Confesso, ho sbagliato. Memorie di una postina. Un’intervista ad Adriana Faranda di Paola Tavella [«Oh sì. Con la nostra intelligenza, la nostra passione, la nostra dedizione, l'autodisciplina di cui eravamo capaci noi avremmo dovuto e potuto spenderci nella battaglia delle idee, nell'arte, nella ricerca, nella letteratura e avremmo potuto migliorare il mondo, se non cambiarlo»].
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Riprendiamo da Io donna del 22/4/2006, pp. 87 ss. (supplemento del Corriere della sera) un’intervista ad Adriana Faranda di Paola Tavella. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
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Dovevano chiamarsi Badlands, terre cattive, come dice una canzone di Bruce Springsteen: «Comunque non me ne vado, resterò fino a quando queste terre cattive non cominceranno a trattarmi bene», i racconti che Adriana Faranda ha scritto sul carcere nel corso di molti anni, lasciandoli e riprendendoli, sentendo che la facevano «piangere e che, allora, valeva la pena di lavorarci ancora», e che escono adesso per Rizzoli con il titolo Il volo della farfalla. Lei è stata la famosa "postina" del sequestro Moro, faceva coppia con Valerio Morucci, il quale aveva partecipato anche al rapimento del presidente della Dc in via Fani e di cui era innamorata. Insieme nei 55 giorni del rapimento consegnarono le lettere di Moro ai colleghi, agli amici e alla famiglia, e insieme si batterono, nelle Brigate Rosse perché non fosse ucciso, e furono sconfitti. Vennero arrestati un anno dopo, nel 79. Avevano passato insieme cinque anni fuori dal carcere. La loro relazione ne durò altri dieci. «È finita ai primi permessi premio» racconta Adriana «ci siamo resi conto di volere cose diverse dalla vita. Siamo rimasti amici». Entrambi hanno ricostruito una vita sentimentale, Morucci ha una giovane moglie e un figlio piccolo, Adriana è legata a Gérald Bruneau, fotografo con cui divide casa e professione.
Ci sono voluti i dieci anni successivi alla sua scarcerazione perché Faranda maturasse questa narrazione sulla dura prova della galera, sui trasferimenti, gli speciali, l’isolamento, le persone incontrate, lasciate e mai dimenticate, la sopravvivenza, l'amore, la vergogna e l'orgoglio attraverso ritratti e storie di carcerate. Ogni storia è filtrata dallo sguardo, talvolta segreto, di Zoraima, «donna che tiene alla sua vita», quasi l'unica fra i personaggi a non portare il nome di un fiore profumato oppure velenoso: «Amo moltissimo i fiori e li coltivo, per questo ho deciso di chiamare le mie protagoniste Dionea, Fresia, Lunaria, Ortensia, Magnolia» spiega Faranda. «È stato come se i personaggi mi fossero venuti incontro dicendomi i loro nomi floreali». Un libro molto emotivo, perché Adriana Faranda è tempestosa, contraddittoria, appassionata, attraversata dalla vita e dalla morte, dagli errori atroci e dal tentativo di riparare e riflettere con l'intensità di una intera generazione. E pieno dì sensazioni fisiche che sembrano quasi assurde nel regno della deprivazione sensoriale.
Dove hai trovato il coraggio, Adriana, di pensare ancora al carcere?
«È stata una porzione grande della mia vita. Quindici anni. La galera è un luogo rimosso della società, dimenticato, volevo riportarlo al centro dello sguardo. Ma ci voleva un posto tranquillo per riattraversare i ricordi. Ora vivo in campagna, vicino a un lago. E ho potuto sentire di nuovo una intensità di emozioni, colori, odori, la dimensione del tempo».
Da fuori si suppone che il tempo in galera sia tutto uguale, stabile. Invece tu lo descrivi come mutevole, incerto.
«Perché lo è. Per esempio io sono stata trasferita da Rebibbia a Messina, poi a Ferrara, ad Avellino, a Bari, di nuovo a Rebibbia, poi a Latina, e infine a Palliano. Ma puoi restare un essere umano solo quando capisci che non puoi sopravvivere al carcere riducendo il tempo a un'attesa, quando te lo riprendi come tempo di vita a pieno titolo, ti sottrai e rompi il meccanismo del rifiuto, ti dici che la tua esistenza in quel momento è lì».
C'è una gamma intera di rapporti fra donne, in questo libro. Amore, amicizia, tradimento, sesso, perfino stupro.
«Fra le detenute c'è una grande naturalezza, una carica affettiva forte, complicità, sostegno, ricerca di contatto anche fisico. Sì, i rapporti sono più aperti che nel carcere maschile, ci sono meno difese. Forse perché, non essendoci uomini, non si è in concorrenza le une con le altre, e in più si è accomunate da una condizione ostile. Così le relazioni possono essere anche dure o durissime, violente, e però non sono mai mascherate, non c'è mistificazione».
C'è anche tua figlia, in questo libro.
«Alessandra ha ormai 34 anni, è una donna bellissima e in gamba, ha studiato teatro. L'ha cresciuta mia madre, che è morta un mese e mezzo fa dopo sedici anni di cecità. Gliel'ho lasciata quando sono entrata in clandestinità, le dissi che avevano trovato il mio nome nell'agendina di un compagno dei Nap e dovevo sparire. Da allora all'arresto ho rivisto Alessandra poche volte, spesso da lontano. Era vietato, nelle Br, mantenere legami familiari, affettivi. E io ero molto disciplinata».
Pensavi che avreste vinto?
«Pensavo che con la lotta armata fosse possibile innescare un processo che poi si sarebbe esteso e avrebbe portato a cambiamenti radicali. Non avrei potuto negarmi gli affetti più profondi, come quello per mia madre e per mia figlia, se avessi pensato di perdere. Non ho mai avuto la mitologia del perdente, alla Butch Cassidy. Poi a un certo punto ho capito che avevamo completamente sbagliato e che comunque non saremmo mai arrivati dove volevamo andare. Erano dubbi che avevo sempre avuto e che arrivarono al culmine durante il sequestro Moro, quando mi sono battuta insieme a Valerio Morucci contro l'esecuzione. In seguito ho capito che l'errore sta nel pensare di aver diritto di togliere la vita a un altro essere umano, e che l'accettazione della violenza come metodo di lotta politica poteva portare solo ad azioni raccapriccianti. Da molto tempo ho segnato la mia distanza, ho chiesto perdono, ho significato il mio dolore e il mio strazio, mi sono presa tutte le mie responsabilità, eppure so che non potrò mai lavarmene le mani».
Pensi mai a quello che avresti potuto fare se non fossi diventata una guerrigliera?
«Oh sì. Con la nostra intelligenza, la nostra passione, la nostra dedizione, l'autodisciplina di cui eravamo capaci noi avremmo dovuto e potuto spenderci nella battaglia delle idee, nell'arte, nella ricerca, nella letteratura e avremmo potuto migliorare il mondo, se non cambiarlo».