Inculturazione ed identità della fede
Alcune problematiche sul tema dell’inculturazione appaiono oggi più chiare dopo le discussioni degli ultimi decenni, da quando cioè questa questione – che è sempre esistita – è stata riproposta in epoca moderna. Il punto di equilibrio cercato doveva soddisfare sia il nuovo contesto nel quale il vangelo viene di volta in volta annunciato, sia quello dell’identità immutabile della fede che viene trasmessa.
1/ Innanzitutto la fede cristiana , poiché è fede nell’Incarnazione di Dio, non può prescindere dal preciso contesto storico nel quale questa Incarnazione è avvenuta. Poiché è fede che nasce da una rivelazione storica, non da un pensiero ideologico, essa si incontra in una precisa storia che Dio, nella sua sovrana e bella libertà, ha realizzato. Su questa storia bisogna, sempre di nuovo, chinarsi così come essa è uscita dalle sue mani. La fede, infatti, non è semplicemente un’idea che si potrebbe poi rivestire con qualsiasi vestito. E’ interessante come a nessuno venga in mente di de-ebraicizzare il cristianesimo: l’Antico Testamento è scritto in ebraico e Dio si è rivelato in quel particolare contesto veterotestamentario che non può essere sottovalutato in nome di una inculturazione successiva. La Bibbia non può essere riscritta o taciuta, anche in un altra cultura. Lo slogan – che ora viene giustamente superato – è stato per un certo tempo quello della de-ellenizzazione (non si capisce perché si sottolineava la de-ellenizzazione e non la de-ebraicizzazione!). Oggi è evidente che è un pre-supposto immotivato privilegiare una supposta “mentalità semitica” della Rivelazione, come taluni affermano a motivo dell’esistenza dell’Antico Testamento, rispetto ad una “mentalità greca” a motivo del Nuovo Testamento (cfr. come supremo esempio, l’utilizzo dell’espressione Logos in Gv1). Ad un livello scientifico – vedi gli studi di James Barr – la presunta contrapposizione della cosiddetta “mentalità semitica” e della cosiddetta “mentalità greca” è stata sfatata da tempo e si è giunti ad una visione molto più sfumata dei rapporti fra ebraismo e grecità (vedi, su tutto, la traduzione in greco dell’Antico Testamento, la famosa LXX, opera di rabbini ebrei e non di autori cristiani, assunta poi fin dall’età apostolica come punto di riferimento insostituibile e utilizzata come Scrittura Sacra nel Nuovo Testamento). Ma Parola di Dio non è solo la Scrittura, è il Cristo intero che ci parla attraverso la Scrittura e la Tradizione. Anche quest’ultima ha una precisa storia che non è accantonabile a piacere. E’ interessante, a questo proposito, la lucidissima analisi del Papa Benedetto XVI contraria ad una de-ellenizzazione del cristianesimo. E’ provvidenziale e non storicamente accidentale l’incontro tra il cristianesimo e la ragione – che è al cuore dell’esperienza spirituale della grecità.
2/ In secondo luogo è sempre più evidente che, se diverse sono le culture, è, però, l’uomo a restare lo stesso nei suoi problemi fondamentali, nelle sue domande e desideri profondi, poiché ad immagine di Dio è stato fatto. E’ la sua creaturalità che non lo riduce a storia. La storicità segna l’uomo, nei diversi luoghi e nei diversi tempi, ma l’identità dell’uomo resta immutata sia nel fluire del tempo, sia nel cambiare delle coordinate geografiche e culturali dello spazio. Uno studio si impone per discernere ciò che è permanente e ciò che è storico dell’uomo. Ma è certo che l’uomo non sai solo “materiale” storico, continuamente modificabile a piacere, come vorrebbero alcune correnti ideologiche, che negano l’esistenza di “strutture” permanenti nell’essere umano e lo riducono a puro prodotto dei condizionamenti di un dato periodo (vedi su questo, nella nostra Antologia di testi, il brano su Adolescenti: storicità e permanenza).
3/ In terzo luogo è straordinariamente importante che il cristianesimo abbia una sua precisa identità. Proprio il primo comandamento veterotestamentario, e poi ancor più la rivelazione del Cristo, invitano a non venerare falsi dei, portando il tema della verità al centro del discorso spirituale e teologico. E’ ben per questo che il cristianesimo non può essere definito né orientale, né occidentale sic et simpliciter. Ha una sua precisa identità, che permane ed è riconoscibile e confessabile nei diversi riti che la esprimono. La novità del cristianesimo è tale da essere capace di fecondare e trasformare le culture nelle quali si inserisce. Il cristianesimo non si è semplicemente “ellenizzato” nel periodo patristico – dove peraltro i Concili erano ecumenici, cioè abbracciavano anche le culture latine, copte, sire, ecc. ecc. - ma piuttosto ha cristianizzato la cultura greca. Basti pensare a come nella discussione cristologica dei primi secoli è stato necessario coniare nuove parole o modificare il significato antico di termini esistenti (il concetto di “persona” su tutti), perché assolutamente nuovo era il contenuto cristiano che doveva essere espresso. Inculturarsi non ha così avuto il significato di trovare in quella determinata cultura ciò che quel periodo storico già sapeva e conosceva con le sue proprie forze – questo annullerebbe l’assoluta indeducibilità del cristianesimo dal pensiero umano ed il suo carattere di rivelazione – bensì di far “esplodere” la cultura nella quale la fede cristiana era entrato, da un lato assumendone i germi di bene, dall’altro rigettandone i tratti contrari alla fede ed, infine, fecondandola con la novità della fede.
Questo è evidente nell’annuncio della fede: non era possibile che si desse, prima del cristianesimo, la rivelazione della figliolanza divina del Cristo ed, insieme, della Trinità. Non è possibile trovare questo nelle culture precedenti ed esterne al cristianesimo, poiché questo è propriamente la novità dell’annuncio della fede. La storia della Chiesa ci insegna che la confessione del Credo deve essere espressa anche in altre culture, non ridimensionata.
Lo stesso vale per la prospettiva morale. Come il Cristo ha sconvolto la prassi del divorzio, caratteristica del mondo ebraico e greco-romano, con l’annuncio dell’indissolubilità, così avverrà anche, analogamente, in nuove culture che dovessero essere raggiunte dalla fede.
4/ Pure questa assoluta unità non è mai divenuta uniformità, nella storia della Chiesa. In questo senso, l’inculturazione è un evento sempre avvenuto e che sempre deve avvenire ed avverrà. Già al livello della Sacra Scrittura, il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni per il fatto di avere i propri testi sacri in due lingue e non in una sola – fattore che è gravido di conseguenze. Proprio la riflessione sulla Tradizione della Chiesa può mostrare gli elementi evidenti che manifestano e realizzano l’unità – il simbolo di fede, la comunione verticale con la Tradizione e quella orizzontale del presente con la Chiesa di Roma e con la Catholica nel suo complesso, la realtà sacramentale – e quelli di pluriforme ricchezza (vedi, su tutto, i diversi riti, con le loro differenziazioni non solo liturgiche, ma anche spirituali e giuridiche), per cui la Chiesa è sempre stata orientale ed occidentale e pur sempre una.
5/ Ne consegue un atteggiamento verso ogni cultura e religione che, da un lato, ne sa cogliere e valorizzare tutti gli elementi positivi – e motivo fondante ne è certamente l’essere l’uomo creato ad immagine di Dio e capace, nonostante il peccato originale, di bene – e dall’altro invita a lasciar cadere quegli elementi negativi che si manifestano ancor più evidenti dinanzi all’unicità dell’amore del Cristo.
1/ Innanzitutto la fede cristiana , poiché è fede nell’Incarnazione di Dio, non può prescindere dal preciso contesto storico nel quale questa Incarnazione è avvenuta. Poiché è fede che nasce da una rivelazione storica, non da un pensiero ideologico, essa si incontra in una precisa storia che Dio, nella sua sovrana e bella libertà, ha realizzato. Su questa storia bisogna, sempre di nuovo, chinarsi così come essa è uscita dalle sue mani. La fede, infatti, non è semplicemente un’idea che si potrebbe poi rivestire con qualsiasi vestito. E’ interessante come a nessuno venga in mente di de-ebraicizzare il cristianesimo: l’Antico Testamento è scritto in ebraico e Dio si è rivelato in quel particolare contesto veterotestamentario che non può essere sottovalutato in nome di una inculturazione successiva. La Bibbia non può essere riscritta o taciuta, anche in un altra cultura. Lo slogan – che ora viene giustamente superato – è stato per un certo tempo quello della de-ellenizzazione (non si capisce perché si sottolineava la de-ellenizzazione e non la de-ebraicizzazione!). Oggi è evidente che è un pre-supposto immotivato privilegiare una supposta “mentalità semitica” della Rivelazione, come taluni affermano a motivo dell’esistenza dell’Antico Testamento, rispetto ad una “mentalità greca” a motivo del Nuovo Testamento (cfr. come supremo esempio, l’utilizzo dell’espressione Logos in Gv1). Ad un livello scientifico – vedi gli studi di James Barr – la presunta contrapposizione della cosiddetta “mentalità semitica” e della cosiddetta “mentalità greca” è stata sfatata da tempo e si è giunti ad una visione molto più sfumata dei rapporti fra ebraismo e grecità (vedi, su tutto, la traduzione in greco dell’Antico Testamento, la famosa LXX, opera di rabbini ebrei e non di autori cristiani, assunta poi fin dall’età apostolica come punto di riferimento insostituibile e utilizzata come Scrittura Sacra nel Nuovo Testamento). Ma Parola di Dio non è solo la Scrittura, è il Cristo intero che ci parla attraverso la Scrittura e la Tradizione. Anche quest’ultima ha una precisa storia che non è accantonabile a piacere. E’ interessante, a questo proposito, la lucidissima analisi del Papa Benedetto XVI contraria ad una de-ellenizzazione del cristianesimo. E’ provvidenziale e non storicamente accidentale l’incontro tra il cristianesimo e la ragione – che è al cuore dell’esperienza spirituale della grecità.
2/ In secondo luogo è sempre più evidente che, se diverse sono le culture, è, però, l’uomo a restare lo stesso nei suoi problemi fondamentali, nelle sue domande e desideri profondi, poiché ad immagine di Dio è stato fatto. E’ la sua creaturalità che non lo riduce a storia. La storicità segna l’uomo, nei diversi luoghi e nei diversi tempi, ma l’identità dell’uomo resta immutata sia nel fluire del tempo, sia nel cambiare delle coordinate geografiche e culturali dello spazio. Uno studio si impone per discernere ciò che è permanente e ciò che è storico dell’uomo. Ma è certo che l’uomo non sai solo “materiale” storico, continuamente modificabile a piacere, come vorrebbero alcune correnti ideologiche, che negano l’esistenza di “strutture” permanenti nell’essere umano e lo riducono a puro prodotto dei condizionamenti di un dato periodo (vedi su questo, nella nostra Antologia di testi, il brano su Adolescenti: storicità e permanenza).
3/ In terzo luogo è straordinariamente importante che il cristianesimo abbia una sua precisa identità. Proprio il primo comandamento veterotestamentario, e poi ancor più la rivelazione del Cristo, invitano a non venerare falsi dei, portando il tema della verità al centro del discorso spirituale e teologico. E’ ben per questo che il cristianesimo non può essere definito né orientale, né occidentale sic et simpliciter. Ha una sua precisa identità, che permane ed è riconoscibile e confessabile nei diversi riti che la esprimono. La novità del cristianesimo è tale da essere capace di fecondare e trasformare le culture nelle quali si inserisce. Il cristianesimo non si è semplicemente “ellenizzato” nel periodo patristico – dove peraltro i Concili erano ecumenici, cioè abbracciavano anche le culture latine, copte, sire, ecc. ecc. - ma piuttosto ha cristianizzato la cultura greca. Basti pensare a come nella discussione cristologica dei primi secoli è stato necessario coniare nuove parole o modificare il significato antico di termini esistenti (il concetto di “persona” su tutti), perché assolutamente nuovo era il contenuto cristiano che doveva essere espresso. Inculturarsi non ha così avuto il significato di trovare in quella determinata cultura ciò che quel periodo storico già sapeva e conosceva con le sue proprie forze – questo annullerebbe l’assoluta indeducibilità del cristianesimo dal pensiero umano ed il suo carattere di rivelazione – bensì di far “esplodere” la cultura nella quale la fede cristiana era entrato, da un lato assumendone i germi di bene, dall’altro rigettandone i tratti contrari alla fede ed, infine, fecondandola con la novità della fede.
Questo è evidente nell’annuncio della fede: non era possibile che si desse, prima del cristianesimo, la rivelazione della figliolanza divina del Cristo ed, insieme, della Trinità. Non è possibile trovare questo nelle culture precedenti ed esterne al cristianesimo, poiché questo è propriamente la novità dell’annuncio della fede. La storia della Chiesa ci insegna che la confessione del Credo deve essere espressa anche in altre culture, non ridimensionata.
Lo stesso vale per la prospettiva morale. Come il Cristo ha sconvolto la prassi del divorzio, caratteristica del mondo ebraico e greco-romano, con l’annuncio dell’indissolubilità, così avverrà anche, analogamente, in nuove culture che dovessero essere raggiunte dalla fede.
4/ Pure questa assoluta unità non è mai divenuta uniformità, nella storia della Chiesa. In questo senso, l’inculturazione è un evento sempre avvenuto e che sempre deve avvenire ed avverrà. Già al livello della Sacra Scrittura, il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni per il fatto di avere i propri testi sacri in due lingue e non in una sola – fattore che è gravido di conseguenze. Proprio la riflessione sulla Tradizione della Chiesa può mostrare gli elementi evidenti che manifestano e realizzano l’unità – il simbolo di fede, la comunione verticale con la Tradizione e quella orizzontale del presente con la Chiesa di Roma e con la Catholica nel suo complesso, la realtà sacramentale – e quelli di pluriforme ricchezza (vedi, su tutto, i diversi riti, con le loro differenziazioni non solo liturgiche, ma anche spirituali e giuridiche), per cui la Chiesa è sempre stata orientale ed occidentale e pur sempre una.
5/ Ne consegue un atteggiamento verso ogni cultura e religione che, da un lato, ne sa cogliere e valorizzare tutti gli elementi positivi – e motivo fondante ne è certamente l’essere l’uomo creato ad immagine di Dio e capace, nonostante il peccato originale, di bene – e dall’altro invita a lasciar cadere quegli elementi negativi che si manifestano ancor più evidenti dinanzi all’unicità dell’amore del Cristo.