui misurarsi – come avverrà anche nella Cappella Cerasi, chiaramente ispirata, come si è già detto, alla Cappella Paolina.
A livello simbolico, l’utilizzo di un particolare della Creazione di Adamo insinua che la chiamata dell’evangelista appartiene ad una nuova creazione. La grandezza del Merisi appare nell’amplificazione di questo livello evocativo-simbolico attraverso l’utilizzo della luce.

- abiti antichi e moderni

le 2 mani, vicine eppure diverse, la grazia e la libertà

Pietro: dalle radiografie emerge che è sovrapposto successivamente al Cristo, forse a sottolineare l’adesione al cattolicesimo di Enrico IV, ma certamente la cattolicità della committenza di San Luigi dei Francesi e di Caravaggio (non si può presupporre pacificamente che i grandi artisti siano dei “venduti”)

III/ San Matteo e l’angelo

- il difficile lavoro della sintesi: essenzializzare – sottrarre e non agiungere!

Si decise di ricorrere nuovamente al Caravaggio anche per la pala d’altare, trasformando l’idea di una scultura in quella di una nuova tela a completamento della Cappella. Evidentemente le due tele precedenti erano state talmente apprezzate che non esisteva ormai soluzione migliore che ricorrere al Merisi. Egli realizzò l’opera nel 1602.
La tela centrale è ancora più innovativa delle precedenti e, si potrebbe dire, Caravaggio è ormai giunto alla sua maturità artistica. In essa la raffigurazione si essenzializza e scompaiono tutti gli elementi secondari. Ormai contano solo pochissime cose.

Se si pensa alla Conversione di San Paolo che si trova nella cappella Cerasi è possibile comprendere ancor meglio questo passaggio. Una prima versione della conversione di Paolo - oggi nota come Pala Odescalchi - mostrava Cristo che si presentava a lui circondato da angeli, e tutta la scena era sovraccarica di figure. Nella versione definitiva, che è ancora in situ, si vedono solo tre figure: Paolo, il cavallo e lo stalliere. Eppure il livello evocativo e simbolico è ancor più impressionante. Lo stalliere non si accorge nemmeno di ciò che sta avvenendo, il cavallo ancora schiuma per la lunga corsa, mentre Paolo quasi cade fuori dal quadro. È come se dovesse essere preso fra le braccia dello spettatore, cieco perché Cristo lo ha talmente illuminato da avergli fatto capire di non aver visto prima alcunché di chiaro nella vita.
Solo la luce indica l’apparizione di Cristo risorto. Tutto è essenzializzato. Delle tre versioni della conversione di Paolo negli Atti degli apostoli non restano che quelle tre figure.

Anche della tela con San Matteo e l’Angelo Caravaggio dipinse una prima versione, che però abbandonò probabilmente perché era di dimensioni ridotte rispetto alla definitiva ed ancor più perché era molto meno efficace. Questa prima versione – era custodita a Berlino e andò perduta durante i bombardamenti della II guerra mondiale, ma fortunatamente ne rimangono copie fotografiche – era molto più ingenua: Matteo era sempre scalzo, ma l’angelo era rappresentato con grandi ali e sembrava muovergli le mani, quasi lo dirigesse senza lasciargli spazio di attività.
Anche la versione definitiva ha solo due figure: l’angelo e l’evangelista. Matteo sta componendo il suo Vangelo. Ha i piedi nudi, quasi a raffigurare la triviale umanità dell’uomo che pure è in grado di essere strumento vivo della messa per iscritto della Parola divina. Rispetto alla prima versione le due figure sono molto meglio caratterizzate ed indipendenti.
Per Caravaggio è importante anche qui raffigurare l’umanità senza finzione o abbellimenti. La Scrittura è ispirata dal Dio tre volte santo, ma questo non elimina il fatto che Egli si serva per la redazione di essa dell’uomo con la sua carne, con i suoi piedi sporchi e nudi, appoggiato ad uno sgabello che è in bilico, come avviene ad un ragazzo a scuola quando fa stare la sedia in equilibrio su due gambe. È l’uomo sempre in bilico, traballante, mai solido.
Caravaggio ripresenterà i piedi nudi nella figura dell’anziano pellegrino giunto con la moglie a Loreto nella Madonna dei pellegrini e, addirittura, nella Crocifissione di San Pietro della cappella Cerasi, metterà in primo piano il deretano del crocifissore di Pietro.

- la questione dell’ispirazione: in cosa consiste l’ispirazione dello Spirito Santo?

nella disputa fra Galieli e Bellarmino, Galilei è un buon esegeta (Dio ha scritto due libri, il libro della creazione ed il libro della Scrittura e questi due non possono contraddirsi – lettera a Cristina di Lorena, moglie del Granduca di Toscana, del 1615 – per cui se il libro della creazione afferma l’eliocentrismo, bisogna trovare il modo di interpretare benela Scritturaperché anche essa non può sbagliare), mentre Bellarmino è un buon scienziato che dubita delle ipotesi di Galilei perché oggettivamente non erano ancora fondate (non è dalle maree che si può dedurre il moto della terra, solo più tardi giungerà la prova scientifica del moto della terra)... a Galilei venne chiesto di presentare la sua posizione come una ipotesi e non come una certezza

la II versione del San Matteo e l’Angelo, oltre ad essere infinitamente più bella e giustamente dimensionata rispetto alla cappella, è più precisa teologicamente, della precedente nella quale l’angelo muove addirittura la mano di Matteo: la versione attuale è molto più moderna, l’uomo è molto più protagonista

- i piedi nudi, i deretani, gli sgabelli instabili: la carne in Caravaggio e in Michelangelo

cfr. ancora la Madonna dei Pellegrini, e la Crocifissionedi Pietro

Se la Conversione di San Paolo mostra il posteriore di un cavallo, la tela che gli sta di fronte, infatti, pone in evidenza natiche maschili: è un’immagine brutale, ma anch’essa appartiene all’iconografia cristiana. Michelangelo Buonarroti, addirittura, nella Creazione del sole e della luna della cappella Sistina aveva raffigurato il posteriore di Dio ed il Merisi lo segue, ponendo in evidenza tutta la concretezza dell’essere umano.
Tutto, ovviamente, è conseguenza dell’evento dell’Incarnazione. Se, prima di quel momento, valeva il divieto di raffigurare Dio - mantenuto dall’ebraismo con le eccezioni antiche delle sinagoghe di età bizantina e con la moderna eccezione di Chagall e accolto in maniera ancora più perentoria dall’islam – dopo l’Incarnazione si afferma al contrario l’obbligo delle immagini. Esse non sono idolatriche, non sono obnubilamenti umani: è Dio che si è mostrato nella carne, è Dio che ha assunto ciò che sembrava disdicevole. Dipingere un posteriore non è più una bestemmia, bensì è ormai un atto di fede: Dio si è fatto carne.
San Matteo sta scrivendo il Vangelo sotto forma di un codice. Evidentemente il Vangelo di Matteo deve essere stato redatto originariamente sotto forma di un papiro, ma il seicento immaginava in questo modo, invece, il materiale scrittorio. Carlo Maria Martini ha sostenuto con buone ragioni che la forma del codice sia stata creata proprio per rilegare in un unico volume l’intera Bibbia: per raccogliere insieme tutti i libri biblici divenne necessario abbandonare il papiro per passare al codice con le sue pagine. Questo aiutò a comprendere che i diversi libri della Bibbia erano in realtà un “unico” libro, poiché il codice li legava anche fisicamente.
Mentre Matteo scrive, guarda l’angelo. Attraverso questa figura Caravaggio esprime il fatto dell’ispirazione divina. Certo Matteo scrive, a piedi nudi, poggiato sullo sgabello inclinato, ma è l’angelo che scende ad ispirarlo, a suggerirglila Parola di Dio. Il manto dell’angelo è meraviglioso: quelle che apparentemente sembrano ali, sono in realtà un panneggio che avvolge l’angelo con un andamento curvilineo. Si vede come questo angelo sia molto più bello di quello dipinto sulle nubi che porge a Matteo la palma del martirio nella tela di destra. In pochissimi anni Caravaggio ha sviluppato il suo modo di dipingere. L’angelo è qui una figura centrale, che domina la scena insieme alla figura dell’evangelista.
Con il gesto delle mani, l’angelo indica che sta enumerando le genealogie che sono nel capitolo primo di Matteo: Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe e così va. Quel testo è umano, ma dentro quelle parole umane, Dio scrive la sua verità salvifica. Ulrich Luz, grande esegeta protestante di Matteo, è tornato recentemente a sottolineare che la genealogia di Matteo con tre serie di quattordici nomi ciascuna indica che l’intera storia della salvezza è un disegno che ha un ordine. La storia, l’universo intero, sono pensati da Dio ed Egli è capace di “scrivere diritto nelle righe storte della vita”, come affermano i saggi.
Comunque la tela caravaggesca ricorda quanto fosse chiara per la Chiesa controriformista la centralità della Scrittura. L’opera è del 1602 e ricorda figurativamente l’ispirazione divina della Bibbia. È semplificatoria l’affermazione di chi sostiene che la Chiesa cattolica abbia voluto tenere lontani i fedeli dalla Scrittura. In realtà, la disputa verteva sull’interpretazione stessa della Bibbia, mentre il suo perenne valore non venne mai messo in discussione. Eppure solo i movimenti “a sinistra” di Lutero difesero senza alcuna remora la lettura privata della Scrittura. Lutero, invece, dopo la rivolta dei contadini che si servì di una lettura impropria della Bibbia per aggregare a sé più adepti, divenne molto più cauto e redasse il Catechismo Maggiore e quello Minore perché servissero di base per la formazione cristiana. Anche Calvino e Melantone, così come l’anglicanesimo, insistettero sul fatto che, senza la predicazione dei pastori, la Bibbia era un testo di difficile interpretazione, pericoloso da leggere in solitudine.
Grazie all’invenzione della stampa, prima dell’avvento della riforma, la lettura della Bibbia stava divenendo un fenomeno sempre più largo. Le traduzioni nelle diverse lingue volgari erano un dato di fatto ben prima di Lutero; egli si limitò a presentare una nuova versione tedesca, diversa dalle versioni tedesche già circolanti. Carlo Maria Martini ha studiato la circolazione della Bibbia prima della riforma, arrivando ad affermare che si sono conservate 5500 copie di Bibbie fra il 1450 e il1500 in tutte le lingue volgari. Questo fenomeno ebbe una battuta d’arresto proprio a motivo delle polemiche sorte frala Chiesa cattolica ed il protestantesimo.
La lettura privata della Bibbia, senza previa autorizzazione ecclesiastica, venne vietata ai cattolici soltanto a partire dal 1595, pochi anni prima della tela del Caravaggio. Dal 1595 per tenere in casa una Bibbia divenne necessario un permesso dell’Ordinario: egli lo concedeva facilmente ma solo a chiunque desse garanzie di essere persona in grado di leggerla nella fede cattolica. La diffidenza cattolica verso la lettura personale della scrittura nacque dopo la riforma, per il rischio che taluni, senza una formazione adeguata, giungessero ad interpretazioni eterodosse.
Questo divieto era riequilibrato – poiché senza Scrittura non si da fede cristiana – dall’obbligo, espresso già dal Concilio di Trento, di spiegare la Sacra Scrittura nelle omelie e nella catechesi, obbligando i preti a non negare il pane della Parola necessario per il sostentamento e la formazione dei fedeli.
Insomma non si voleva la scomparsa della Parola di Dio, ma la sua lettura a servizio della fede. Così afferma testualmente il Decreto conciliare Sulla lettura della S. Scrittura e la predicazione (nn. 1.9.11):
«Lo stesso sacrosanto Sinodo [di Trento... ], perché non avvenga che il tesoro celeste dei libri sacri, che lo Spirito santo ha dato agli uomini con somma liberalità, rimanga trascurato, ha stabilito e ordinato che nelle chiese, in cui vi sia una prebenda o una dotazione, o uno stipendio comunque chiamato destinato ai lettori di sacra teologia, i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari locali obblighino, anche con la sottrazione dei frutti relativi, quelli che hanno questa prebenda, dotazione o stipendio, ad esporre e spiegare la Sacra Scrittura personalmente, se sono idonei, altrimenti per mezzo di un sostituto adatto, da scegliersi dai vescovi, dagli arcivescovi, dai primati e dagli altri ordinari stessi. Per il futuro tale prebenda, dotazione o stipendio non dovrà esser conferito se non a persone adatte, che siano capaci di esplicare tale ufficio da se stessi. Ogni provvista fatta altrimenti sia nulla e invalida. Poiché, tuttavia, alla società cristiana non è meno necessaria la predicazione del Vangelo, che la sua lettura, e questo è il principale ufficio dei vescovi, lo stesso santo Sinodo ha stabilito e deciso che tutti i vescovi, arcivescovi, primati, e tutti gli altri prelati di chiese siano tenuti a predicare personalmente il santo Vangelo di Gesù Cristo se non ne sono legittimamente impediti. Se i vescovi e le altre persone nominate fossero impedite da un legittimo motivo, siano tenuti, conformemente a quanto prescrive il Concilio generale, a farsi sostituire da persone adatte per questo ufficio della predicazione. Se qualcuno trascurasse di adempiere ciò, sia sottoposto ad una pena severa. [...] almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni, nutrano il popolo loro affidato con parole salutari, secondo la propria e la loro capacità, insegnando quelle verità che sono necessarie a tutti per la salvezza e facendo loro conoscere, con una spiegazione breve e facile, i vizi che devono fuggire e le virtù che devono praticare, per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste. [...] non manchi la provvidenziale sollecitudine dei vescovi, perché non debba avverarsi il detto: I piccoli chiesero il pane e non vi era chi lo spezzasse loro».
Proprio la tela del Caravaggio con San Matteo e l’angelo mostra a sufficienza quanto permanesse chiaro e centrale in età controriformista il ruolo della Scrittura ed il suo valore, originati dall’ispirazione divina.

- in sintesi: il dramma del seicento dovela Scritturaè esaltata, come nell’opera di Caravaggio, ma si teme che un rapporto diretto comprometta la fede... nella Chiesa cattolica proibizione dal 1595 (così Gigliola Fragnito), ma prudenza crescente anche nel mondo protestante a partire dalla guerra dei contadini 

da C. M. Martini, La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione, (commento al capitolo VI della Dei Verbum), in La Bibbia nella Chiesa dopo la «Dei Verbum». Studi sulla costituzione conciliare, Paoline, Roma, 1969, pp. 157-172 (in particolare 165-172)
In Germania, tra il 1450 e il 1500 furono stampate oltre 25 edizioni della Bibbia latina e 15 in lingua volgare. In Svizzera, nella sola Basilea, si produssero 18 edizioni della Bibbia tra il 1450 e il 1500. In Italia nello stesso periodo erano uscite 27 edizioni, di cui 22 nella sola Venezia e una rispettivamente a Roma, Napoli, Brescia, Piacenza e Vicenza. Di queste 27 edizioni, 10 erano in volgare, tutte edite a Venezia: 9 edizioni della versione del Malermi, e una della versione anonima detta Bibbia d'agosto, perché pubblicata il 1° agosto 1471.
Non si può dunque sottoscrivere la frase di Lutero, pronunciata in uno dei suoi discorsi conviviali (Tischreden), il 22 febbraio 1538, secondo cui prima della sua riforma la Bibbia era «a tutti sconosciuta». «A vent'anni - dice Lutero - io non avevo ancora veduto una Bibbia». L'espressione è forse un po' esagerata, e certamente non indicativa della reale situazione di allora, se si pensa che del solo periodo 1459-1500 ci sono state conservate 5400 Bibbie stampate, che non sono se non una piccola parte delle decine di migliaia allora in circolazione. Oltre a ciò bisogna tener conto delle Bibbie manoscritte che ancora si producevano (si calcola che nel secolo XV siano stati trascritti almeno 3600 manoscritti biblici di versioni tedesche).
Bisogna inoltre ricordare le moltissime Bibbie, diremmo così, di divulgazione, che si chiamavano Bibbie istoriali, fioretti, lezionari o «Plenarien» (in Germania), specchi dell'umana salvezza, Bibbie dei poveri, che erano florilegi biblici, spesso provvisti di illustrazioni ad uso di chi sapeva leggere poco o nulla.
La Bibbia dunque, malgrado le restrizioni precedenti, era ancora abbondantemente diffusa anche tra il popolo. Con la riforma protestante tuttavia, verso la metà del secolo XVI, il regime di cautela che fino a quel momento si era espresso soltanto in restrizioni parziali, divenne universale. La Congregazione dell'Indice, prima nel 1559 sotto Paolo IV, poi nel 1564 sotto Pio IV, promulgando l'indice dei libri proibiti, vieta pure di stampare e di tenere Bibbie in volgare senza uno speciale permesso. È sintomatico il motivo portato per questa proibizione: «Essendo chiaro dalla esperienza che, se si permette la sacra Bibbia in volgare senza discriminazione, a causa della temerità degli uomini ne segue più danno che vantaggio». Anche se non si trattava di una proibizione assoluta di accedere personalmente alla Bibbia intera per chi non sapesse il latino, era questo tuttavia un provvedimento destinato a limitare assai l'uso della S. Scrittura.
Una prova concreta di questo fatto la possiamo vedere recensendo le edizioni delle Bibbie apparse in Italia in quel periodo. Nella Biblioteca del Pontificio Istituto Biblico, dove si trova una raccolta assai ricca di Bibbie antiche italiane, figurano le seguenti edizioni, a partire dalla metà del '500:

1541: Bibbia intera, tradotta dal Malermi;

1542: NT tradotto dal domenicano Fra Zaccaria di Firenze;

1545: Bibbia intera, tradotta in lingua toscana da Santi Marmochino, domenicano.

A partire da queste date, cessano le Bibbie tradotte e pubblicate da cattolici. Tutte le Bibbie italiane pubblicate dopo quegli anni sono di origine protestante o ebraica, e per lo più pubblicate fuori d'Italia: a Lione, a Ginevra, a Norimberga. Esiste una eccezione, cioè una Bibbia cattolica pubblicata nel 1567, tre anni dopo il decreto dell'Indice di Pio IV. È una ristampa della Bibbia del Malermi pubblicata a Venezia «con licentia della S. Inquisitione ». Ciò mostra che era ancora possibile pubblicare Bibbie italiane per i cattolici. Ma di fatto ciò non avvenne più, per quasi due secoli.
È infatti soltanto nel 1757 che si permisero di nuovo in maniera generale le edizioni in volgare, purché approvate dalle competenti autorità e munite di note. Abbiamo così ad esempio una edizione dei Salmi del 1770, una nuova edizione rifatta della Bibbia del Malermi nel 1773, e, a partire dal 1778, la nuova traduzione del Martini, che doveva rimanere in uso presso i cattolici italiani fin quasi ai nostri giorni.
Non bisogna tuttavia concludere che, mancando per due secoli ogni edizione della Bibbia italiana, mancasse anche del tutto un contatto del popolo con la Scrittura. Essa veniva infatti esposta e spiegata al popolo nelle prediche, specialmente nelle «lezioni sacre», che il Concilio di Trento, con il decreto «Super lectione» del 17 giugno 1546, aveva prescritto che si tenessero con frequenza. Tuttavia è certo che un contatto diretto dei laici con il libro sacro non era frequente. Mancando questo contatto perso­nale dei laici, e quindi un interesse diretto da parte loro, anche il clero non era sempre stimolato ad una conoscenza profonda della Scrittura. Essa rimaneva in teoria la regola e il nutrimento della predicazione e della religione, ma lo era sempre anche in pratica? Lo era per tutti i fedeli? Sono domande a cui non è facile rispondere. 

da La lettura della Bibbia nella chiesa, tra protestantesimo e cattolicesimo. Appunti (almeno in parte) controcorrente, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
Proprio nella riforma maturò la convinzione della necessità di un’esposizione sintetica della fede della chiesa riformata espressa dai diversi catechismi. Lutero redasse un Grande ed un Piccolo Catechismo e, dopo di lui, anche Calvino ed altri riformatori elaborarono i loro catechismi.
Se ha senso riportare un’esperienza personale, ricordo la risposta di un pastore valdese nel corso di un incontro del catecumenato europeo, svoltosi alcuni anni fa a Firenze. Chiamato a spiegare come avvenisse la formazione cristiana nella sua comunità, egli raccontò che la catechesi era incentrata sulla storia della salvezza nella Sacra Scrittura, sul Simbolo di fede, sui Dieci Comandamenti e sul Padre nostro.
A questa affermazione seguì la domanda sorpresa dei presenti: «Ma come? Voi protestanti non utilizzate la sola Scrittura per fare catechesi?». Il pastore, sorpreso a sua volta, replicò: «Ma i Comandamenti ed il Padre nostro non sono fra le parti più importanti della Sacra Scrittura? Ed il Simbolo di fede non è forse la sintesi di tutta la Scrittura?».
Lutero e gli altri leaders della riforma compresero ben presto che era necessaria una formazione cristiana che non si limitasse alla lettura della Bibbia, ma sapesse anche presentare in maniera catechistica una sintesi semplice ed insieme globale della fede.
Il passaggio in area protestante ad un più accorto ed addirittura sospettoso utilizzo della Scrittura nella formazione dei laici è presentato in dettaglio da Jean-François Gilmont, Riforma protestante e lettura, in Cavallo Guglielmo - Chartier Roger, Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma - Bari, 2009, pp. 243-275 e da Susanna Peyronel Rambaldi, Educazione evangelica e catechistica: da Erasmo al gesuita Antonio Possevino, in Ragione e “civilitas”. Figure del vivere associato nella cultura del ’500 europeo, Bigalli Davide (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1986, pp. 73-92.

- Gilmont ricorda come Lutero, fin dal 1520, in Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, propendesse per un insegnamento della fede semplificato e controllato dalla nuova autorità:

«Quanto ai libri teologici, bisognerebbe anche ridurne il numero e scegliere i migliori. Non ci sarebbe neppure bisogno di leggere molto, bensì di leggere buone cose e di leggerle spesso, per poco che ciò sia. Ecco ciò che rende dotti nella Sacra Scrittura e pii al tempo stesso» (p. 251).
Ma soprattutto «dopo la Guerra dei Contadini e sotto l'effetto del proliferare di interpretazioni eterodosse della Scrittura, il suo discorso si evolve. Egli insiste a proposito del controllo della Chiesa sull'accesso alla Bibbia. La Parola racchiusa nella Bibbia resta lettera morta, se non è trasmessa dalla predicazione. “Il Regno di Cristo - afferma in una predica del 1534 - è fondato sulla Parola, che non si può afferrare né comprendere senza i due organi, le orecchie e la lingua”. Nel 1529, dopo aver composto i suoi due catechismi, egli insiste perché questo manuale sia messo nelle mani di tutti: “Il catechismo è la Bibbia del laico; contiene tutto ciò che un cristiano deve conoscere della dottrina cristiana”» (pp. 251-252).
Gilmont spiega come «parimenti, quando nel 1524 invita i magistrati a costituire buone biblioteche, Lutero assegna loro due funzioni: conservare i libri e consentire ai dirigenti temporali e spirituali di studiare. Niente a che vedere con la lettura popolare» (p. 252)[1].

- Una analoga evoluzione si può riscontrare in Melantone:

«Nella Prefazione ai Loci communes del 1521, egli presenta il proprio libro come una modesta introduzione destinata a scomparire di fronte alla lettura della Bibbia; auspica ardentemente che “tutti i Cristiani si applichino in assoluta libertà alla sola lettura delle Scritture Sante”. Al contrario, nella Prefazione del 1543, egli insiste sulla necessità di questi ministri del Vangelo, che Dio desidera far preparare nelle scuole. Sono loro che Egli ha voluto come guardiani dei Libri dei Profeti e degli Apostoli e dei dogmi autentici della Chiesa» (p. 252).

- Simile è il cammino di Zwingli, che passa anch’egli a maggiori cautele nei confronti di un utilizzo troppo popolare della Scrittura: «L'evoluzione dei principi esegetici di Zwingli tra il 1522 e il 1525 è parallela a quella constatata in Lutero e Melantone. In un primo momento, egli tenta di destabilizzare la Chiesatradizionale mediante un ampio appello all'opinione pubblica. Si fonda sulla dottrina del sacerdozio universale: tutti i Cristiani che affrontano la Bibbiacon umiltà sono in grado di interpretarla. Lo proclama nelle dispute pubbliche come in diversi opuscoli del 1522. Ma presto la situazione si evolve. Il clero cattolico è rovesciato e i primi anabattisti si fanno minacciosi. Essi si appoggiano sui medesimi principi per rimettere in questione la legittimità del nuovo potere. Donde il voltafaccia di Zwingli. A partire dal 1525, egli riserva l'interpretazione della Bibbia a persone competenti, in effetti ad un gruppo composto dall'élite politica e dall’intellighenzia clericale» (pp. 252-253).

- Anche nella nuova Inghilterra anglicana la direzione è la medesima:

«A lungo Enrico VIII interdice ogni diffusione della Bibbia in inglese. Infine, nel 1543, cede alle pressioni della propria cerchia. Ma l'autorizzazione a stampare la Bibbiain inglese è corredata da restrizioni significative. Egli distingue tre categorie di persone e di letture. Nobili e gentiluomini possono non solo leggere, ma anche far leggere a voce alta la Scritturain inglese per se stessi e per tutti coloro che abitano sotto il loro tetto. Basta la presenza di un membro della nobiltà per autorizzare il libero accesso alla Scrittura. All'altro estremo della scala sociale, la lettura della Bibbia in inglese è totalmente interdetta a “donne, artigiani, apprendisti e dipendenti al servizio di persone di rango pari o inferiore a quello di piccoli proprietari, agricoltori e manovali”. Quanti si situano fra queste due categorie - di fatto i borghesi come le donne nobili, “possono leggere, per se stessi e per altri, tutti i testi della Bibbia e del Nuovo Testamento”. Questa categoria intermedia ha dunque la competenza bastante a non lasciarsi fuorviare, ma manca dell'autorità per imporsi sul proprio ambiente» (p. 253).

- Nella Svizzera calvinista si incontrano analoghe cautele:

«Per Calvino, la Bibbia non è direttamente accessibile a chiunque. Si tratta - come spiega nel corso di una predica - di un pane dalla crosta spessa. Per nutrire i suoi figli, Dio vuole “che il pane ci sia tagliato, che i pezzi ci siano messi in bocca e che ci siano masticati”. San Paolo mostra riguardo alla Scrittura che “non basta leggerla ciascuno nel proprio  privato, ma occorre avere le orecchie colpite dalla dottrina da essa estratta e che ci sia predicata perché possiamo esserne istruiti”. Teodoro di Beza fornisce ancora una testimonianza delle resistenze da parte calvinista a mettere la teologia sulla pubblica piazza. Nella dedica alle sue Questions et responses chretiennes, del 1572, il successore di Calvino spiega di aver accettato a malincuore questa traduzione francese del proprio trattato. Si è sentito forzato dalla curiosità del pubblico, del quale denuncia la mania di volersi gettare nei “labirinti” di questioni delicate. L'opinione di Beza è evidente: la teologia costituisce un campo riservato, che esige di “conoscere tutte le vie e i passaggi per i quali bisogna passare e ripassare”» (pp. 253-254).
Gilmont conclude affermando che nelle chiese calviniste del tempo «alla fine, prevale il punto di vista opposto: “non tutti hanno i mezzi per leggere i commenti integrali, né la fermezza di giudizio per recepirne e selezionarne opportunamente la sostanza”» (p. 254).
Pesò evidentemente in tutti quei padri riformatori che spinsero verso una direzione istituzionale i nuovi fermenti il giudizio negativo sull’utilizzo della Scrittura fatto dai capi della rivolta dei contadini, così come da altre letture del testo sacro dissonanti con quella proposta dalle correnti ufficiali della riforma. Si ebbe insomma cura di vigilare affinché una “corretta” interpretazione della Scrittura non portasse al sovvertimento dell’autorità politica e della nuova autorità religiosa.

- Gilmont ricorda che solo nelle frange più estremiste della riforma, in effetti, si mantenne la libera interpretazione della Scrittura.  Ma, anche qui, egli sfuma poi subito il giudizio, attestando che presto si giunse anche in quelle ad una nuova ortodossia che restringeva le letture possibili per uniformarsi a quella dei leaders dei gruppi stessi: «A Zurigo, gli anabattisti restano fedeli alle prime prese di posizione di Zwingli e aderiscono ad un'interpretazione radicale della Scrittura: “Dopo aver preso anche noi fra le mani la Scrittura e averla interrogata su tutti i punti possibili, siamo divenuti più istruiti e abbiamo scoperto gli errori enormi e vergognosi commessi dai pastori”. Con sfumature diverse, gli spiritualisti adottano posizioni vicine, rifiutando ogni intervento autoritario nel contatto con i libri sacri. La loro posizione è strettamente connessa alla convinzione della priorità dello Spirito sul testo. Nel Manifesto di Praga, del 1521, Thomas Münzer squalifica i preti che propongono una Scrittura “celata con fare sornione nella Bibbia, con la furberia dei briganti e la crudeltà degli assassini”. Solo gli eletti sono beneficiari della Parola vivente: “Quando il seme cade sul campo fertile, vale a dire nei cuori riempiti del timor di Dio, lì si trovano la carta e la pergamena su cui Dio scrive non con l'inchiostro, ma col suo dito vivente la vera Scrittura santa, di cuila Bibbia esteriore è autentica testimonianza.
Münzer però sa di vivere in una società poco adatta alla lettura individuale. Così egli auspica, in testa alla sua Predica ai prìncipi, del 1524, “che i servitori di Dio, zelanti e infaticabili, diffondano quotidianamente la Bibbia attraverso il canto, la lettura e la predicazione”. Nella stessa logica, egli desidera una liturgia che si svolga in una lingua compresa dal popolo. E si augura che la Bibbia sia letta ad alta voce di fronte al popolo, per consentirgli di appropriarsene. È vero che questo ideale fu disatteso e che Münzer sostituì ben presto la propria predicazione al dettato della Bibbia» (pp. 254-255).
Recentemente è stato Luther Blisset, l’autore collettivo di Q (Einaudi, Torino, 1999), a ricordare in forma romanzata come tutti i rami della riforma si siano presto irrigiditi a propugnare la loro visione dell’ortodossia. Nel romanzo storico Q i gruppi minoritari della riforma divengono alla fin fine ancora più integralisti dei gruppi maggioritari e la narrazione evidenzia non solo le tensioni fra cattolicesimo e mondo protestante, ma anche quella violenta  fra luteranesimo e calvinismo da un lato ed i gruppi più rivoluzionari dall’altro.

3/ Caravaggio e la controriforma

da Caravaggio a Roma. Una vita dal vero: una mostra che sorprende, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
Viene presentata [dalla mostra] tutta la documentazione relativa alla querela di Giovanni Baglione contro il Merisi, ma anche contro Orazio Gentileschi, Onorio Longhi e Filippo Trisegni. Agli occhi del Baglione, insomma, Caravaggio non è un eccezione, bensì è uno del gruppo di coloro che scrissero i sonetti che lo dileggiavano.
Basta scorrerli rapidamente per percepire quale era il clima della Roma controriformistica di allora:

Gioan Bagaglia tu non sai un ah
le tue pitture sono pituresse
volo vedere con esse
che non guadagnarai
mai una patacca
che di cotanto panno
da farti un paro di bragesse
che ad ognun mostrarai
quel che fa la cacca
porta là adunque
i tuoi desegni e cartoni
che tu ai fatto a Andrea pizicarolo
o veramente forbetene il culo
o alla moglie di Mao turegli la potta
che [libelli] con quel suo cazzon da mulo più non la fott[e]
perdonami dipintore se io non ti adulo
che della collana che tu porti indegno sei
et della pittura vituperio.

In questo primo sonetto, la collana cui si fa riferimento è quella d’oro che il Baglione aveva ricevuto in dono dal cardinale Giustiniani e che evidentemente gli altri gli contestavano. Anche il secondo sonetto è abbastanza esplicito – e prosegue il riferimento alla stessa catena:

Gian Coglion senza dubio dir si puole
quel che biasimar si mette altrui
che può cento anni esser mastro di lui.
Nella pittura intendo la mia prole
poi che pittor si vol chiamar colui
che non può star per macinar con lui.
I color non ha mastro nel numero
si sfaciatamente nominar si vole
si sa pur il proverbio che si dice
che chi lodar si vole si maledice.
Io non son uso lavarmi la bocca
né meno di inalzar quel che non merta
come fa l'idol suo che è cosa certa.
Se io mettermi volesse a ragionar
delle scaure fatte da questui
non bastarian interi un mese o dui.
Vieni un po' qua tu che vo' biasimar
l'altrui pitture et sai pur che le tue
si stano in casa tua a chiodi ancora
vergognandoti tu mostrarle fuora.
Infatti i’ vo' l'impresa abandonare
che sento che mi abonda tal materia
massime si intrassi ne la catena
d'oro che al collo indegnamente porta
che credo certo (meglio) se io non erro
a piè gli ne staria una di ferro.
Di tutto quel che a detto con passione
per certo gli è perché credo beuto
avesse certo come è suo doùto
altrimente ei saria un becco fotuto.

Anche nell’uccisione di Ranuccio Tomassoni – anche questo episodio è indagato dalla mostra – il Merisi non fu solo. L’unica incertezza riguarda il numero delle persone coinvolte nella rissa, poiché una fonte asserisce che fossero stati altri tre oltre all’indagato ed al morto a duellare, mentre una seconda fonte parla di due gruppi di quattro che si affrontarono. Si aggiunga che – anche se il fatto non viene precisato nella mostra – il cavalier d’Arpino non conduceva una vita diversa. Fu, infatti, probabilmente lui a commissionare il ferimento di un altro pittore, il Roncalli, perché quest’ultimo gli era stato preferito per dipingere a Loreto. Insomma la mostra lascia intravedere uno spaccato della Roma del tempo ben diverso da quello abitualmente presentato. Il termine “controriforma” è un cliché usato in maniera ideologica a descrivere una Roma che non è quella che appare a cavallo del secolo e che pure è chiaramente una Roma controriformista. La scoperta che il Merisi conduceva una vita non particolarmente dissimile da quella degli altri artisti di quella Roma controriformista – anch’essi coinvolti in storie non particolarmente edificanti – e che egli fosse intimamente legato non solo ai monsignori e ai cardinali della Curia del tempo, ma addirittura allo stesso papa, hanno alla fine l’effetto di illuminare non solo la vita del pittore, ma ancor più i connotati di una “controriforma” che esce dalla leggenda, per misurarsi finalmente con la storia.

da Caravaggio senza veli. Gli affreschi del Casino Ludovisi, di Marco Bona Castellotti (www.gliscritti.it ) da Il sole 24 ore dell'1 gennaio 2010
Quando Caravaggio fosse entrato in contatto con il potente porporato [il cardinale Francesco Maria Del Monte], amante delle arti, lungimirante, molto libero nelle scelte e nelle preferenze, ma nel contempo in linea con l'ala più intransigente della curia romana, non si sa, forse nel 1595 e comunque assai presto. Stretto seguace di Carlo Borromeo e di Filippo Neri e intrinseco del cardinale Federico, nel vivo della controriforma il cardinale Del Monte fu uno dei più tempestivi sostenitori dello scomodo realismo evidente nella trattazione dei temi sacri realizzati dal pittore lombardo, cui dimostrò incondizionata stima, dandogli alloggio in casa sua.
Fra i molteplici interessi del cardinale Del Monte, oltre alle arti e alla musica, spiccava anche quello per la sperimentazione alchemica, che il presule praticava probabilmente in modo empirico e con risultati che non appartengono alla categoria della scienza. È però certo che il Del Monte, in contatto con Galileo, possedeva una discreta strumentazione alchemica, una batteria fatta di alambicchi, mortai e fornelli, un po' rudimentale e da usarsi sostanzialmente per svago.
Ogni strumento era conservato nella villa di Porta Pinciana, oggi Ludovisi, dove il Del Monte aveva allestito un gabinetto alchemico, «una distillaria» come la chiama il Bellori, alla quale doveva tenere parecchio, se nel 1597 circa, affidò al Caravaggio - che aveva ormai dato prova del proprio talento - il compito di dipingerne il soffitto.
La villa di Porta Pinciana era stata acquistata l'anno precedente insieme a una vigna da Francesco Neri. Il piccolo gabinetto alchemico, della dimensione di uno studiolo, si trovava (e si trova) in un ambiente di passaggio al piano nobile, ma curiosamente pochi storici dell'arte si erano accorti della singolare decorazione del soffitto, dimenticata forse per l'offuscamento e il cattivo stato di conservazione, nonostante la citazione nelle fonti antiche.
Solo dopo il restauro, ultimato nel 1990, le figure che campeggiano sopra la testa di chi vi passa sotto hanno riacquistato la loro piena identità. Sono tre divinità mitologiche: Giove, Nettuno e Plutone, intorno a una sfera celeste che simboleggia il cosmo, entro la quale si vedono quattro segni zodiacali e due globi luminosi.
I tre sono rappresentati in pose prospetticamente ardite, come solo un grande pittore riesce a fare: Plutone poggia su nuvole e si tiene appresso un Cerbero tricipite, che però ha un'aria domestica, un cane non di buona razza, ma ugualmente vigile e attento. Nettuno è a cavalcioni di un cavallo marino dalle zampe palmate. Giove cavalca l'aquila, fasciato da una veste di un bianco spumeggiante che richiama quella dell'angelo musico del Riposo durante la fuga in Egitto; invece Nettuno e Plutone sono nudi.
Questa straordinaria opera su muro è dipinta a olio, non a fresco, il che collima appieno con la tecnica di Caravaggio che non si applicò mai alla realizzazione di affreschi. Citato nella biografia del Bellori del 1672, la più dettagliata sul pittore, l'affresco del casino Del Monte, una volta pubblicato, divise la critica in due schieramenti: uno favorevole a riconoscere l'autografia caravaggesca, e uno contrario; ma a restauro concluso, il giudizio affermativo divenne, tranne rare eccezioni, unanime.

da Caravaggio in ginocchio dinanzi all’Eucarestia: l’adorazione eucaristica del Merisi attestata dai documenti avvenne presso il Pantheon o presso la Chiesa dei SS. Luca e Martina, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it)
È nota da tempo una lunga lista di nomi di pittori operanti a Roma a cavallo fra cinquecento e seicento, nella quale Caravaggio figura a fianco di Prospero Orsi:

Sabato: Federigo Zucchero [Zuccari], Scipion Gaetano [Pulzone]; Tommaso Laureti, Durante Alberti; Giovanni de Vecchi, Francescho da Castello [Frans van de Kasteele]; Cesare da Orvieto [Nebbia], Niccholo da Pesaro [Martinelli]; Giuseppe da Cesari di Arpino, Giovanni Alberti; Cristofano Roncalli, Andrea Aretino; Pasquale Catti [Cati], Paris Nogara [Nogari]; Domenico Trasagni [Trasegni], Francesco Garzia; Ricardo Sasso, Vincenzo Stella; Gesmondo Todesco [Sigismondo Laer], Antonio Tempesta; Horatio Gentilescho [Gentileschi], Giovan Baglione; Marchantonio del Forno, Geronimo Mazei [Massei]; Giovan Battista Ricci, Antonio Ossino [Orsini]; Giovanni de Mostinens fiam. [Demostchens], Carlo Mariellenge [Marimbergh]; Giovanpaulo Picciolo [Piccioli, Piccoli], Andrea da Forlì; Cesare Rossetti, Geronimo suo congniato [Moscitti?]; Gieronimo Buttaciolo [Battacchioli], Jacomo Bergi [Berni]. Domenica: Allesandro Rizzi [Ricci], Horatio Traguangni [Travagni]; Horatio Graldi [Gherardi, Gerardi], Giovanbattista Tavanti [Giovanni il Pesarino?]; Cesare Torello [Torelli], Giovanni Sanna; Michalangelo da Caravagio, Prospero Orsi; Paulo Rossetti, Paulo Guidotto [Guidotti Borghese]; Jacomo Borbon Jacques Landi], Lesandro Luchese [Alessandro Ricci]; Andrea Comodo [Commodi], Antiveduto Gramatica, Domenico Perugino [Giovan Domenico Angelini]; Pietro Perogino, Aniballe Perugino [Priori?]; Vespasiano de Borgo [Strada], Camillo Spallucci; Ranuccio [Semprevivo], Arcangelo da Cesci [Aquilini]; Gaspare Bianco [Bianchi], Gian Andrea a Pasquino [Basio]; Aniballe Coradino [Corradini], Giovan Pietro alla Polinara [Tranquilli]; Pietro Contini Gentile, Giovan Pavolo Gentile. Lunedì: Fidelle a Pasquino [Vannicelli], Agostino Bolognese [Felini]; Giovanni Romandino [Romandini], Eredi di Pedemonte [Ercole Pedemonte]; Belardino Alliolo [Bernardino Albioli], Rutilio Ferazolo [Ferrazzoli]; Geronimo Spanpano [Spampani], Geronimo Luchese [Macrí]; Rafael de Trastevere, Franceschino de Trastevere [Panzivolti]; Aschanio Bonagiunto [Bonagiunti], Allò de Civita [Aloisio Giovannoli]; Giovanni Andrea Stabilino [Stabellino], Pietro Spagniolo [Riera]; Geronimo da Pesaro [Giovanni Paolo Severi?], Giovambatista in Capo alle Case [Cavagna?]; Giovanni Torpino [Jean Turpin], Riccio delli Monti [Bianchini]; Erede di Jacomo Squilla (o Stella) [Vincenzo Stella], Andrea Comodi [Commodi], Agostino Canpella [Ciampelli]; Antonio delle Pomaranci [Circignani], Vitorio Traguangni [Travagni]; Cesare Vicentino [Schio], Carlo Framengo [Oldrad]. Ofitiali: Rettore Carobino Alberti, Pietro Veri, Francesco da Tivoli miniatore, Luca Volpino miniatore. Ufficiali assistenti a sei turni domenicali (da Caravaggio a Spallucci): Nicholò Cianchi, Marchantonio Bosco; Constantio Gentilini [Gentiloni], Salustio indoratore [Biagioli], Giovanni Antonio Forno; Luca Solinona, Marcello Bontempo, Jacomo [Rocchetti]; Domenico Gallo [Domenico di Linguadoca?], Belardino Aldigeno [Bernardino Wit?]; Agapito pittore [Visconti], Stefano pittore [Visconti]; Antonio Gallega, Christofano [Roncalli o Cartaro].

Il documento reca il titolo originale Lista delli fratelli che anno a stare asistenti alle S(antissi)me Ora(zioni) d(elle) Quar(an)ta Hore.
La Pampalone sposta la datazione del documento, per quel che riguarda la lista delle Quarantore, all’ottobre del 1597, in occasione della festa di San Luca, patrono dei pittori, circostanza nella quale l’Università doveva organizzare appunto l’Adorazione di quaranta ore consecutive, in onore del Santo.
Le Quarantore poterono avvenire nel Pantheon stesso, che conserva una icona mariana attribuita dalla tradizione a San Luca, o anche presso la Chiesa dei SS. Luca e Martina dove aveva sede l’Università dei Pittori.
Il trasferimento del documento da parte del Saravazzi spiegherebbe come mai, nonostante la maggior parte dei pittori citati non abbiano mai fatto parte dei Virtuosi, il documento faccia parte in effetti dell’Archivio dei Virtuosi. Sarebbe così provato che lo stesso Caravaggio mai appartenne ai Virtuosi, ma solo all’Università dei pittori. 

da Le Quarantore, di Egidio Picucci (da L'Osservatore Romano, 2-3 maggio 2005)
Le prime regioni in cui si organizzarono le Quarantore furono l'Emilia (1546 a Bologna); le Marche (1542 a Recanati) e il Lazio (1548 a Roma). Tra i diffusori si distinsero p. Francesco da Soriano nel Cimino (VT), che migliorò l'organizzazione e il cerimoniale e le diffuse in mezza Italia, rappacificando la gente, divisa da lotte fratricide; p. Fulvio Androsio; p. Giovanni Battista d'Este († 1644) e p. Mattia Bellintani da Salò († 1611), che le introdusse in Francia e in Boemia, mentre p. Giuseppe de Rocabertí da Barcellona († 1584) le introdusse in Spagna.
Altri religiosi le diffusero in Germania e nei Paesi Bassi, dove la gente le chiamava le «perdonanze dei Cappuccini»; poi in Svizzera, in modo che in poco più di un secolo si coprì tutta l'Europa, per passare l'oceano nella metà del sec. XIX, allorché il Vescovo Neuman le introdusse nella diocesi di Philadelphia. Il secondo Concilio di Baltimora le introdusse poi ufficialmente in tutti gli Stati Uniti, dove divennero «una preghiera universale notissima tra i cattolici». Alla metà del 500 si inserirono nella predicazione delle Quarantore i Gesuiti con una novità che fece epoca. Nel 1556 a Macerata essi contrapposero al carnevale profano un «carnevale santificato» con le Quarantore che si svolsero in modo fastoso, attirando molta gente. Fu l'inizio di una nuova impostazione che a Roma affascinò anche il Papa, immancabile nell'oratorio del Caravita l'ultimo giorno del triduo. Si trattava di Paolo III, colui che rilasciò il primo documento pontificio di cui si è parlato. Successive approvazioni vennero da Giulio III; Pio IV; San Pio V e Clemente VIII il quale, angustiato per le guerre di religione in Francia, con una sofferta Enciclica Graves et diuturnae del 25 dicembre 1592, esortò il popolo romano e il clero alla preghiera e volle che si celebrasse pubblicamente in tutte le chiese della città «l'orazione perpetua sine intermissione» delle Quarantore.
Altre approvazioni e direttive vennero da Paolo V, da Urbano VIII, da Benedetto XIII, da Innocenzo XI e da altri Pontefici: si tratta di un coro di approvazioni, di incoraggiamenti e di concessioni di indulgenze per una pratica in cui la meditazione si alternava con la preghiera vocale, alimentando una religiosità che rivitalizzò le confraternite, ne fece sorgere di nuove, impegnate nell'insegnamento del catechismo, nella diffusione del culto eucaristico, nel promuovere rappacificazioni generali che in genere avvenivano in chiesa, «tra il pianto e la commozione di tutti».
Si deve alle Quarantore la nascita di alcune manifestazioni di fede e di arte che segnarono un'epoca. Da loro nacquero, infatti, processioni significative; forme di penitenza praticate per secoli; un'arte religiosa - il barocco - che iniziò a Roma con Sisto V verso la fine del 500 e che divenne subito popolare perché interpretò ed espresse una nuova sensibilità: esaltare il Cristo Eucaristico presente come Re nella Chiesa. Esse favorirono anche una produzione letteraria religiosa che ebbe nei Gesuiti la massima espressione, perché essi volevano che i testi esprimessero una drammaticità e un movimento simili a quello che utilizzarono nell'architettura delle loro chiese.

da Quella Pasqua che Caravaggio fece la Comunione. Era il 10 aprile del 1605 nella sua parrocchia, San Nicola di Bari ai Prefetti. La prova nello Status Animarum conservato in Vicariato. Nella chiesa la memoria del precetto pasquale del pittore, di Emanuela Micucci (www.gliscritti.it )
Caravaggio ha abitato e dipinto nel territorio della chiesa [l’allora parrocchia di San Nicola ai Prefetti]. Nel 1605 piccola parrocchia di 116 famiglie e 90 case, retta dai domenicani: 569 abitanti, tra cui anche 2 vescovi, 86 cortigiani, 39 meretrici. Caravaggio viveva con il suo garzone Francesco in un alloggio che usava anche come bottega. In vicolo del Divino Amore dipinse, ad esempio, la “Morte della Vergine” e la “Madonna dei pellegrini”. Nessuna opera però è ospitata nella sua parrocchia. «Probabilmente pregò davanti agli altari del Rosario e di San Nicola», afferma padre Giuseppe, che nell’archivio storico del Vicariato ha trovato e in parte trascritto lo Status Animarum, il documento con l’elenco dei parrocchiani redatto il 6 giugno 1605 dal parroco padre Domenico De Marianis, ora in restauro. Quando si arriva a Caravaggio si legge: Michelangelo pittore. Prima del nome il parroco ha segnato una “c.” puntata, che può essere interpretata come l’iniziale di comunicato o di comunicandum, “da comunicare”. «Il dubbio nasce dal fatto che – spiega il rettore – il parroco in fondo all’elenco delle famiglie aggiunge il numero dei maschi e delle femmine ‘adatti alla comunione’. A far propendere per l’ipotesi comunicato è il fatto che è stato direttamente il parroco a redigere l’elenco e a compilarlo il 6 giugno». All’epoca, infatti, bisognava scrivere rapporti per dire se i fedeli andavano o meno a Messa ed esisteva a Roma un elenco pubblico delle persone che non facevano la comunione. La data del documento, 6 giugno, dopo Pentecoste, rafforza l’ipotesi che “c.” si riferisca alle persone che avevano rispettato il precetto di “farela Pasqua”, cioè il confessarsi e comunicarsi a Pasqua. 

da Caravaggio a Roma. Una vita dal vero: una mostra che sorprende (la mostra presso l’Archivio di Stato nel complesso di Sant’Ivo alla Sapienza), di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
Il termine estremo, il ritratto del 1605. I curatori della mostra, dopo un attento restauro che ha permesso anche di analizzare i colori utilizzati, dichiarano che quel Paolo V è del Merisi. Alcune caratteristiche dell’opera rimandano chiaramente al suo pennello, anche se altri tratti sembrano meno persuasivi. Ma se anche l’opera esposta non fosse di sua mano, sono i biografi di Caravaggio ad attestare che egli dipinse dal vivo il neoeletto papa. Lo dichiara esplicitamente il Bellori: «Si compiacque il Cardinale [Scipione Borghese] di queste, e di altre opere, che gli fece il Caravaggio [...] l’introdusse avanti il Pontefice Paolo V, il quale fu da lui ritratto a sedere».
Dunque, Caravaggio non solo amico di monsignori e cardinali, ma ammesso a ritrarre lo stesso pontefice. Non che il dato debba sorprendere. È evidente che Caravaggio cita almeno due volte Michelangelo Buonarroti dei Palazzi Vaticani. Il dito del Cristo che chiama San Matteo nella Cappella Contarelli è il dito del Creatore nella volta della Sistina e l’iconografia di Paolo ed ancor più di Pietro nella Cappella Cerasi è chiaramente ispirata alla Cappella Paolina. Quindi Caravaggio frequentava dall’interno il Palazzo Apostolico ed era ammesso in Sistina ed in Paolina dove poteva ammirare le opere del grande maestro rinascimentale cui si sentiva evidentemente legato dall’ammirazione.
Gli stretti rapporti con il pontefice risultano evidenti anche dal fatto che, quando giunse da Malta la richiesta perché egli divenisse “frater” dell’Ordine di Malta, cioè cavaliere crociato, da Roma giunse l’assenso, nonostante l’esplicita controindicazione ricordata dalla petizione maltese che egli fosse reo di omicidio. La benevolenza che si nutriva verso di lui è ancor più evidente dalla grazia che Paolo V concesse poi al pittore e che, se non fosse avvenuto l’incidente di Palo e la conseguente morte all’argentario, avrebbe riportato a Roma Caravaggio. Solo la sventura ha impedito un secondo periodo artistico del Merisi a Roma.
Ma quella benevolenza doveva essere ricambiata dal Caravaggio. Era lui stesso a voler tornare nell’urbe, non solo i papi ed i cardinali a desiderarlo. Come dalla Lombardia era sceso a Roma per farvi carriera, così, dopo la fuga, era nell’urbe che il Merisi voleva ritrovarsi a vivere ed a dipingere.
Ecco allora il ritratto di Paolo V, che non aggiunge niente di nuovo a ciò che si sapeva, ma che presenta, come in un’icona, il legame del Caravaggio con il pontefice. Il ritratto sembra realizzato addirittura prima che il pontefice prenda possesso della sua sede. Come scrive Federica Papi nel Catalogo della mostra: «Che il ritratto sia stato realizzato al palazzo del Quirinale sembra suggerirlo [...] la sedia su cui è accomodato il pontefice che, corrisponde esattamente a quella di velluto rosso con fusto di canna d’india registrata negli inventari della Floreria “a Montecavallo nelle stanze di N.ro Sig.re [Paolo V]”. La circostanza che il papa non sia ritratto su quella pontificale con i classici emblemi araldici induce a ritenere che il dipinto sia stato eseguito pochissimo tempo dopo la nomina papale, quando la sedia ufficiale probabilmente non era ancora pronta. Anche la mancanza dell’anulus piscatoris che il papa avrebbe dovuto indossare sulla mano destra – quello a sinistra sembra infatti essere solo un prezioso gioiello di famiglia – comproverebbe un’esecuzione dell’opera nei primissimi mesi successivi all’elezione, comunque sicuramente entro il 6 novembre 1605, giorno della presa di possesso del Laterano» (in Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, De Luca, 2011, p. 226).

Così scrive Federica Papi, in Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, De Luca, 2011, p. 225: «La pulitura e il leggero restauro di cui dà conto Carla Mariani nella relazione tecnica posta in calce alla scheda, hanno infatti restituito al dipinto quelle qualità cromatiche e luministiche attribuibili solo al pennello del grande maestro lombardo. A Caravaggio rimanda innanzitutto la tecnica pittorica: la solida figura del papa è infatti costruita senza disegno, nessuna linea di contorno ma solo incisioni praticate sulla mestica ancora fresca. Il colore è steso a corpo e i pigmenti usati sono quelli tipici della tavolozza dell’ultimo periodo romano: biacca, terre bruciate, rosso cinabro ripassato con lacca rossa di Garanza. I molti pentimenti avvenuti in corso d’opera, visibili perfino ad occhio nudo, non solo provano che non stiamo di fronte a una copia, ma rivelano anche che, dopo una prima rapida stesura, l’artista è dovuto tornare più volte sui suoi passi. La fretta con cui Caravaggio dovette eseguire il ritratto, sensazione che si ha [ad un primo sguardo] e che ha condotto spesso la critica a esprimere su di esso un giudizio negativo, potrebbe spiegarsi, non tanto con il disinteresse per il soggetto, come propose a suo tempo Venturi, quanto con la poca disponibilità dell’autorevole modello a rimanere in posa». 

da Caravaggio e le Storie di San Matteo nella cappella Contarelli: un’introduzione alla visita, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
È evidente, innanzitutto, che il Merisi aveva contatti frequenti con le più importanti personalità ecclesiastiche della Roma controriformista in cui viveva. Abitò a lungo nell’allora residenza del cardinal Del Monte, in quello che ora è il palazzo del Senato, Palazzo Madama, e si può ipotizzare che le tele della Cappella Contarelli furono dipinte in quel luogo. Le fonti informano del fatto che frequentava, stimandoli ed essendo stimato a sua volta, figure come il cardinale Gessi (che lo propose per la Contarelli), il cardinale Cerasi (tesoriere della Camera apostolica), il cardinale Borghese, il cardinale Mattei, il cardinale Giustiniani e molti altri ancora. Nel 1605 gli venne addirittura commissionato il ritratto di papa Paolo V Borghese, conservato pressola Galleria Borghese di Roma, evento che dimostra già da solo il suo rapporto con l’autorità ecclesiastica.

La sua frequentazione dei Palazzi pontifici è attestata anche dalle “citazioni” pittoriche dell’opera di Michelangelo Buonarroti alla quale Caravaggio doveva avere accesso all’interno del Palazzo apostolico – si pensi, per citare un esempio incontrovertibile, alla cappella Cerasi che è un “rifacimento” in piccolo della cappella Paolina del Buonarroti, dove san Pietro che si volge indietro mentre viene crocifisso è una rielaborazione della Crocifissione di Pietro michelangiolesca. 

da Caravaggio e le Storie di San Matteo nella cappella Contarelli: un’introduzione alla visita, di Andrea Lonardo
Interessantissimo è anche il fatto che, dopo una permanenza a Napoli in fuga dall’urbe, il merisi decise di recarsi a Malta, chiedendo lì di poter essere ammesso nella milizia dei Cavalieri di Malta, cioè di divenire a tutti gli effetti un cavaliere crociato. Il suo ingresso presso i Cavalieri poté avvenire solo dopo che essi ebbero inviato una lettera al papa a Roma chiedendo la dispensa perché un omicida fosse ammesso tra di loro e dopo che essi l’ebbero ottenuta. La critica ha individuato i due documenti. Il Gran Maestro inviò la sua richiesta a Roma: «Beatissimo padre. Desiderando il gran maestro della sacra religione gierosolimitana d'honorar alcune persone virtuose e meritevoli c'hanno desiderio e divotione di dedicarsi al suo servigio e della sua religione; ne havendo per hora altro modo da poter piu commodamente farlo. Supplica humilmente la santita vostra che con un suo breve si degni concedergli autorita e faculta per una volta tanto di poter decorare et ornare dell'habito di cavaliero magistrale due persone a lui ben viste e da lui nominande. Non ostante ch'uno di essi habbia altre volte in rissa commesso un'homicidio. E non ostante che dal capitolo generale di detta religione sia stato prohibito che simil habito di cavaliero magistrale non si possa piu concedere. Che lo ricevera a gratia singolarissima per il desiderio grande che tiene d'honorar simili persone virtuose e meritevoli. E nostro signor Iddio lungamente la conservi» (ASV Secr. Brevium 428 ff.365 366v; è la lettera del 29 dicembre 1607 all’ambasciatore pressola Santa Sede, Francesco Lomellini). La richiesta ebbe questa risposta, circa due mesi dopo:
«Die 7 februarii 1608. Alla santita di nostro signore per il gran maestro della religione gierosolimitana. Facolta al gran maestro di poter dare l'habito magistrale a due persone a lui ben viste ancorche una di esse havesse in rissa commesso homicidio. Sanctissimo placuit». Caravaggio divenne talmente intimo del Gran Maestro Alof de Wignacourt, che quest’ultimo gli commissionò anche un ritratto, conservato ora presso il Louvre a Parigi.

A Malta Caravaggio giunse a firmarsi “frate”, a testimoniare il suo ingresso nell’obbedienza dei Cavalieri. Nella Decollazione maltese, infatti, unica opera firmata dal Merisi, si vede il sangue del Santo che, colando dalla gola recisa, va a comporre la firma del quadro: “F. Michelangelus”, cioè frater, poiché tale è in quel momento Caravaggio – i Cavalieri di Malta, prima dell’ammissione, promettevano obbedienza alla Chiesa e al Papa, impegnandosi a vivere in vincoli di fraternità. Tutto nell’esperienza maltese denota la benevolenza ecclesiastica dalla quale egli circondato, per esplicita concessione papale. Ma ciò che è ancora più rivelativo è che, dopo l’esperienza maltese, il Merisi agognasse di tornare nell’urbe: sentiva, infatti, la Roma controriformista come il luogo più adeguato per esprimere la sua arte. Già da giovane egli, lombardo, aveva scelto Roma. Dall’urbe lo aveva allontanato solo la condanna a morte che aveva meritato, secondo il diritto del tempo, per l’omicidio di Ranuccio Tommasoni da Terni avvenuta il 29 maggio 1606, presso il campo di pallacorda – antenato del tennis -, nel rione Campo Marzio, durante una lite scoppiata non si sa bene per quali motivi.

Quando fuggì da Malta – dopo essere stato imprigionato per un violento litigio ed aver ricevuto anche nell’isola, da cui non era facile allontanarsi, aiuti altolocati – girovagò in attesa di ottenere il perdono del Papa. Ciò che desiderava era evidentemente rientrare in Roma. Nel 1610 lo raggiunse la notizia che la grazia era ormai cosa fatta, poiché Paolo V aveva maturato questa intenzione. Caravaggio, allora, si imbarcò e giunse sul litorale romano, sbarcando a Palo, feudo degli Orsini in territorio pontificio (a 40 km da Roma), dove avrebbe potuto attendere in sicurezza il condono firmato per poter rientrare in Roma. Non è a tutt’oggi chiaro cosa sia avvenuto a Palo, perché egli venne fermato e subito liberato, ma nel frattempo la scialuppa che lo aveva sbarcato era ripartita verso il Monte Argentario, portando con sé le tele del pittore ed tutti gli averi che egli aveva con sé. Caravaggio, allora, si mise in viaggio via terra per recuperare le sue cose, lungo il litorale laziale e poi toscano che era a tratti paludoso. Durante l’itinerario dovette contrarre un’infezione che lo condusse alla morte: spirò, infatti, presso l’ospedale di Porto Ercole. Fra i beni che vi erano sulla scialuppa figurava una tela, ora conservata alla Galleria Borghese, che egli aveva dipinto per offrirla come ringraziamento per l’avvenuta grazia al cardinale Borghese che si era adoperato per essa – si tratta del Davide con la testa di Golia, ora pressola Galleria Borghese, con l’ultimo autoritratto del maestro.
Ciò che è certo di questo ultimo atto di vita del maestro è che, se egli non avesse trovato la morte in queste sfortunate circostanze, avrebbe ripreso a dipingere nella Roma controriformista del tempo ed esisterebbe una seconda serie di opere romane da lui dipinte. Sono gli anni in cui Galileo Galilei stava scrivendo il Sidereus Nuncius che sarà pubblicato nel 1610, lo stesso della morte del Caravaggio, mentre già dieci anni prima era stato giustiziato Giordano Bruno: il Merisi voleva vivere in questa Roma, che evidentemente non riteneva antiquata ed opprimente.

da Caravaggio e le Storie di San Matteo nella cappella Contarelli: un’introduzione alla visita, di Andrea Lonardo

Il pittore scelse più volte di ritrarsi nelle sue opere. Forse il più sconvolgente dei suoi autoritratti è quello che egli realizza ne La cattura di Cristo. In quest’opera il Merisi si ritrae mentre cerca di illuminare il volto di Gesù che viene catturato nel Getsemani, con bastoni e spade. Ma quella lampada, che è rivolta verso il Cristo, illumina al contempo il volto di colui che cerca di vederlo. Oltre alla bellezza pittorica del particolare, non è difficile vedere in esso qualcosa del dramma personale dell’autore, la sua stessa ricerca di vita, l’intuizione che nelle tenebre del mondo solo il volto illuminato del Signore potrebbe conferire luce e speranza anche alla propria esistenza.

- cfr. anche la precisisione teologica nella mariologia: Cristo che schiaccia il serpente insieme a Maria!

- in sintesi: Caravaggio amava Roma, come Michelangelo amava Giulio II, contro i clichés della Roma rinascimentale e della Roma controriformista: Caravaggio è un pittore controriformista! Delle due, l’una: o Caravaggio non vale niente, o la controriforma è diversa dai cliché abituali

- si potrebbe parlare di diversi stili della poetica controriformistica: oltre alla scuola di Bologna, con il Carracci, oltre al Cavalier d’Arpino, ecco Caravggio, così apprezzato da essere seguito poi dai cosiddetti “caravaggeschi”

4/ La cronologia della Cappella Contarelli

da Per una comprensione adeguata della cronologia della cappella Contarelli e del ruolo del cardinale Mathieu Cointrel, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
La realizzazione del programma iconografico della Cappella Contarelli richiese un lungo lasso di tempo per essere posto in opera semplicemente perché era l’intera Chiesa di San Luigi dei Francesi che era in costruzione. Si pensi al fatto chela Chiesa venne consacrata nel 1589 ed 11 anni dopo, precisamente nel 1600 erano pronte le prime due tele del Caravaggio.
La dimenticanza di questo dato fondamentale complica tutte le abituali ricostruzioni della storia della Cappella. Tutto diviene, invece, più chiaro se si pone mente al fatto che il Contarelli (al secolo Mathieu Cointrel, forse Cointerel o Cointereau[1]) divenne “rettore et amministratore delli sudetti chiesa et hospitale” – come attesta F. Simonelli, Le fonti archivistiche per la Cappella Contarelli: edizione dei documenti, in La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, N. Gozzano – P. Tosini (a cura di), Gangemi, Roma, 2005, p. 138  – cioè dell’intera fabbrica di San Luigi che veniva eretta in quegli anni[2]. Si può ipotizzare che il Contarelli abbia iniziato acquistandola Cappella nell’erigenda chiesa di San Luigi per ritrovarsi poi ad essere a partire dagli anni settanta responsabile dell’intera costruzione.
E’ certo, comunque, che fu proprio il Contarelli a commissionare la facciata di San Luigi dei Francesi probabilmente a Giacomo Della Porta e Domenico Fontana – la facciata venne completata nel 1580 ed i pagamenti ultimati negli anni 1582-85.
E’ sempre lui che, dopo aver chiesto al Muziano di affrescare la sua Cappella privata, gli affidò invece la pala d’altare con l'Assunzione che verrà sistemata nel 1574  e sarà poi sostituita con quella di Francesco Bassano che ora è in loco, sempre per disposizione del Contarelli (il Muziano passerà poi da San Luigi a lavorare nei Palazzi Apostolici per la Sala del Concistoro e per la Galleria delle Carte geografiche)[3]. La pala del Bassano venne sistemata sull’altare centrale nel 1585, 20 giorni prima della morte del Contarelli.
Fu ancora il Contarelli a commissionare al Cobaert il tabernacolo per l’altare principale (l’opera fu poi spostata nella cappella di San Luigi, all’intero della stessa chiesa).
Nei documenti relativi alla Cappella Contarelli ed alla fabbrica dell’intera San Luigi appare con evidenza la carriera ecclesiastica del Contarelli che matura mentre prosegue la costruzione della chiesa di San Luigi dei Francesi.
Nel 1565, quando affida al Muziano gli affreschi della sua Cappella il Contarelli figura come reverendus dominus, nel 1974 è certamente già datarius et prelatus noster domesticus (con Gregorio XIII, cfr. La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, N. Gozzano – P. Tosini (a cura di), Gangemi, Roma, 2005, p. 117), nel 1583 diviene cardinale e tale titolo è ricordato nel testamento del 1585. Il documento ricorda che egli morì con il titolo di cardinale prete di Santo Stefano sul Monte Celio, dopo aver nominato Virgilio Crescenzi esecutore testamentario.
Alla morte del Contarelli, avvenuta nel novembre del 1585, la chiesa di San Luigi dei Francesi non era ancora stata consacrata, anche se i lavori di costruzione fervevano. Venne infine consacrata l'8 ottobre del 1589.
Al decesso del cardinale seguì un rallentamento nella realizzazione della chiesa e, conseguentemente, della Cappella, poiché fu istituito un processo sulla gestione di fondi, gestiti dal Contarelli, dedicati alle pensioni. L’ inchiesta venne comunque rapidamente chiusa con un nulla di fatto da Sisto V solo due mesi dopo. 

Nel frattempo, nel 1587, era stato stipulato da Virgilio Crescenzi un contratto con lo scultore fiammingo Jacob Cobaert per la realizzazione di un gruppo scultoreo con San Matteo e l’angelo da porre sull’altare della Cappella. Come è noto, l’opera non piacque innanzitutto allo stesso Cobaert, a stare alle parole del Baglione che racconta come il suo autore non la volesse mostrare al pubblico. In effetti, il Cobaert era scultore di opere più minute e probabilmente non in grado di realizzare un gruppo monumentale.
L’opera finì così più tardi su di un altare laterale della chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini, dove si trova tuttora. In effetti, i documenti attestano che si decise nel 1596 di chiedere al Cobaert di realizzare altri lavori, al posto di quello inizialmente pattuito. Il Cobaert realizzò così il Tabernacolo per l’altare centrale di San Luigi, opera che venne poi spostata nella Cappella laterale dedicata a San Luigi dove si trova tuttora. Ai quattro angoli del Tabernacolo sono scolpite le figure di tutti e quattro gli evangelisti, ma in formato ridotto, come si addice ad un tabernacolo.
Nel 1590, quindi un anno dopo la consacrazione della chiesa, fu posta nella Cappella la lapide dedicatoria con il ricordo del Contarelli, ad opera di Virgilio Crescenzi, esecutore testamentario, il quale probabilmente era già stato il consigliere artistico del Contarelli. Nel maggio del 1591 il Crescenzi stipulò un contratto con il Cavalier d'Arpino per la realizzazione degli affreschi della Cappella con allegate le note già del Contarelli per la volta e per la pala d’altare ed i due laterali.
Negli anni 1591-1593 il Cavalier d'Arpino affrescò la volta realizzando ai lati due riquadri con, a sinistra, i profeti Isaia e Daniele e, a destra, Ezechiele e Geremia. Qualche autore ritiene che il Caravaggio, se era già presente a Roma dal 1591-1592 – ma la cosa è discussa –, possa  aver aiutato il Cavalier d'Arpino nella realizzazione della volta. Certo è che nella Vocazione di San Matteo lo cita poi, come si è già detto. Nel 1592 morì Virgilio Crescenzi e divennero suoi eredi i due figli, Pietro Paolo e Giacomo. In particolare sarà Pietro Paolo Crescenzi a seguire direttamente la vicenda della Cappella Contarelli. Erano entrambi amici di Filippo Neri: Pietro Paolo depose due volte al processo di canonizzazione del Santo, mentre suo fratello Giacomo depose ben 5 volte e scrisse una vita del Neri. Poiché, però, i due fratelli non si decidevano a chiudere i lavori per la Cappella, a partire dal 1594 la nazione francese in Roma iniziò a fare pressioni presso il Pontefice tramite la Fabbrica di San Pietro perché si giungesse ad onorare il cardinale Contarelli cui tutti si sentivano riconoscenti  a motivo dell’opera che aveva compiuto per l’erezione della chiesa di San Luigi. Si giunse così al 1599, quando la Fabbrica di San Pietro, nella persona del cardinale Berlingero Gessi – come si è visto – prese in mano la situazione, proponendo al Caravaggio la realizzazione delle due tele laterali della Cappella, il Martirio di San Matteo e la Vocazione

da Il ruolo di Berlingero Gessi e della Fabbrica di San Pietro nella scelta di Caravaggio come pittore delle Storie di San Matteo (www.gliscritti.it )
Il nome di Caravaggio per la realizzazione delle tele con le Storie di San Matteo venne fatto dal cardinale Berlingero Gessi nel 1599, poiché il Pontefice – che a quel tempo era Clemente VIII – stanco delle lamentele che la nazione francese rivolgeva contro gli eredi Crescenzi che non si decidevano a portare a termine la decorazione della Cappella Contarelli, “applicò” l’eredità Crescenzi alla Fabbrica di San Pietro “p[er] levar ogni differenza” (cfr. M. Pupillo, Caravaggio, i Crescenzi e la decorazione della Cappella Contarelli, in La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, N. Gozzano – P. Tosini (a cura di), Gangemi, Roma, 2005, p. 40, con relativa documentazione).
Il reverendus pater Berlingherius, così come viene citato nei documenti caravaggeschi, era allora “rappresentante della Fabbrica di San Pietro, cioè responsabile dei lavori della Basilica Vaticana, e referendario pressola Segnatura di Giustizia e quella di Grazia.
Insomma, la nomina del Caravaggio e la sua definitiva consacrazione con la prima commissione pubblica che lo rese famoso, venne direttamente dalla Curia Pontificia.
Berlingero Gessi fu poi nominato pro-vicegerente dell’Urbe nell’ottobre 1600 e vicegerente del cardinale vicario Rusticucci nel 1601. Secondo l’editto sulle immagini, che era stato emanato proprio dal Rusticucci nel 1593 e confermato da Camillo Borghese nel 1603, al vicegerente spettava di vigilare – insieme ad altri – alla realizzazione delle sacre pitture che dovevano essere esposte alla venerazione.
Peraltro è noto che il Gessi apprezzava molto la scuola pittorica bolognese – in specie Guido Reni, Giovan Francesco Grimaldi, l’Algardi e il Guercino, cui affidò la decorazione della propria cappella che è tutto in Santa Maria della Vittoria, dove è possibile ammirare un suo ritratto (cfr. su questo M. Pupillo, Caravaggio, i Crescenzi e la decorazione della Cappella Contarelli, in La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, N. Gozzano – P. Tosini (a cura di), Gangemi, Roma, 2005, p. 41, con relativa documentazione).
Il personaggio che fu decisivo nell’affermazione del Caravaggio è non solo fra i meno citati nelle biografie caravaggesche, ma anche fra i meno studiati.
Pupillo scrive che “il suo [del Gessi] apporto alla vicenda caravaggesca dovrà essere oggetto di nuove indagini” (M. Pupillo, Caravaggio, i Crescenzi e la decorazione della Cappella Contarelli, in La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, N. Gozzano – P. Tosini (a cura di), Gangemi, Roma, 2005, p. 41, con relativa documentazione).

5/ Il senso – e non la giustificazione - delle pressioni religiose dell’epoca

- l’anno scorso abbiamo parlato di questo nell’incontro su Lutero

cfr. Nella tempesta della Riforma luterana: la straordinaria storia di Caritas Pirckheimer e delle clarisse di Norimberga (da M.C. Roussey – M.P. Gounon) su www.gliscritti.it

- ricordammo Cranach, il pittore che bruciava le streghe, Lutero e le sue persecuzioni anti-eretiche contro streghe e cattolici, Enrico VIII e Tommaso Moro per le famose 6 mogli, Calvino e Seveto con le altre uccisioni compiute a Ginevra e difese da Teodoro Beza, con le considerazioni di Q di Luther Blisset 

-uno sguardo rapidissimo al seicento

- Giordano Bruno, prete domenicano

da A. Foa, Giordano Brno, Il mulino, Bologna, 2007, pp. 80-81
[Giordano Bruno, dopo avere in un primo momento insegnato a Wittenberg] è però costretto a lasciare la città - ma su questo possediamo solo la versione da lui datane all'Inquisizione - dal prevalere, alla morte del duca, del partito calvinista e dall'introduzione di norme confessionali, limitative della libertà d'insegnamento e di discussione accademica. Tensioni e conflitti caratterizzano anche il suo soggiorno ad Helmstedt, dove Bruno gode dell'appoggio del duca, protestante, e del suo successore, cattolico, ma viene pubblicamente scomunicato dal rettore della locale chiesa evangelica. La scomunica, di cui ignoriamo le ragioni, aggiunge anche quella luterana all'ampia gamma delle confessioni con cui Bruno era entrato in rotta di collisione. 

forse anche delatore contro i cattolici in Inghilterra (ipotesi di J. Bossy)

Ma Giordano Bruno era una perfida spia?, di Corrado Augias da Repubblica del 28/11/1991
È possibile che Giordano Bruno sia stato una spia? E che in quanto spia abbia carpito confidenze, raccolto e riferito voci e che quelle voci e confidenze siano diventate strumenti per mandare alla tortura e alla forca altri uomini? John Bossy, professore di storia all'università di York, ha lanciato questa tremenda accusa.
Ricercatore paziente, accanito e forse non imparziale fiutatore di tracce, Bossy è anche maestro di quel metodo storico-narrativo che molto assomiglia a un processo indiziario e facilmente sconfina nel romanzo d' intrigo e di spionaggio. Tutti elementi, intrigo, spionaggio e romanzo, abbondantemente presenti nel suo libro appena pubblicato in Inghilterra: Giordano Bruno and the Embassy Affair (Yale University Press, pagg. 294, sterline 16.95).
La posta in gioco è notevole. Se le accuse fossero definitivamente provate, la figura del grande nolano uscirebbe ridimensionata, forse addirittura compromessa dall' incidente. Perché Giordano Bruno non è solo un filosofo ma uno di quegli uomini che hanno saputo affrontare il martirio per la libertà del pensiero, una vittima dell' oppressione clericale e controriformistica. In una parola: un simbolo. E non è escluso che proprio questo abbia irritato Bossy.
Sono fondati i sospetti e le accuse? I fatti, così come Bossy li racconta, vanno proiettati contro lo sfondo fiammeggiante dell' Inghilterra di Elisabetta I, la regina di Shakespeare, la terribile figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, fondatrice della chiesa anglicana, donna di scettro e di spada. Anche i fatti d' altronde sono terribili, come i loro protagonisti. L' attività
spionistica di Bruno si sarebbe svolta durante i due anni e più di sua permanenza a Londra in casa dell'ambasciatore di Francia Michel de Castelnau, signore di Mauvissière.
Siamo all'inizio degli anni Ottanta, Elisabetta regina è al culmine d'un potere insidiato però da sua cugina Maria Stuarda, ex regina di Francia, donna anche lei di grande temperamento. In seconde nozze ha sposato, tanto per dire, l'assassino di suo marito. Da una quindicina d' anni Maria Stuarda è praticamente prigioniera di Elisabetta. L'irrequieta cugina infatti è anche una legittima pretendente al trono, è cattolica e molti buoni inglesi la preferirebbero a Elisabetta per ragioni non solo di fede ma pratiche. Maria, al contrario di Elisabetta, ha un figlio, cioè un erede.
Cocciutaggine e ingenuità
Elisabetta invece vede nei cattolici i suoi nemici e in quanto ai figli non può averne poiché una malformazione della matrice le impedisce la procreazione e lo stesso amplesso. A lei è consentito, come ha scritto uno storico, "la libidine ma non il piacere". Da quindici anni dunque Maria Stuarda passa le sue vuote giornate in un castello sapendo che i cortigiani che s'inchinano al suo passaggio riferiscono ogni sua parola agli sgherri di sir Francis Walsingham, ministro di polizia, l'uomo che con infinita astuzia e pazienza riuscirà alla fine a portarla sul patibolo.
Con un misto di cocciutaggine, alterigia e ingenuità, Maria organizza un complotto dietro l'altro. Arriva a offrire la corona di Scozia e i suoi diritti di successione su quella inglese al re Filippo II di Spagna, se le restituisce la libertà. Due re, Filippo di Spagna e Enrico di Francia, vedrebbero volentieri la Stuardasultrono d' Inghilterra. E' cattolica come loro e soprattutto sembra più duttile rispetto alla sua implacabile cugina. La Controriformaperòha esaurito i suoi mezzi diplomatici per ridurre Elisabetta alla ragione mentre quelli militari non sono ancora pronti. In Spagna si lavora lentamente e con fatica all'allestimento dell'"Armada" ma, nonostante i tesori delle Indie, in quella corte sfortunata continuano a mancare i soldi. Così Maria Stuarda organizza complotti che, uno dopo l'altro, vengono maciullati con le tenaglie da Walsingham e dai suoi agenti segreti.
Eppure quelli di Maria Stuarda non sono tentativi così insensati. Nella sua appassionata biografia della Stuarda, Stefan Zweig ha scritto che: "Per quasi vent' anni l'esito della lotta tra queste due donne è stato costantemente incerto. Alcune delle congiure organizzate per dare la corona a Maria, con un po' di fortuna e abilità avrebbero potuto costituire concretamente per Elisabetta un pericolo di vita, due o tre volte il colpo l'ha mancata d'un millimetro".
Questo dunque lo sfondo contro il quale dobbiamo vedere la possibile colpa di Giordano Bruno. Castelnau è stato ambasciatore dei re di Francia alla corte d'Inghilterra per quel decennio (1575-1585) che coincide con metà e più della prigionia di Maria. Come il suo collega spagnolo Mendoza, anche Castelnau deve formalmente rispetto e obbedienza alla sovrana regnante, in realtà parteggia per la Stuarda che è tra l'altro una ex regina di Francia nonché cognata del suo sovrano Enrico III.
Il controspionaggio di Walsingham viene esercitato prevalentemente attraverso spie, molte delle quali sono cattolici venduti ovvero agenti che operano tra gli avversari del trono fingendosi cattolici. Tra i collaboratori e il personale di casa Castelnau figurano un segretario che lavora anche come emissario politico dell'ambasciatore. Poi un prete, uno chef di cucina, un impiegato, un maggiordomo, un portiere con sua moglie, vari valletti, un tutore.
Quest'ultimo è un certo Giovanni Florio, italiano, il suo dovere prevalente è di seguire la figlia di Castelnau Catherine-Marie (così chiamata in onore di Caterina dei Medici e Maria Stuarda). In casa c'è anche Giordano Bruno che proprio in quel periodo scrive la Cena de le Ceneri pubblicata nella primavera del 1584.
L'ennesima congiura
Alla fine del 1583 Walsingham scopre l'ennesima congiura papista contro Elisabetta. Un gentiluomo cattolico, Francis Throckmorton, viene arrestato e sotto la tortura rivela lo schema di un'invasione dell'isola da parte dei papisti capitanata dal duca di Guisa, leader cattolico francese. Qui giunto Bossy arguisce dalla concatenazione dei fatti la presenza in casa Castelnau di due spie.
Sono loro, dice, che hanno "fornito le prove per l'arresto di Throckmorton e per il progetto d'invasione cattolica". "Una delle due", prosegue, "era nota fin dal 1840 quando il principe Alexandre Labanoff l'identificò, nella sua edizione delle lettere di Maria, nel segretario di Castelnau". Chi mai poteva essere l' altra?
Della seconda spia sappiamo che firmava i suoi dispacci con lo pseudonimo di Henry Fagot e che è stato lui il reclutatore (come direbbe Le Carré) del segretario di Castelnau. Scavando in quella direzione Bossy ha fermato la sua attenzione su una lettera custodita nella sezione manoscritti del British Museum.
Vale la pena di leggere le annotazioni da lui fatte al riguardo: "Henry Fagot a Elisabetta. Riferisce di una confessione (sacramentale) fattagli da un certo Sibiot, uomo dell'ex ambasciatore Mendoza, a proposito di un progetto d' assassinio della regina. E' firmata: Celuy que connoissez, gardez mon segret car je vous suys fidelle et decouvriray aultres choses. Henry Fagot".
Intanto, precisa Bossy, Sibiot è uno pseudonimo per Pedro de Zubiaur, mercante spagnolo che aveva l'incarico di badare agli affari di Mendoza dopo la partenza di quest' ultimo da Londra. La piccola frase finale in (scorretto) francese dell' epoca dice: "Colui che conoscete, custodite il mio segreto poiché vi sono fedele e scoprirò altre cose". Dalle circostanze del manoscritto, Bossy ricava che la lettera va datata "dopo il gennaio 1584", che, trattandosi di un segreto carpito nel corso di una confessione, bisogna dedurne che Fagot era un prete o agiva come tale.
Che essendo un personaggio coltivato e scrivendo in una lingua così rudimentale, non era sicuramente francese. Che si trattava di un vecchio e fidato informatore, che il suo atteggiamento, fosse o no un vero prete, doveva essere piuttosto disinvolto e che, infine,il suo rango in casa Castelnau doveva essere d'un certo livello.

Considerate le persone presenti in casa dell'ambasciatore francese, ed escluso per tanti motivi Florio, l'altro italiano, resta sulla lista dei possibili sospetti un solo nome: Giordano Bruno. Movente? Politico, contribuire al fallimento di un complotto cattolico-papista in odio alla chiesa di Roma.

- in Inghilterra c’è la lunga serie di repressioni e di decapitazioni sotto Elisabetta (cfr. l’ipotesi di Shakespeare cattolico in Shakespeare era cattolico? I "ricusanti" durante il regno di Elisabetta I su www.gliscritti.it )... Elisabetta come la “vera” fondatrice dell’anglicanesimo

cfr. I martiri cattolici della riforma anglicana sotto Enrico VIII ed Elisabetta I

- nei Paesi bassi la straordinaria storia di Johannes Vermeer, cfr. Vermeer cattolicissimo. Il pittore di Delft padre di almeno dieci figlio che portavano, fra gli altri, i nomi di Ignatius e Franciscus, dipinse anche Santa Prassede che raccoglie le reliquie dei Santi ed un’Esaltazione della Chiesa cattolica, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )

Vermeer, Allegoria della fede (dentro una cosiddetta “chiesa nascosta” nei Passi Bassila Chiesa cattolica) sotto forma di una donna è in estasi dinanzi il crocifisso ed il calice del’eucarestia) 

- così la Svezia e la Danimarca luterana

In Scandinavia le antiche chiese monastiche non abbiano più alcun chiostro od edificio monastico: tutto venne distrutto nel XVI secolo ed i materiali riutilizzati per altre costruzioni.
Si può vedere in questo senso la Riddarholms-kyrkan a Stoccolma, dove sono le tombe dei reali di Svezia: era un antico convento francescano, sottratto ai padri di San Francesco. Si può vedere Vadstena con la sua Klosterkyrkan, dove dell’antica abbazia femminile e maschile legata a Santa Brigida è rimasta solo la chiesa. Si può vedere ancora Mariefred, famosa per il castello di Gripsholms slott, dove dell’antica Certosa è rimasta solo la chiesa.
Ha studiato in dettaglio la sorte dei cattolici e degli edifici ecclesiastici il prof. Magnus Nyman dell’Università di Uppsala che ha scritto sull’argomento Förlorarnas Historia: Katolskt liv i Sverige från Gustav Vasa till Drottning Kristina (una Storia dei perdenti, in questo caso i cattolici dinanzi ai vincitori della riforma).
Ad Oslo parimenti, l’abbazia cistercense dell’isola di Hovedøya venne distrutta al passare del potere ai luterani e le sue pietre riutilizzate nella costruzione del castello Akershus Festning. L’antico palazzo episcopale luterano di Ladegård (Osolo) è costruito sul convento domenicano che sorgeva nello stesso luogo e che venne distrutto e l’antico ospedale luterano, fondato nel 1527, sottrasse ai francescani il loro chiostro negli stessi annoi (è incredibile che chiedendo agli abitanti attuali del quartiere nessuno sappia nulla dei fatti!).
Si potrebbero moltiplicare all’infinito i luoghi ed i fatti: i cattolici erano costretti ad abbandonare il paese se non si rassegnavano a diventare luterani e tutti i beni di qualsiasi ordine religioso erano sequestrati dal re.
In sintesi, la riforma protestante distrusse tutti i monasteri ed espulse tutti i cattolici dai regni del nord. In Svezia è stato formalmente proibito essere cattolici fino al 1951. Prima di quella data si poteva celebrare l'eucarestia cattolica solo nelle ambasciate.

- così la scomunica ebraica e poi protestante e poi cattolica di Spinoza (27 luglio 1656)

da H. Méchoulan, Gli ebrei di Amsterdam all’epoca di Spinoza, ECIG, Genova, 1991, pp. 145-146
I Signori del ma'amad [consiglio degli anziani] comunicano alle vostre Grazie che, essendo venuti a conoscenza da qualche tempo delle cattive opinioni e della condotta di Baruch de Spinoza, si sforzarono in diversi modi e promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. Non potendo porre rimedio a ciò e ricevendo per contro ogni giorno le più ampie informazioni sulle orribili eresie che praticava e sugli atti mostruosi che commetteva, e avendo di ciò numerosi testimoni degni di fede che deposero e testimoniarono soprattutto alla presenza del suddetto Spinoza, egli è stato riconosciuto colpevole; esaminato tutto ciò alla presenza dei Signori rabbini, i Signori del ma'amad hanno deciso, con l'accordo dei rabbini, che il suddetto Spinoza sia messo al bando ed escluso dalla Nazione d'Israele a seguito del cherem che pronunciamo ora in questi termini: Con l'aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, noi escludiamo, cacciamo, malediciamo ed esecriamo Baruch de Spinoza con il consenso di tutta la santa comunità, in presenza dei nostri libri sacri e dei seicentotredici precetti in essi racchiusi. Formuliamo questo cherem come Giosuè lo formulò contro Gerico. Lo malediciamo come Elia maledisse i figli e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno, che sia maledetto di notte; che egli sia maledetto durante il sonno e durante la veglia, che sia maledetto quando entra e che sia maledetto quando esce. Voglia l'Eterno accendere contro quest'uomo tutta la Sua collera e riversare su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge. E voi restiate legati all'Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con (Spinoza) alcuna relazione né scritta né verbale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno l'avvicini a meno di quattro cubiti. Che nessuno viva sotto lo stesso tetto con lui e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti.

cfr. il monumento a Giordano Bruno a Campo dei Fiori che comprende, fra gli altri, anche:

-Lucilio (Giulio Cesare) Vanini, perseguitato dai cattolici perché si fa protestante e dagli anglicani perché torna ad essere cattolico, ucciso infine a Tolosa. Nel medaglione di Vanini, si vede in piccolo la testa di Lutero, perseguitato e a sua volta persecutore di eretici e di streghe.

- Michele Serveto, ucciso come eretico dal tribunale di Calvino a Ginevra nel 1553.

6/ La questione del sistema copernicano

- il sistema copernicano: interesse e rifiuto

Madonna di Ludovico Cardi, detto il Cigoli, nella Cappella Paolina, in Santa Maria Maggiore (1612)... una Madonna galileiana, con la luna di Galilei

- nel seicento si insegna il sistema di compromesso del protestante Tÿcho Brahe che poi i gesuiti insegneranno in Cina: la teoria ticonica è una visione di compromesso fra sistema tolemaico e sistema copernicano elaborata dall’astronomo danese protestante Tÿcho Brahe, 1546-1601, che, pur ponendo il sole a girare intorno alla terra, vedeva già i diversi pianeti del sistema solare che giravano intorno al sole; i calcoli dei gesuiti erano più precisi di quelli degli astronomi cinesi e per questo essi vennero prescelti a guidare la redazione del calendario cinese.

- Copernico rifiutato anche dai luterani!

- punizione di Galileo Galilei, recitare una volta la settimana i 7 salmi penitenziali,penitenza che fu subito assunta in proprio al suo posto dalla figlia claustrale

- processo di Giordano Bruno durato 6 anni: è rimasto solo il Sommario del processo a Giordano Bruno, perché gli atti del processo a carico di Giordano Bruno sono perduti, forse mandati al macero insieme agli altri processi del Sant'Uffizio, prima che gli archivi romani, trasferiti a Parigi per ordine di Napoleone nel 1810, venissero restituiti alla Santa Sede tra il 1815 e il 1817.

- emerge che la sua condanna non è dovuta minimamente a tesi scientifiche o moderne, bensì a posizioni filosofiche, soprattutto al rifiuto dell’idea di creazione, con l’idea di un’anima mundi e di una pluralità dei mondi

da A. Foa, Giordano Brno, Il mulino, Bologna, 2007, pp. 68-70
Situare il processo di Bruno, come gli altri processi d'Inquisizione, nel contesto storico in cui si collocarono è senz'altro necessario per evitare di deformarne e trasformarne il significato, e di anteporre il giudizio morale a quello storico. Ma collocare un evento storico nel suo tempo non vuol dire giustificarlo e non sostituisce il giudizio etico. Giudizio che, d'altronde, non era sconosciuto neanche ai tempi in cui i processi di Inquisizione erano la norma accettata. «C'est mettre ses conjectures à bien haut prix que d'en faire cuire un homme tout vif», scriveva per esempio Michel de Montaigne nei suoi Essais. Scritta alla fine degli anni Ottanta del Cinquecento per mettere in discussione i processi contro le streghe, ma con l'intenzione di attaccare tutte le forme di controllo del pensiero, questa frase esprime un'idea che oggi definiamo col termine «tolleranza». I dibattiti del Cinquecento non usano mai questa parola, ma discutono a volontà sull'uso della forza e sulla sua liceità, e questo dentro la stessa Chiesa cattolica. Il 27 ottobre 1553 a Ginevra, altro centro di intolleranza attiva, questa volta protestante, il medico spagnolo Michele Serveto, negatore della Trinità, fu mandato al rogo da Calvino, che aveva già tentato di farlo bruciare dai cattolici, denunciandolo come eretico all'Inquisizione. Il suo rogo suscitò un vasto dibattito sulla liceità della repressione contro l'eresia, in cui intervenne lo stesso Calvino a sostenere le ragioni teoriche dell'uso della forza - non diverse da quelle cattoliche - e in cui l'umanista Sebastiano Castellione scrisse nel 1554 per sostenere le ragioni della «tolleranza» un trattato rimasto famoso, De haereticis an sint persequendi. L'uso da parte della Chiesa della costrizione invece che della convinzione era deprecato dallo stesso Bruno, a cui l'Inquisizione contestava di aver affermato che «li apostoli con le predicationi et essempii di buona vita convertivano le genti et che hora ... si procede non con amor ma con forcia». La pratica della forza, della repressione del dissenso intellettuale e religioso, dei roghi era denunciata da più parti, da voci diverse, cattoliche e riformate, umanistiche e teologiche. Erano, certo, voci di minoranza, a cui si opponeva una realtà di guerre di religione, di scomuniche e di roghi. Ma questa realtà di violenza non era così generalizzata e così incontrastata da rendere queste voci inoperanti: quanti, in quei secoli, combattevano una battaglia contro la violenza religiosa e l'intolleranza non erano degli isolati precursori dei tempi moderni, in un contesto storico omogeneamente repressivo. Erano una delle forze in campo, minoritari certo, ma comunque ben presenti.

da A. Foa, Giordano Brno, Il mulino, Bologna, 2007, pp. 83-88
È questa, com’è noto, l’immagine di Bruno più «revisionistica», elaborata principalmente in un libro famoso, ormai un classico, di Francis Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica. In questo scritto, e in numerosi altri che coprono vari aspetti del pensiero di Bruno – in particolare la sua ripresa dell'arte combinatoria di Raimondo Lullo, il filosofo cabbalista e mistico del XIII secolo - la revisione dell'immagine tradizionale di Bruno si inserisce in una revisione più generale dell'immagine del Rinascimento italiano, iniziata nei primi anni Sessanta, quando studiosi come Kristeller, Garin, Paolo Rossi, la stessa Yates e molti altri dopo di loro si volsero a tracciare l'immagine, assai diversa da quella tradizionale, di una cultura platonica e misticheggiante, percorsa da istanze magiche ed ermetiche. Dai loro studi, abbiamo imparato quanto importante fosse per Copernico, nell'affermare la sua teoria scientifica, l'idea mistica e magica della centralità del sole, e quanto mescolati fossero, nel pensiero di Francesco Bacone, i temi magici e mistici con quelli che ai nostri occhi appaiono come rigorosamente scientifici. Abbiamo scoperto che la nascita della scienza moderna è avvolta da dottrine magiche, astrologiche, occultiste, misticheggianti e che la filosofia platonizzante ha un ruolo decisivo e dominante nel Rinascimento italiano. Nei loro studi, abbiamo inoltre scoperto l'importanza della tradizione ermetica, cioè di quel corpus filosofico che i pensatori del Rinascimento attribuivano all'antichissima sapienza egiziana e alla mitica figura di Ermete Trismegisto, e che invece era stato composto in lingua greca intorno al III-IV secolo d.C. Conosciuto in Occidente intorno al 1460, il Corpus Hermeticum era stato tradotto a Firenze da Marsilio Ficino ed aveva alimentato la rinascita della magia nel mondo rinascimentale e suscitato l'interesse entusiastico di studiosi e filosofi.
In un'immagine rinascimentale di questo genere, Bruno assume una centralità ancora maggiore di quella che aveva nella visione tradizionale di un Rinascimento come prima affermazione del pensiero moderno. Bruno è, infatti, secondo la Yates, l'unico o quasi dei pensatori rinascimentali a non proporsi quella conciliazione tra cristianesimo e ermetismo, che aveva caratterizzato la recezione rinascimentale del Corpus Hermeticum. Pur utilizzando i testi ermetici nella traduzione di Ficino e dei platonici fiorentini, Bruno rifiuta anzi decisamente questa conciliazione con la tradizione religiosa. Per lui, il pensiero ermetico è il richiamo ad una cultura, quella egiziana, vista come una sapienza originaria, nettamente contrapposta al cristianesimo e ad essa superiore. «Prima che fusse questa filosofia conforme al vostro cervella - scrive nella Cena delle ceneri rivolgendosi ad un «pedante» dottore aristotelico - fu quella dei caldei, egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria». Per Bruno, contrariamente che per gli altri filosofi, che avevano per la più depurata accuratamente la loro recezione cristiana dell'ermetismo di suggestioni e intonazioni troppo decisamente magiche, questa tradizione è in prima luogo magica.
In questo quadro, sarebbe secondo Yates rientrata anche la difesa fatta da Bruno della teoria copernicana, in cui egli avrebbe visto non una dottrina scientifica di spiegazione teorica dei meccanismi dell'universo, ma una teoria che ben si accordava alla sua visione di un universo animato e platonico. Non è salo una coincidenza che le lezioni tenute ad Oxford nel 1583 da Bruno, lezioni interrotte bruscamente dai docenti di quell'università (i «pedanti» attaccati violentemente nella Cena delle ceneri) con l'accusa di aver plagiato il De vita coelitus comparando di Marsilio Ficino, accostassero tradizione platonica e copernicanesimo. Il copernicanesimo di Bruno aveva poco a che fare con le dottrine di Copernico. Per Bruno, lo stesso Copernico, «semplice matematico», non aveva colto le profonde implicazioni, in termini magico-ermetici, della sua propria teoria del movimento della terra e della centralità del sole.
L'arte della memoria, quella della persuasione, della seduzione, aiutate e suscitate dal suo accorto uso della magia in ogni sua forma - quella «naturale» come quella diabolica - gli avrebbero dovuto così procurare un immenso potere, aiutandolo a mettere in pratica la sua missione di mago e di filosofo ermetico, rendendo tutto il mondo di una sola religione. Una religione intellettuale, sostanzialmente deistica, fondata sull'idea filantropica dell'amore reciproco fra tutti gli uomini, quale egli descriveva nel 1588 nella dedica del suo libello contro i matematici all'imperatore Rodolfo II. Un tema, questo dell'amore, decisamente magico ed ermetico. L'amore è infatti il vincolo universale che tiene insieme le forze della natura, «che concilia i contrari e unifica il molteplice nell'uno».
Nell'alternanza di tenebre e luce che lo regola, il mondo è ora immerso nelle tenebre e nelle lotte settarie. Di qui, la necessità di porre fine alle guerre tra gli uomini, di ricostituire la legge dell'amore, di esaltare la libertà interiore dell'uomo contro le costrizioni e la forza.
Per Bruno, la filantropia, l'amore tra gli uomini, è il fondamento del viver sociale, secondo quella formula, a lui cara, che vieta di fare agli altri il male che non si vuole sia fatto a noi stessi. Una formula che si congiungeva con la sua avversione per il protestantesimo, per quella dottrina della giustificazione per sola fede che minava, a suo avviso, le basi della società e che, come in Inghilterra, distruggeva la rete di solidarietà sociale senza sostituirvi nulla di nuovo: «E mentre deprimono l'opre, estingueno ogni zelo di far le nuove e conservar le antiche», scriveva dei protestanti nello Spaccio della bestia trionfante.
Il progetto di Bruno, su cui Yates insiste molto come sulla chiave nascosta di comprensione dell'intera vicenda, era quindi quello di propagandare una dottrina ermetica di suprema conciliazione filosofica dei contrasti, vista dal filosofo come totalmente interna al cattolicesimo, come la vera forma, potremmo dire, del cattolicesimo. Fin qui il Bruno di Frances Yates, il mago.
Questa di un Bruno mago, di un Bruno che vorrebbe assoggettare il mondo ai suoi voleri attraverso l'uso di arti segrete ed occulte, di tecniche potenti come quella della memoria, è un'immagine che ci restituisce sicuramente una parte della verità. Non la chiarezza della ragione opposta alle tenebre della superstizione religiosa: non questo sarebbe quindi stato lo scontro di Bruno coi suoi giudici, ma quello che contrapponeva all'ortodossia religiosa un pensiero che si voleva superiore, più capace, più consapevole, ricco delle conoscenze di una sapienza antica. In questo quadro, trovano spiegazione molte accuse, molte affermazioni di Bruno che si ponevano come fuori dal quadro se si insiste nell'interpretare Bruno come un mero filosofo, come l'interprete del pensiero moderno.
Ma, anche dato per scontato che Bruno si considerasse un mago, che la sua cultura più profonda fosse quella ermetica, resta da determinare in che misura questo influì sul suo processo e sulla sua condanna. In che modo, insomma, l'universo mentale di Bruno era condiviso dai suoi giudici, e quanto consapevoli essi erano di star condannando al rogo non un eretico in senso tradizionale o un filosofo eterodosso, sostenitore di dottrine che mettevano in discussione alcuni capisaldi della concezione cristiana, ma un mago, un filosofo che trovava le sue radici in una sapienza lontana al cristianesimo?
L'accusa di occuparsi di arte divinatoria e magica è fra quelle rivolte a Bruno dall'Inquisizione ed esposte nel Sommario. Nel processo veneziano, Mocenigo si affanna a denunciare i riferimenti di Bruno alla magia, e sottolinea, nella sua seconda denuncia, come Bruno, già suo prigioniero, si fosse invano sforzato in tutti i modi di riavere «un libretto di congiurationi» che Mocenigo aveva trovato fra le sue carte e poi consegnato all'Inquisizione. A questo libro, De sigillis Hermetis et Tolomaei, e in generale ai suoi rapporti con l'arte divinatoria e magica, fa riferimento l'Inquisizione nei costituti veneziani, in tre successive riprese. La risposta di Bruno è che non si trattava di un'opera scritta da lui, ma di un'opera che si era fatto copiare a Padova da un suo allievo, e che aveva sollevato la sua curiosità perché era citata con apprezzamento da Alberto Magno. Non avendola ancora letta, non sapeva però dire se «oltre la divinatione naturale vi sia alcun'altra cosa dannata». Questa risposta sembra accontentare i giudici, che non vi tornano sopra. La sensazione generale è che l'Inquisizione, sia a Venezia che a Roma, non si mostrasse particolarmente interessata ad approfondire queste tematiche. Ben altro è il rigore con cui vengono condotti gli interrogatori su tematiche teologiche in senso stretto o su quelle dottrine filosofiche bruniane che avevano legami così stretti con la dottrina religiosa. In ogni caso, l'accusa di magia è marginale nel contesto del processo e non è come mago, ma come eretico impenitente, che Bruno viene condannato al rogo.
Un fatto, certo, che non cancella i rapporti di Bruno con la tradizione magica ed ermetica, ma che ci pone di fronte alla domanda se, tra il filosofo-mago e i suoi giudici, non ci fosse anche una sorta di incomprensione di fondo. Se, cioè, quella cultura magica che era al cuore della progettualità bruniana non fosse ormai vista dagli inquisitori come un pensiero confuso e sostanzialmente marginale, privo di importanza. E se gli inquisitori non fossero partecipi ben più di Bruno, in quell'inizio del secolo XVII, di una mentalità «moderna», e non rientrassero ormai nell'ambito di un pensiero razionalistico e «geometrico» che non offriva più né spazio né credito alla cultura magica del Rinascimento.

- la questione delle nuove inquisizioni laiche

dalla rivoluzione francese (4 gennaio 1791, obbligo per il clero di giurare fedeltà alla Costituzione: clero “giurato” e clero “refrattario” che viene dichiarato decaduto) ad oggi

- omofobia e negazionismo (le nuove inquisizioni)

7/ Caravaggio, la vita cristiana e la catechesi

da Caravaggio e le Storie di San Matteo nella cappella Contarelli: un’introduzione alla visita, di Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
Caravaggio, a suo modo, ricorda che l’arte è esegesi scritturistica, anzi è per certi versi esegesi al sommo grado, più capace di interpretazione di un commentario biblico. Allo stesso modo Michelangelo ha segnato l’interpretazione di Genesi 1-3 più di Westermann, di Wenin o di Soggin. Il gesto di Dio che sfiora con il suo dito quello di Adamo non è una ripresentazione della lettera del testo biblico, poiché non si ritrae né l’immagine di Dio presente nell’uomo (Gen 1), né il soffio con cui Dio vivifica Adamo (Gen 2). Scostandosi dalla lettera dei due capitoli di Genesi, Michelangelo, in maniera creativa, utilizza una nuova immagine per dire che realmente Dio ha dato vita all’uomo come a qualcuno che gli corrisponde, gli ha donato una dimensione spirituale, ben al di là della sua costituzione materiale, solo carnale: Dio ha fatto l’uomo perché gli stia dinanzi come amico.
Michelangelo sintetizza i due testi di Genesi in un’immagine che non raffigura esattamente né l’uno, né l’altro. Così facendo mette in questione l’affermazione abituale che ci si debba soffermare solo su di uno dei due testi, Gen 1 o Gen 2, prescindendo dall’altro, quasi fossero assolutamente diversi. L’immagine artistica obbliga alla sintesi ed, in questo modo, risponde maggiormente alla vera domanda dell’uomo che è interessato non tanto ad una sfumatura letteraria quanto alle questioni eterne: «È vero che Dio ha creato l’uomo, oppure no? L’uomo viene solo dall’evoluzione della materia o ha un’anima libera ed eterna? Esiste il peccato originale?». Perché è la risposta a queste domande che manifesta la verità sull’uomo. Lo stesso vale per la Vocazione di San Matteo. Caravaggio non è interessato tanto a rappresentare una o l’altra delle versioni sinottiche della chiamata di Matteo/Levi, quanto a presentarla unitariamente nella sua fattualità e nella rilevanza esistenziale. La sua tela è in continuità con ciò che ha sempre fattola Chiesa abituandosi a presentare nella predicazione e nella catechesi ed a dipingere i “misteri” di Cristo. Con questo termine si indicano gli eventi della vita di Cristo insieme al loro significato salvifico. In questo senso i “misteri” non sono solo ciò che Matteo, Marco, Giovanni o Luca raccontano di un fatto evangelico, ma piuttosto cosa Gesù intendeva realmente operando quell’evento. Perché c’è un fatto reale, storico, dietro la lettera del testo e quel fatto ha una significatività tale da cambiare la storia dell’uomo. In questa maniera la presentazione iconografica sostiene l’esegesi biblica, ricordandole che l’uomo non si accontenta di conoscere la dimensione letteraria del testo biblico - pur fondamentale - ma vuole raggiungere l’avvenimento in sé con il suo significato teologico e spirituale. Ecco allora che nella Vocazione di San Matteo il Caravaggio intende presentare un unico evento, al punto che non ha senso domandare da quale dei vangeli egli abbia attinto: al Merisi importa soprattutto sintetizzare in una scena unica l’evento stesso della chiamata. Il procedimento della pittura è simile, da questo punto di vista, a quello della liturgia: quando essa celebra il Natale, la Pasqua o il Battesimo di Gesù, non è interessata innanzitutto alle singole versioni dell’evento, ma alla rilevanza di esso.
La Dei Verbum ha ripreso in maniera nuova ed insieme antica questa questione, affermando che l’esegesi deve essere al contempo storico-critica e teologico-spirituale. Si potrebbe, utilizzando un immagine, affermare che la Bibbia è come un giocattolo meraviglioso: l’esegesi deve essere capace di smontarlo, mostrando i diversi pezzi di cui è composto, ma deve poi anche saperlo rimontare in unità, perché sia possibile poi “giocarci” avendolo sano ed intero! La Chiesa di fine ‘500 compiva la stessa operazione come si può vedere in questa tela del Caravaggio. 

dall’intervista di Antonio Spadaro a papa Francesco sulla Civiltà Cattolica
Chi è Jorge Mario Bergoglio?
«La sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: “sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”». E ripete: «io sono uno che è guardato dal Signore. Il mio motto Miserando atque eligendo l’ho sentito sempre come molto vero per me».
Il motto di Papa Francesco è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi». E aggiunge: «il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando».
Papa Francesco continua nella sua riflessione e mi dice, facendo un salto di cui sul momento non comprendo il senso: «Io non conosco Roma. Conosco poche cose. [... ] Ma venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio». Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi.
«Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo». E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che andava cercando: «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice». Quindi sussurra: «Peccator sum, sed super misericordia et infinita patientia Domini nostri Jesu Christi confisus et in spiritu penitentiae accepto».

Omelia di papa Francesco del 21 settembre 2013 da L'Osservatore Romano, 22/09/2013)
«Uno sguardo che ti porta a crescere, ad andare avanti; che ti incoraggia, perché ti fa sentire che lui ti vuole bene»; che dà il coraggio necessario per seguirlo. È stata incentrata sugli sguardi di Gesù la meditazione di Papa Francesco durante la messa a Santa Marta di questa mattina, sabato 21 settembre. È una data fondamentale nella biografia di Jorge Mario Bergoglio, perché al giorno della festa liturgica di San Matteo di sessant’anni fa — era il 21 settembre 1953 — egli fa risalire la propria scelta di vita. Forse anche per questo, commentando il racconto della conversione dell’evangelista (Matteo, 9, 9-13), il Pontefice ha sottolineato il potere degli sguardi di Cristo, capaci di cambiare per sempre la vita di coloro sui quali si posano.
Proprio com’è accaduto per l’esattore delle tasse divenuto suo discepolo: «Per me è un po’ difficile capire come Matteo abbia potuto sentire la voce di Gesù», che in mezzo a tantissima gente gli dice «seguimi». Anzi, il vescovo di Roma non è certo che il chiamato abbia sentito la voce del Nazareno, ma ha la certezza che egli abbia «sentito nel suo cuore lo sguardo di Gesù che lo guardava. E quello sguardo è anche un volto», che «gli ha cambiato la vita. Noi diciamo: lo ha convertito». C’è poi un’altra azione descritta nella scena: «Appena sentito nel suo cuore quello sguardo, egli si alzò e lo seguì». Per questo il Papa ha fatto notare che «lo sguardo di Gesù ci alza sempre; ci porta su», ci solleva; mai ci «lascia lì» dov’eravamo prima di incontrarlo. Né tantomeno toglie qualcosa: «Mai ti abbassa, mai ti umilia, ti invita ad alzarti», e facendo sentire il suo amore dà il coraggio necessario per poterlo seguire. Ecco allora l’interrogativo del Papa: «Ma come era questo sguardo di Gesù»? La risposta è che «non era uno sguardo magico», poiché Cristo «non era uno specialista in ipnosi», ma ben altro. Basti pensare a «come guardava i malati e li guariva» o a «come guardava la folla che lo commuoveva, perché la sentiva come pecore senza pastore». E soprattutto secondo il Santo Padre per avere una risposta all’interrogativo iniziale occorre riflettere non solo su «come guardava Gesù», ma anche su «come si sentivano guardati» i destinatari di quegli sguardi. Perché — ha spiegato — «Gesù guardava ognuno» e «ognuno si sentiva guardato da lui», come se egli chiamasse ciascuno con il proprio nome.

8/ I luoghi di Caravaggio

cfr. il Poster I luoghi del Caravaggio in Roma, realizzato in occasione dei Dialoghi con Caravaggio nelle sue chiese

- Palazzo Giustiniani, Omnia vincit amor (possedevano 17 opere di Caravaggio)
Paolucci È il celebre Omnia vincit amor, l’amore vince ogni cosa, un quadro che Caravaggio ha dipinto nel 1602 e che è la rappresentazione più intensa, più straordinaria, più erotica, fra virgolette, che sia mai stata data nella storia della pittura di questo concetto - l’amore vittorioso su tutte le cose - che viene da Ovidio, viene dalla classicità. E Caravaggio l’ha messo in figura rappresentando un ragazzo, un teppista di borgata, un coatto, come si dice a Roma, che ci guarda con un sorriso che in realtà è una smorfia, un sorriso ambiguo e irridente.
È nudo, con il sesso ben visibile, tiene le frecce in mano. Il pittore gli ha appiccicato alle spalle, alle scapole due protesi, due grandi ali di oca, per farlo assomigliare all’amore alato di cui parla il mito greco.
E la cosa più impressionante, oltre al sorriso di questo ragazzo di malavita, potremmo definirlo così, è la natura morta che c’è ai suoi piedi, natura morta fatta dalla corona gualcita del poeta, dall’armatura impolverata del soldato, dagli spartiti musicali del compositore, dai libri e dai versi dello scrittore, del letterato.
Tutte queste cose - la gloria della poesia, delle arti, la forza militare, la politica, eccetera, tutto questo è calpestato da questo teppista bruno, romano, che rappresenta amore.
Come dire che l’amore vince tutte queste cose. Tutte queste cose diventano ininfluenti, irrilevanti, di fronte al primato dell’amore.

- Madonnella di San Luigi dei Francesi, venditore d’arte Costantino Spata che gli fece conoscere il cardinale Francesco Dal Monte, dal 1596 presso l’attuale Palazzo Madama, allora sede del rappresentante del Granduca di Toscana

- nel 1600 contratti per la Deposizione presso la Chiesa Nuova(cfr. Cesare Baronio, discepolo di Filippo Neri) e per la cappella Cerasi, tesoriere di papa Clemente VIII)

- verso il 1601 va ad abitare presso il cardinale Girolamo Mattei, oggi vicino via delle Botteghe Oscure (Palazzo Mattei)

- vicolo San Biagio, oggi vicolo del Divino Amore 19. Qui probabilmente dipinse la Madonna dei Pellegrini

- carcere di Tor di Nona

- via di Pallacorda, omicidio di Ranuccio Tommasoni, 1606