«Io credo per colpa dei miscredenti». Giovanni Lindo Ferretti compie sessant’anni, di Chiara Sirianni
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Chiara Sirianni ripubblicato il 9/9/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/9/2013)
Oggi, 9 settembre 2013, Giovanni Lindo Ferretti compie sessant’anni. Ripubblichiamo l’intervista con cui nel 2010 ci raccontò le ragioni della sua conversione. Da punk filosovietico a cattolico.
«Non fare di me un idolo, mi brucerò/ se divento un megafono mi incepperò cosa fare o non fare non lo so/ quando dove perché riguarda solo me/ Io so solo che tutto va ma non va/ Non va, non va». (“A Tratti”, da K.O. del mondo, Csi, 1994)
Giovanni Lindo Ferretti vive a Cerreto Alpi, sull’Appennino emiliano. Un centro di settanta abitanti, il classico paesino da cui tutti vogliono scappare, e in cui lui cerca invece ostinatamente di tornare. Con due cavalli nella stalla, che ogni giorno porta a pascolare, e una casa antica, la stessa in cui è nato (nel 1953), senza computer, senza campanello, ma con le finestre sempre aperte.
Il padre muore di peritonite prima della sua nascita. Il piccolo Giovanni studia dalle suore (che gli chiedono di «pregare per l’uomo che ha salvato l’Emilia dai soviet», il monaco Dossetti) poi si trasferisce a Reggio. Entra al Dams a Bologna, ma per cinque anni fa l’operatore psichiatrico. Crede nel punk perché mette al centro l’essere umano e l’anima di chi suona, piuttosto che tecnica o regole, e urla brevi e secche frasi, ispirato dai pazienti. Nel 1981 parte per Berlino, due anni dopo fonda i Cccp (Urss, in caratteri cirillici). Le icone, la mitologia e le parole d’ordine che Giovanni e i suoi useranno per raccontarsi saranno sovietiche soprattutto per scelta estetica, per assorbirne la carica provocatoria. L’Urss rappresenta un pensiero forte, l’ultima fede possibile prima della fine del socialismo reale e del nichilismo di massa. In un volantino scriveranno: «Il punk è una sorta di magma mistico che protegge la propria esistenza ostentando il contrario», prendendosi i fischi dei centri sociali. Ma la canzone “Emilia paranoica” (nell’album: Compagni, cittadini, fratelli, partigiani del 1984) diventa uno degli inni del punk italiano. Due anni dopo, Ferretti prova per 25 giorni da solo un canzone, “Madre”. «Madre di dio/ e dei suoi figli/ madre dei padri/ e delle madri/ madre o madre o madre mia/ l’anima mia si volge a te». È il primo atto di devozione mariana del punk comunista, o forse una semplice inconsapevole ripresa dei salmi ascoltati da bambino. La Virgin non ne è troppo entusiasta. Ferretti invece profetizza: «La canteranno tutti a pugno chiuso e con le lacrime agli occhi». Caduta l’Unione Sovietica, nel 1992 i Cccp si trasformano in Csi (Consorzio Suonatori Indipendenti). Poi in Pgr (Per Grazia Ricevuta). Il gruppo si è sciolto un anno fa, ma il primo giugno è uscito ConFusione, la rilettura di alcuni brani dei Pgr firmata Franco Battiato.
Ferretti è il punto di riferimento per i punk emiliani degli anni Ottanta, e il portavoce del senso di smarrimento vissuto dai giovani di sinistra negli anni Novanta. Subisce il fascino dell’islam e della filosofia cinese. La sua svolta degli ultimi dieci anni, dal comunismo – più o meno eretico – all’essere un “punk cattolico”, ha diviso il suo pubblico: più di un orfano di sinistra ha parlato di tradimento, opportunismo, follia. Lui, nella quiete della sua Cerreto, non si cura né delle critiche di chi per nostalgia non accetta il suo cambiamento, né delle lusinghe dei benevoli che vorrebbero appiccicargli addosso il cliché del convertito. Tra una sigaretta e l’altra, si limita a raccontare di un umanissimo (e aspro) percorso di ricerca personale, perché da Togliatti a Benedetto XVI scorre un filo invisibile: il senso del sacro, attribuito un tempo all’Unione Sovietica, trapassato nella ricerca condotta in altrui luoghi e religioni, per poi tornare alle proprie origini, alle proprie radici. In una parola, a casa. «Sono come un reduce, che torna da un mondo all’altro», racconta Ferretti a Tempi. «La mia guerra è stata sociale, culturale e dello spirito: ho simpatizzato prima per i radiati dal Pci del Manifesto, poi ho aderito a Lotta continua. Ho partecipato alla prima riunione politica del gruppo che poi avrebbe fondato le Brigate rosse nella mia città. “Reduce” implica per me l’accettazione di due mondi: quello in cui sono nato e cresciuto, e l’altro che ho contribuito a distruggere. E il reduce è anche colui che ha un posto in cui tornare, e ricominciare».
La scoperta della Mongolia
A fare da spartiacque tra punk e cattolicesimo è un viaggio in Mongolia, nel 1996. Il gruppo di Ferretti cancella il tour estivo, rifiuta di suonare con i Sex Pistols e si appresta a percorrere cinquemila chilometri nella steppa. Massimo Zamboni (allora chitarrista dei Csi) parte in aereo, Ferretti sceglie il treno da Mosca. Poi arriva l’Asia e le sue lande desolate, la radicale alterità rispetto agli ossessivi ritmi del moderno Occidente. «Ero all’apice del successo personale e del benessere materiale, e mi sono messo in viaggio a ritroso, lungo i paesi che avevano costruito politicamente il mio immaginario: viaggiare attraverso la Russia è stato come riattraversare la mia giovinezza, la mia adolescenza. In Mongolia invece è come se avessi rivissuto la mia infanzia: la natura incontaminata mi ricordava i ritmi lenti e naturali di Cerreto Alpi, una sorta di tardo Medioevo in cui i valori erano scanditi dalla famiglia, dalla comunità, dagli animali, dall’arciprete. Poi per me, con il ’68, è arrivata la voglia di cambiare il mondo per farne uno più bello e più giusto. L’Asia, invece, mi ha calato in una dimensione opposta rispetto a quella fervente e politicizzata dell’Europa, lì i segni della storia, comunismo compreso, non erano sedimentati. È stata un’esperienza molto forte: mi sono sentito come una creatura, immerso in un’appena avvenuta creazione, al cospetto di un creatore di cui mi ero dimenticato. La Mongolia mi ha insegnato che il mondo esisteva anche prima della contro-cultura giovanile, degli anni Settanta, della chitarra elettrica».
Il ritorno a casa diventa molto più complicato del comprare un semplice biglietto aereo. Ferretti riprende a fare concerti, ma bendato: guardare il pubblico in faccia lo mette in imbarazzo, stare sul palco non gli dà più la soddisfazione di prima. E allora inizia a cercare risposte altrove. «Sono sempre stato un cultore del cattivo gusto: mi piace andare a verificare l’odio degli altri. Così finisco per credere a ciò in cui credo grazie a chi avversa un’idea, non a chi la sostiene, è il mio modo di rapportarmi alla vita. I Cccp erano filosovietici in quanto nati in Occidente: fossimo nati nell’Unione Sovietica saremmo andati in giro con la Coca-Cola in mano e vestiti come Sylvester Stallone. Allo stesso modo, sono diventato cattolico non grazie ai preti, ma grazie ai miscredenti». È sempre il culto del cattivo gusto che porta Ferretti a scoprire «chi è questo c… di Ratzìnger (credevo ci fosse l’accento sulla “i”, mi suonava più cattivo»). Va in una libreria, chiede se per caso quel cardinale ha pubblicato qualcosa. Ne esce con nove libri, e trova una guida spirituale.
L’unica rivoluzione vitale
«I teologi sono come le tasse: pochi, ma ci vogliono. Ho capito che esiste un ritorno a casa nel momento in cui c’è un ritorno al Padre. Che è indispensabile un rapporto verticale per risolvere i rapporti orizzontali. Ho imparato che non esiste casa senza una chiesa, è un pensiero che ho trovato anche in Yukio Mishima, autore giapponese, che ha scritto: “Senza un imperatore, non ci si può nemmeno amare”. Perché i rapporti d’amore costituiscono in realtà un triangolo, se non hanno qualcuno di più alto a cui fare riferimento non hanno senso».
Ma perché, dopo l’islam e Confucio, proprio il cattolicesimo? Per caso, per tradizione, per l’influenza materna? «Perché l’uomo ha bisogno di rapportarsi a qualcosa che lo sovrasti, altrimenti subentra una fede assoluta nell’uomo che finisce per tradursi in cannibalismo. Io l’ho creduto per molto tempo: sono stato un comunista convinto che la giustizia in terra si potesse ottenere con la necessaria volontà e il necessario rigore. Ma l’idealista corre un rischio: raramente va a verificare nella concretezza ciò che l’idea produce. E io non conosco nessuna idea, tra quelle prodotte unicamente dalla volontà dell’uomo, che abbia generato frutti duraturi. L’ho cercata, non l’ho trovata. Quindi mi sembra ragionevole affidare la mia speranza a Dio, e all’unica rivoluzione che abbia dato linfa vitale alla storia umana: l’infinito che si fa uomo. E l’uomo diventa partecipe di questo infinito. Siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Che non è granché, mi rendo conto. Però è moltissimo».
Quello di Ferretti è un ritorno alle radici per trovare una direzione. «Una notte stavo guidando per arrivare qui, e mi sono accorto di avere affrontato la vita come se fosse una galleria, impegnandomi a rendere elegante l’abitacolo della mia macchina, mentre il mio problema era uscire dalla galleria, non rendere più gradevole il percorso. Ho sempre cercato di seguire la luce, la felicità. Che molto spesso è un’idea. O meglio, la luce c’è, ma io non è che la veda, così come non so perché va l’elettricità o il gas in cucina. È un rapporto di “bassa fede”. So solo che tutto quello che riesco a vivere, concretamente, è la percezione di un mistero».