La scuola al bivio: istruzione o assistenza sociale, di Giorgio Israel
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Riprendiamo dal blog di Giorgio Israel un suo articolo pubblicato il 8/9/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel.
Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2013)
L’anno scolastico inizia con una buona notizia: la decisione di sopprimere il “bonus maturità” che aveva suscitato tante critiche ed era funzionale solo all’appiattimento verso il basso del sistema scolastico e al declino dei licei. In tal modo, le selezioni per i successivi processi di formazione saranno frutto di valutazioni autonome e non condizionate da criteri automatici aberranti, secondo un’idea corretta della valutazione: il miglioramento del sistema non deriva da procedure burocratiche ma da valutazioni incrociate e indipendenti.
Se questa scelta del ministro è una buona notizia, l’anno scolastico si apre con tanti problemi tra cui ne ricordiamo due particolari e uno generale. Il primo riguarda le degradate strutture scolastiche: è opportuno che le poche risorse disponibili siano convogliate nella riqualificazione del patrimonio edilizio, per rendere dignitosa la vita di studenti e insegnanti.
Il secondo problema nasce da un’indicazione fornita dal ministro nella sua recente intervista al Mattino: «bocciare sia una scelta estrema». Non c’è dubbio: solo un sadico può considerare la bocciatura come un esito auspicabile. È giusto indicare come priorità il successo formativo. Tuttavia, denotare la bocciatura come “scelta estrema” può essere interpretato come un invito all’indulgenza, a promuovere tutti salvo casi patologici; e può avere effetti negativi. È noto che parecchi genitori pretendono dalla scuola il successo formativo “garantito” e tendono a farsi sindacalisti dei figli.
La trasformazione della scuola in un supermercato che fornisce prodotti con la garanzia della soddisfazione del consumatore (“customer satisfaction”) sottrae agli insegnanti ogni strumento per incentivare il rendimento degli studenti. D’altra parte, se la promozione dovesse diventare automatica (o quasi), quale studente si sentirebbe stimolato a rendere il massimo quando vede che basta un impegno minimo per andare avanti? È vano parlare di “meritocrazia” – un brutto termine che andrebbe sostituito con “premio del merito” – se si offre una prospettiva vantaggiosa ai comportamenti pigri e minimali. Il premio del merito e la sanzione del demerito sono condizioni essenziali per la sopravvivenza della scuola.
Di qui una problematica più generale su cui è improcrastinabile una scelta di fondo che possiamo riassumere in questa alternativa: si vuole che la scuola sia un centro d’istruzione oppure un luogo di educazione sociale complessiva? La prima veduta è, a mio avviso, l’unica consona a una democrazia liberale: si forniscono agli studenti conoscenze e capacità adatte a compiere liberamente e autonomamente le loro scelte nella vita.
La seconda è più consona a una visione totalitaria: la scuola invece di limitarsi a trasmettere conoscenze e creare capacità, interviene nel forgiare le personalità, assume un ruolo di costruzione sociale. Si conceda pure che, nel nostro paese, questa veduta è intesa in modo più che altro assistenziale. Ma esiste la perniciosa tendenza a fare della scuola un complesso di centri sociali che dovrebbero assolvere a una gran quantità di funzioni, e persino a surrogare quelle della famiglia e a intervenire nei problemi psicologici e medici dei soggetti in modo eccessivo.
Quando venne approvata la normativa dei DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) fummo in molti a paventarne i rischi. Purtroppo, le cose vanno peggio del previsto: il numero di diagnosi di DSA aumenta a dismisura, probabilmente per il desiderio di certe famiglie di garantire un percorso semplificato ai loro figli, per la pigrizia di alcuni insegnanti e gli interessi di alcune corporazioni. La medicalizzazione della scuola sta progredendo in modo inquietante, riducendo sempre di più gli spazi disciplinari.
Ma i DSA rischiano di essere poca cosa rispetto alla valanga che promettono di essere i BES (Bisogni Educativi Speciali). La loro recente normativa trasforma la funzione istituzionale della scuola da centro d’istruzione a ente assistenziale globale. Essa prevede che «ogni alunno, con continuità, o per determinati periodi, possa manifestare BES: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta».
Entro una simile definizione non si sa che cosa non possa rientrare. Non esiste una sola istituzione che abbia tante funzioni! L’insegnante verrà sommerso da una miriade di attività, coinvolto in una moltiplicazione parossistica di organismi, quale il GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione), composto da “educatori culturali”, “assistenti alla comunicazione, genitori, esperti istituzionali o in convenzione che dovrà nientemeno che formulare un Piano Annuale per l’Inclusività (PAI).
È lecito chiedersi cosa mai resterà della didattica disciplinare in tutto questo. Il solo menzionare parole come “storia”, “matematica” o “italiano” di fronte al colosso universale dell’“inclusività” suona derisorio. Ricevo lettere sconsolate di docenti che già vivono con sofferenza il degrado della loro figura e immaginano cosa succederà con i BES. Come nel caso della “meritocrazia”, si promette di restituire dignità al ruolo dell’insegnante e poi si agisce in senso opposto.
Ma, soprattutto, è ragionevole attribuire alla scuola il compito universale di risolvere qualsiasi problema della vita dei singoli? È un costruttivismo sociale paranoico che nessun organismo, neppure la società nel suo complesso, può assolvere, né dovrebbe assolvere. È il caso di fermarsi prima di imboccare con tanta leggerezza una svolta epocale che – è facile profezia prevederlo – può finire solo in un insuccesso clamoroso che travolgerà nelle rovine anche la funzione dell’istruzione.