La morte dei mille tagli. La distruzione di Pechino (da Tiziano Terzani)
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Tiziano Terzani visse in Cina dal gennaio 1980 fino alla primavera 1984, quando venne arrestato, rieducato e alla fine espulso. Come resoconto di quegli anni egli scrisse nel 1984 T. Terzani, La porta proibita, Longanesi, Milano, 2005. Da quel volume riprendiamo alcuni brani che riguardano Pechino ed aiutano a capire cosa avvenne negli anni del maoismo fino all’apice della distruzione di tutta la tradizione del passato a causa della “rivoluzione culturale” ideata e portata avanti dall’allora leader Mao Tsetung (in cinese Mao Zedong) a partire dal 1966. Restiamo a disposizione per la loro immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (8/9/2013)
Da T. Terzani, La porta proibita, Longanesi, Milano, 2005, pp. 35-36
I comunisti hanno trasformato i templi e li hanno resi «utili». «Fare di Pechino una città produttiva» fu la parola d'ordine. Pechino, per produrre, aveva bisogno di fabbriche. Le fabbriche avevano bisogno di spazio e i templi, coi loro bei cortili vuoti, erano la soluzione ideale per lo sviluppo industriale della capitale.
La politica del ji (dello «spingere via»), come era appunto chiamata all'interno del partito, serviva a due scopi: da un lato contribuiva alla produzione, dall'altro alla distruzione della religione.
La tattica era semplice e sempre la stessa: un 'unità si presentava in un tempio con pochi macchinari e molta cortesia. Facendo le riverenze ai monaci e chiedendo continuamente scusa, l'unità s'installava in un angolo del tempio cominciando a lavorare. Dopo un po', sempre con estrema cortesia e rispetto, un quadro politico andava a spiegare ai monaci che, per il benessere della gente, la produzione era almeno così importante quanto le loro preghiere e che per questo la fabbrica aveva bisogno di un po' più di spazio. Altri macchinari venivano introdotti. A distanza di qualche mese il ragionamento veniva ripetuto finché il tempio non era pieno di macchine e di operai, e ai monaci non restava che andarsene.
Fu così che, piano piano, al di sopra dei bei tetti colorati dei templi, accanto alle torri campanarie, si alzarono decine, poi centinaia, di ciminiere che cominciarono a vomitare zaffate nere di fumo in un cielo che era stato da sempre azzurrissimo.
I templi, uno dopo l'altro, diventarono fabbriche. Durante il solo «Grande Balzo in Avanti» millequattrocento fabbriche furono aperte nel centro della città. Ci sono ancora. Il Tempio del Grande Budda produce calchi per fornaci, il Tempio della Colta Saggezza produce filo elettrico, il Tempio del Dio del Fuoco, giustamente, produce lampadine, il Tempio della Nuvola Bianca, il più grande centro di studi taoisti in Cina, diventò in parte un magazzino e in parte fu assegnato a varie officine di riparazione.
Pechino, i cui cieli erano stati leggendari per la loro chiarezza, divenne presto una delle città più sporche al mondo, mentre la propaganda cinese, ripresa e ripetuta a pappagallo da vari scrittori, giornalisti e intellettuali occidentali abbindolati da un soggiorno di due settimane, esaltava la grande abilità delle autorità comuniste nel controllo dell'inquinamento.
Da T. Terzani, La porta proibita, Longanesi, Milano, 2005, pp. 37-41
Non tutti i templi, però, sono diventati delle fabbriche. Alcuni sono stati semplicemente distrutti per far posto a delle strade, com'è successo al Tempio dell'Abbondante Tranquillità e a quello del Budda Addormentato che stavano fuori Hatamen, o per far posto a nuovi - e, dal punto di vista comunista, più utili - edifici com'è successo al Tempio della Pagoda della Legge, abbattuto per costruire lo Stadio dei Lavoratori, o al popolarissimo Tempio della Fiorente Felicità, sacrificato per far posto a un supermercato. Le due grandi tartarughe di marmo che stavano a guardia di questo tempio, amatissimo dai pechinesi, sono finite miseramente a pancia all'aria fra le rovine del vecchio Palazzo d'Estate.
Un paio di templi, invece, vennero lasciati intatti e aperti al culto appunto per dar credito alla finzione, ripetuta nel testo di ogni nuova costituzione (dal 1949 ce ne sono già state cinque), che il regime comunista riconosce e garantisce la «libertà di religione». Fu così che il Dong Yue Miao, il Tempio della Vetta Orientale, sopravvisse fino al 1959 con migliaia e migliaia di fedeli che ogni giorno si riversavano nelle sue centocinque stanze per andare a inginocchiarsi e pregare dinanzi agli altari di mille diverse divinità che stavano lì di casa.
Secondo la credenza, infatti, era lì che le anime dei defunti dovevano presentarsi al cospetto degli dei che presiedono alle prigioni dell'oltretomba per sapere a quale tipo di tormenti sarebbero stati sottoposti per le malefatte commesse durante la vita. Questo tempio, il più grande centro del culto taoista nel nord della Cina, era perciò importantissimo, e frequentatissimo dalla gente che vi si recava a pregare per i propri defunti e a raccomandarli perché sottoterra venissero trattati con clemenza. Quando il tempio fu chiuso, l'unità che vi si insediò fu la temuta Pubblica Sicurezza, che da lì controlla la vita di ogni cinese. «Almeno in questo caso i comunisti hanno rispettato lo spirito del posto», dice un amico intellettuale che vive lì vicino. «Questo tempio aveva a che fare con prigioni prima e ha a che fare con prigioni adesso».
Il tempio è giusto dietro Qi Jia Yuan, il principale quartiere dove vivono gli stranieri e si dice che sia lì il centro di ascolto di tutti i nostri telefoni e il centro di lettura di tutta la nostra posta. L'ingresso, un tempo grandioso e marcato da un bellissimo pai-lo, ora è seminascosto da una fila di baracche. Un giorno, facendo finta di essermi perso, ho cercato di entrare dentro il primo cortile, la cui vista è bloccata dal solito muro su cui sta scritto SERVIRE IL POPOLO, ma, fatti appena un paio di passi, due scorbutici giovanotti in abiti normali mi hanno, senza accettare l'invito a far due chiacchiere, riportato sulla strada. Le statue sono scomparse, alcuni degli edifici sono stati abbattuti e un brutto baraccone di mattoni rossi è stato costruito giusto al centro del cortile principale.
Nella Pechino di oggi [N.d.R. 1984] non esiste un solo vero tempio, un tempio come se ne vedono a decine a Hong Kong, a Macao o in qualsiasi paese del sud-est asiatico dove vivono dei cinesi; un posto dove la gente va e viene a piacere, dove non paga un biglietto d'ingresso; un posto dove pregare, mettere bacchette d'incenso agli dei, interrogare dei pezzi di bambù per conoscere il proprio futuro; un posto dove chiacchierare o meditare.
I tre templi che sono stati riaperti nelle Colline Occidentali, così come il Tempio delle Cinque Pagode che è stato riaperto dopo essere stato usato per quindici anni come allevamento di cani per la polizia, non sono posti religiosi, sono semplicemente luoghi di divertimento, mete per passeggiate domenicali. Non è un caso infatti che l'ufficio della municipalità di Pechino, che è responsabile di questi templi, sia lo stesso che è incaricato dei giardini pubblici e dello zoo.
Nel centro di Pechino, il Tempio di Confucio è stato trasformato in un museo. Al momento accanto alla solita mostra su uno dei fondatori del Partito Comunista ce n'è una dei bronzi antichi recuperati dalla spazzatura: la gente, durantela Rivoluzione Culturale, cercava di disfarsi così delle proprie antichità per non essere accusata di gusti borghesi.
Il Fa Yuan Si, il Tempio della Fonte della Legge, è diventato la sede dell'Istituto Buddista e - come lo Huang Ji Si, il Monastero della Grande Misericordia - è usato per ricevere (e impressionare) le delegazioni buddiste che vengono dall'estero. Il Yung He Gong, il Tempio dei Lama, come viene solitamente chiamato, serve invece come attrazione turistica per i normali gruppi di stranieri che giungono in autobus dotati di aria condizionata. I pochi, vecchi monaci, che si aggirano per i cortili nelle loro tuniche colorate a uso delle macchine fotografiche, sono stati importati dalla Mongolia. I giovani monaci, che stanno di guardia alle varie sale e leggono riviste tipo Cinema Oggi o Il mondo dello sport, hanno più l'aria di poliziotti travestiti che di novizi in apprendistato.
Questo tempio era famoso, fra l'altro, per le sue statue e i suoi dipinti erotici che i monaci usavano per meditare sulla vita umana e sublimarne gli istinti più naturali. Molti degli originali sono scomparsi, rubati, distrutti o venduti. Alle copie sono state messe delle copertine gialle per nascondere i divini genitali e le acrobatiche posizioni dei copulanti.
Ogni tanto in questo tempio si vede qualche turista di Hong Kong mettere una bacchetta d'incenso davanti a una statua. Un gesto, questo, che nessun cinese normale può permettersi, non foss'altro perché il biglietto d'ingresso al Tempio dei Lama, come in altri templi, è di cinquanta centesimi, cioè l'equivalente di una mezza giornata di lavoro. L'incenso, poi, nella Cina di oggi non è più un ingrediente delle funzioni religiose, e quell'odore una volta sacro non lo si associa più, come altrove nel mondo, con l'atmosfera di un tempio o di una chiesa, ma con i gabinetti degli alberghi dove l'incenso viene usato per combattere l'onnipresente puzza di cavolo.
All'inizio degli anni '60 i comunisti cinesi erano già riusciti a trasformare la vecchia Pechino in una città più consona a quel che loro immaginavano dovesse essere una capitale socialista.
Il nuovo regime aveva i suoi simboli nei grandi palazzi che erano stati costruiti lungo il viale della Lunga Pace, gli operai avevano il loro enorme stadio, i contadini il loro gigantesco Palazzo delle Esposizioni (l'ultima mostra che ci ho visto era di tappeti!), le minoranze etniche avevano il loro Centro Culturale e i ferrovieri la loro nuova stazione.
Ogni edificio era grandioso e la barzelletta che circolava fra la gente a quel tempo era: «Credevo che ai comunisti non piacessero i templi...». «È vero, non gli piacciono quelli degli altri, per questo costruiscono i loro».
Quel che il nuovo regime non aveva a questo punto ancora toccato era l'anima della capitale.
Pechino era una città caratterizzata dal privato, una città in cui ogni famiglia viveva all'interno di un cortile circondato da mura che la separavano e proteggevano dal resto del mondo. L'una accanto all'altra, queste «case su cortile» (in cinese si-heyuan, vale a dire un cortile che unisce quattro costruzioni) erano allineate lungo le strade e i vicoli che, come una scacchiera, costituivano il tessuto urbano della città. Le strade erano circa tremila, i vicoli, gli hutung, come dicono i pechinesi, erano «tanti quanti i peli di un bufalo».
Di queste «case su cortile», un'invenzione tipica dell'architettura della Cina del Nord dal XII secolo in poi, ce n'erano a decine di migliaia. All'esterno, una piccola porta rossa di legno, con fregi, fiancheggiata da due sculture in pietra che si apriva nel monotono grigio dei muri degli hutung. All'interno, dopo un piccolo muro proprio davanti all'ingresso, così da sbarrare il passo agli spiriti malefici, che si muovono solo in linea retta, la delicata armonia di quattro costruzioni basse a un piano: la facciata dipinta in rosso e verde, il tetto di tegole grigie e curve, le finestre di carta bianca contro la geometria degli intagli di legno. Nel mezzo della corte, un albero. A un cortile ne seguiva un altro e un altro ancora, e così via a seconda della ricchezza della famiglia.
Il siheyuan era il nascondiglio del privato, il rifugio dell'individualismo che il nuovo regime doveva appunto espugnare per poter davvero controllare Pechino.
Nel 1966 Mao Tsetung scatenò le Guardie Rosse, e questo fu uno dei compiti che affidò loro. «Questa casa è troppo grande per voi. Una stanza è più che sufficiente per la vostra famiglia. Le altre debbono servire il popolo», dicevano i giovani ribelli. Lo slogan era sempre lo stesso. I risultati anche.
Bande di giovani con bracciale rosso (solo i figli di operai, contadini e soldati avevano diritto a questa distinzione) invadevano, seguite da masse e masse di gente, le case «su cortile» e inscenavano «processi popolari» contro i proprietari e i loro familiari. Le case vennero svuotate, i beni confiscati. Mobili vecchi e antichi, quadri, vasi di porcellana, vestiti, gioielli, collezioni di libri e album di famiglia vennero caricati su camion e portati via. Il resto, gettato nei cortili, veniva fatto a pezzi e dato alle fiamme. Ogni casa diventò un campo di battaglia con gente picchiata a sangue, molti a morte.
I processi duravano a volte giorni e giorni e molta gente, temendo quel che sarebbe loro successo l'indomani, preferì distruggere ciò che possedeva, vendere le proprie biblioteche a tanto il chilo come carta da pacchi, o suicidarsi. Quando questi processi finivano, famiglie arrivate da fuori Pechino e dai dormitori sovraffollati delle fabbriche venivano mandate a stare nelle case «su cortile» accanto ai vecchi proprietari diventati improvvisamente poveri e disperati come tutti. Là dove prima viveva una sola famiglia, se ne installarono cinque, a volte dieci, che andavano a occupare ogni angolo, a tagliare gli alberi, a costruire piccole baracche da usare come cucine e ripostigli.
Le Guardie Rosse svolsero il loro lavoro meticolosamente. Casa per casa, vicolo per vicolo, il nuovo regime entrò così nel cuore della capitale.
Oggi non esiste una sola strada che abbia conservato quella modesta eleganza della vecchia Pechino, quella silenziosa bellezza fatta di lunghi muri grigi punteggiati qua e là dal rosso smagliante di un portone, fatta di fronde di alberi tremolanti fra le curve dei tetti sotto i quali gente di infinita forza ha, per secoli e secoli, tenuto in vita una grande civiltà. Non esiste più un solo cortile con quella raffinata atmosfera in cui lo studioso era solito invitare i suoi amici a godersi lo sbocciare dei crisantemi e a passare la notte scrivendo poesie alla luna.
«I templi e i palazzi erano l'aspetto eccezionale di questa città e la loro distruzione è stata un'enorme perdita», dice uno storico cinese, «ma ciò che ha davvero ucciso Pechino è stata la distruzione del quotidiano, della 'casa su cortile'».
Da T. Terzani, La porta proibita, Longanesi, Milano, 2005, p. 34
Il vecchio cimitero cattolico di Chala, nella parte occidentale della città, dove nel XVII secolo fu sepolto Matteo Ricci assieme ad altri gesuiti europei, può essere visitato solo con un permesso speciale. È ora al centro di un complesso di edifici nuovi e massicci: la Scuola del Partito Comunista. A parte le pietre tombali di Ricci, Verbiest e Schall recuperate fra le rovine, riparate e messe in mostra per soddisfare la curiosità di alcuni dignitari stranieri - i cinesi sanno che ci tengono a quelle cose (il primo a esserci portato fu il senatore Vittorino Colombo) -, le altre pietre giacciono in disordine su una vasta area dove sembra essere passato un terremoto e vengono usate come tavoli per mangiare dagli allievi della scuola. Le scritte sono in francese, italiano e latino, e con pazienza si possono leggere i nomi di coloro che in passato furono sepolti qui perché riposassero in pace.