Una preziosa occasione per coniugare giustizia e umanità. Il gran tema della riforma delle carceri e di un atto di clemenza, di Carlo Cardia
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Riprendiamo da Avvenire del 12/10/2013 un articolo scritto da Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2013)
Un tema grande, come quello di rendere giustizia a chi ne ha bisogno, rischia di essere eluso e immiserito da miopie e diatribe politiche. Stando ai fatti, le condizioni perché il Parlamento accolga la richiesta di Giorgio Napolitano di varare amnistia e indulto, ci sono tutte. Tanti anni ci separano dall’ultima amnistia del 1990, e l’indulto del 2006, le motivazioni del messaggio presidenziale sono nobili e fondate, una fase politica s’è appena chiusa con il rinnovo di fiducia al Governo in carica.
L’Italia si trova di fronte a un’occasione preziosa, ma anche al rischio di un fallimento che colpirebbe la sua immagine internazionale, il senso comune di solidarietà, la credibilità dell’impegno per valori alla base delle moderne democrazie. La condizione delle nostre carceri non viola solo alcuni diritti fondamentali, contrasta con il parametro centrale dell’intero sistema di diritti della persona, la dignità umana, cui spetta la supremitas nella graduatoria dei valori propri delle Carte internazionali.
Anche solo lo stillicidio continuo di suicidi dei detenuti, cresciuto nel tempo, è fenomeno che interroga le coscienze, chiede di decidere se un pezzo di società – decine di migliaia di persone, le rispettive famiglie, quanti gravitano attorno al mondo carcerario – possa essere dimenticato, escluso dalle garanzie minime di vita accettabile, condannato all’oblio da parte degli uomini liberi che stanno fuori, non vedono, non sentono, tacciono.
Stiamo diventando, assieme ad altri Paesi sviluppati, società schizofreniche; ci chiediamo se inserire tra i diritti umani bisogni effimeri, egoistici, persino se esiste un diritto al telefonino dei ragazzi, se la tecnologia che registra chi guida l’auto o preleva al bancomat provochi grave violazione del diritto alla privacy; ma restiamo indifferenti di fronte a persone in attesa di giudizio e presunte innocenti, o detenute a motivo d’immigrazione irregolare, che non possono muoversi, dormire, ammalarsi in luoghi comunque degni per l’essere umano.
Per cambiare la faccia malvagia delle carceri si può attingere a un lessico multiplo, alla misericordia cristiana, all’umanesimo laico, al diritto che spetta a ciascuno, alla giustizia della civitas, e si può farlo – se ne ragionato a riprese e a più voci sulle pagine di 'Avvenire' – con l’amnistia e l’indulto in tempi relativamente brevi, insieme ad altre decisive riforme per depenalizzare i reati minori. Possiamo dunque, qui e oggi, affrontare un tema di civiltà.
Però, c’è il rischio di non farcela, che le parole del presidente Napolitano restino senza frutto, che la richiesta di saggia e umana clemenza dei Papi che si sono succeduti in questo primo scorcio del XXI secolo italiano sia ancora dimenticata.
Soprattutto potremmo scoprire che non siamo quel Paese di forte e solidale civiltà che crediamo d’essere, siamo più cattivi di quanto pensiamo. Possiamo inventare scuse per rifiutare ciò che è buono, come l’ipotetico utile che alcune persone (una in specie: Silvio Berlusconi) trarrebbero dal provvedimento, ma sappiamo tutti che la scusa vale zero sotto il profilo formale (decide il Parlamento) e sostanziale (alcuni reati possono essere esclusi).
Dobbiamo allora confessare la verità. Dire no all’amnistia e all’indulto, oggi, testimonierebbe che sono prevalse in Parlamento pulsioni negative che serpeggiano nelle pieghe oscure del sentire collettivo, in gruppi politici rancorosi, privi di quella spinta solidale senza la quale la politica è gretta chiusura, arroganza; che hanno vinto istinti in qualche modo razzisti verso chi deve essere punito, umiliato per ciò che è, perché non ha difesa. Vorrebbe dire che s’è conficcata nello spirito pubblico quella logica amico/nemico che negli ultimi due decenni ha fatto prevalere il peggio che è dentro di noi, che siamo diventati freddi e astiosi verso chi si trova alla mercé della pietà altrui.
Perderemmo allora la speranza di migliorare, d’avere l’orgoglio di noi stessi, della nostra storia che tante volte è stata più dolce, umana, rispetto a quella di altri popoli. Dire sì ai provvedimenti chiesti nella forma più solenne dal capo dello Stato, proposti da anni da forze sociali diversissime che conoscono le carceri (dai cappellani ai sindacati, ai radicali, al volontariato…) ci eviterebbe una scelta sciagurata, di cui vergognarci, ripetutamente censurata dall’Europa; e ci farebbe ritrovare un pezzo della nostra anima, della nostra identità più bella.