Voltaire cattolico. Il viaggio mai realizzato in Italia per vedere il Papa, il sospetto e l’attrazione verso il “paese della superstizione” e delle belle lettere, di Antonio Gurrado
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Riprendiamo da Il foglio. Quotidiano del 14/7/2013 un articolo scritto da Antonio Gurrado. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (28/7/2013)
Potremmo dire che Voltaire era così impegnato a programmare il suo viaggio in Italia che non trovò mai il tempo di andarci. Leggiamo cosa testimonia lui stesso nelle sue lettere. Nel 1749 – ultracinquantenne – parla per la prima volta espressamente di un “soggiorno in Italia”, scrivendo a sua nipote M.me Denis.
Leggendo queste parole, ci si immagina che questo soggiorno sia imminente e per certi versi inevitabile. Qualcosa però va storto, stando a quanto scopriamo da una lettera scritta l’anno dopo: Voltaire dice al marchese di Puisieulx, il quale sta per andare in Italia, che non vede l’ora di seguirlo. Tuttavia non lo fa. Un mese dopo, scrive che deve rimandare il viaggio all’anno seguente.
L’anno seguente, ossia il 1751, Voltaire è perentorio: “Raggiungerò l’Italia in maggio”, annuncia; e, piuttosto sorprendentemente, si trasferisce in Prussia, dove trascorre alcuni anni alla corte di Federico il Grande.
Passa un altro anno e nel 1752 Voltaire viene assalito dai primi dubbi: “Vorrei ancora vedere l’Italia prima di morire”, scrive poco prima di accantonare il progetto del viaggio in Italia per diciassette anni, durante i quali si trasferisce sul confine franco-ginevrino, prima nella tenuta di Les Délices, poi in quella di Ferney, dove resta per tutta la vita. Improvvisamente, nel 1769, Voltaire apprende che un suo conoscente sta per attraversare le Alpi e andare in Italia; gli scrive quindi lamentando di essere, ahi lui, troppo vecchio per affrontare un viaggio del genere e, a quanto si deduce dalle lettere successive, anche per soltanto pensarci o parlarne mai più.
Dalle sue lettere possiamo dedurre anche che per Voltaire l’Italia è tout-court “la terra papale”, come la definisce lui stesso, per quanto lo Stato della Chiesa non occupasse che una parte ben limitata dell’intera penisola.
La meta del viaggio immaginario di Voltaire in Italia era Roma. Voltaire voleva andare in Italia per vedere il Papa, più probabilmente per incontrarlo di persona; o meglio, questo è ciò che avrebbe senz’altro fatto qualora avesse veramente voluto andarci.
Per decenni la sua corrispondenza identifica l’Italia col Papato e gli italiani coi cattolici. Scrivendo a un amico philosophe, Helvétius, arriva a definire l’Italia “il paese della superstizione”; ma al contempo gli piace definire l’Italia il paese dove le belle lettere “fioriscono oggi più che mai”. Tanto scrive a Giuseppe Pecis, un poeta che oggi potremmo eufemisticamente definire negletto; Voltaire lo elogia per il suo contributo alla conservazione della supremazia letteraria italiana con opere come i “Versi per la ristabilita salute della sacra cesarea reale apostolica maestà di Maria Teresa imperadrice regina” (1767).
Molti ignorano che Voltaire stesso era di fatto un autore italiano; o, meglio, che fosse un autore che di tanto in tanto amava scrivere in italiano, senza curarsi del dettaglio di ignorare gran parte dei segreti di grammatica e ortografia.
Raccogliendo i suoi testi italiani in un libro chiamato “Voltaire cattolico” ho trovato materiale per circa 150 pagine, in alcuni casi completamente sorprendente per il lettore comune. Ad esempio, nel 1746 Voltaire aveva scritto un “Saggio intorno ai cambiamenti avvenuti su ’l globo della terra” nel quale insisteva che la faccia della Terra fosse sempre rimasta la stessa, che i fossili fossero ingannevoli e che la distribuzione di suolo e mare non fosse mai cambiata nei millenni, “eccetto”, scriveva, “li cento cinquanta giorni del diluvio” di cui si parla nell’Antico Testamento.
Voltaire scrisse questo saggio per diventare membro di cinque accademie italiane: la Crusca e quelle di Bologna, Firenze, Roma e Cortona. Queste pagine sono la miglior prova che, quando scriveva in italiano, Voltaire diventava un conservatore entusiasta e tentava istintivamente non solo di adeguarsi a queste idee conservatrici ma anche di abbracciarle radicalmente.
Una conferma arriva dall’identità dei destinatari delle 178 lettere che ha scritto in italiano. Fra loro troviamo filosofi come Francesco Algarotti (autore nel 1737 del “Newtonianismo per le dame”) e scrittori come Carlo Goldoni, ma troviamo anche accademici, cattedratici, nobili e un considerevole numero di ecclesiastici. Voltaire volle scrivere lettere in italiano a sacerdoti secolari, frati, gesuiti, teologi, cardinali e ai due Papi regnanti durante i suoi anni di produzione più prolifica: Benedetto XIV e Clemente XIII.
Voltaire si sentiva a pieno diritto un interlocutore delle gerarchie della chiesa cattolica e, significativamente, decise di rivolgersi a loro in italiano, come a voler confrontarsi sullo stesso livello. Allo stesso tempo, mentre scriveva in italiano, Voltaire tentava mimeticamente di diventare uno di loro. Qualche esempio chiarirà come.
Nell’Europa del Settecento, l’italiano andava di moda. Molte signore francesi possedevano manuali come le “Défintions des règles grammaticales de la langue italienne” di Deodati de Tovazzi o, se più frivole, la “Grammaire italienne à l’usage des dames” di Annibale Antonini. Questi spiega che “osa chiamare l’italiano lingua delle dame sia perché esprime al meglio tutta la delicatezza dei loro sentimenti e la purezza dei loro pensieri, sia perché è la lingua che si presta maggiormente a gestire la modestia e il pudore che caratterizzano il gentil sesso”.
Talvolta mi chiedo come Antonini, morto nel 1755, avrebbe reagito nel 1957, quando Theodore Besterman (studioso anglo-rumeno fondatore della Voltaire Foundation di Oxford) pubblicò una raccolta di lettere, o piuttosto biglietti clandestini, che Voltaire aveva spedito a M.me Denis. Queste lettere erano talvolta grossolanamente oscene, per quanto M.me Denis, morto Voltaire, avesse tentato di cancellarne tutte le parole più esplicite sostituendole con interpolazioni più innocenti: ad esempio, in maniera commovente, aveva corretto “mio spirito” lì dove Voltaire aveva originariamente scritto “mio cazzo”.
Queste lettere rivelarono che M.me Denis non era solo la nipote di Voltaire ma anche la sua amante, e in gran parte erano scritte in italiano; forse perché l’italiano era la lingua dei libretti d’opera, e M.me Denis si piccava di essere una cantante o un’attrice, minacciando di scrivere ella stessa una commedia; o forse perché nella mentalità di Voltaire l’italiano era la lingua dell’amore così come il francese lo era per gli italiani.
Stabilito che Voltaire riteneva l’italiano la lingua più adatta per scrivere a un’amante e al Papa, diamo un’occhiata alla qualità della sua prosa. Ha problemi con le doppie (scrive “adio” anziché “addio”, ma “baccio” anziché “bacio”); per lo spelling si regola spesso sulla scorta dei termini latini; gli accenti appaiono di rado, per lo più dove non dovrebbero trovarsi; la sintassi arriva in molti casi direttamente dal francese, dando l’idea che Voltaire tentasse di scrivere in italiano traducendo i propri pensieri parola per parola.
Quanto all’accento, in assenza di registrazioni, possiamo basarci sulla testimonianza di Saverio Bettinelli, gesuita mantovano che visitò Voltaire nel 1758 nella speranza di diventare un famoso drammaturgo. Voltaire fu così entusiasta della sua visita da gratificarlo citando a memoria vari versi italiani, e Bettinelli serbò per tutta la vita il ricordo del suo accento imbarazzante. Possiamo dedurlo leggendo “Le Baron d’Otrante”, un’opera buffa del 1768 in cui gli otrantini parlano francese fluente e gli invasori turchi un italiano orribile. In questi versi Voltaire rima “tènere” con “care”, “fanciulle” con “belle”, “scintillate” con “spumante”, “Champagna” con “somiglia” e, addirittura, “fazzoletto” con “guadagnato”.
Trovo notevole tuttavia che Voltaire conservi nei confronti dell’italiano un atteggiamento da scrittore: ossia non ripete le formule linguistiche che avrebbe facilmente trovato nei manuali di Deodati o Antonini e non nutre alcun interesse per l’italiano standard. Vuole invece lasciare la propria impronta sulle lingue straniere come su quella patria; vuole sviluppare uno stile personalizzato, ad esempio, mischiando termini desueti a parole sconce. Benché l’italiano di Voltaire sia un glorioso fallimento, i suoi tentativi si basavano su questa pretesa.
Un capolavoro nel suo genere è la lettera che scrive a Goldoni nel 1762. Lo rimprovera per non averlo visitato a Ferney mentre si trasferiva in Francia, e lo fa usando lo stesso dialetto utilizzato dal commediografo veneziano: “Adasio un poco, caro sior, mi dispiase che la sia degustada, e che non habbia avu la volontà de vegnir, e xe un pezzo che l’aspettava”, e così via per un capoverso intero prima di passare all’italiano vero e proprio. Voltaire ammetteva di non avere mai studiato l’italiano; l’atteggiamento nei suoi confronti era dunque totalmente mimetico, ovvero tentava di adattarsi a modi e pensieri del destinatario scegliendo empaticamente di parlare la sua lingua. Ciò rende piuttosto significative le lettere che scrisse ai due Papi.
Le prime tre furono indirizzate a Benedetto XIV; causarono grande scandalo, in particolare la risposta del Papa, e costituiscono un piccolo giallo. Nel 1742 Voltaire aveva infatti composto una tragedia, “Le fanatisme ou Mahomet le prophète”, in cui criticava severamente la politica religiosa di Maometto; ciò nondimeno i lettori capirono piuttosto presto che un obiettivo parallelo di Voltaire era Gesù Cristo o meglio il cristianesimo.
Temendosi scoperto, Voltaire decise di dedicare la tragedia al Papa: Benedetto XIV, uomo colto e cattolico illuminato molto stimato da Voltaire. Per andare sul sicuro spedì tuttavia al Papa non “Mahomet” ma il “Poème de Fontenoy”, un testo più innocente in cui celebrava la vittoria della Francia cattolica sulle potenze protestanti dell’epoca.
Il Papa rispose congratulandosi e Voltaire rese pubblica la lettera, o piuttosto una sua versione emendata, in cui le parole “il suo bellissimo ultimo poema” erano state cancellate e sostituite con “la sua bellissima tragedia di Mahomet”. Ciò che importa è che Voltaire avesse cercato protezione presso il Papa, che Benedetto gli avesse risposto favorevolmente, che il Papa avesse spedito “la benedizione apostolica al diletto figlio Voltaire” e che Voltaire avesse con trasporto “baciato umilissimamente i sacri piedi” del Papa.
Fino al 1758, anno della morte di Benedetto XIV, Voltaire si sentì rassicurato dalla presenza del Papa come garante dell’equilibrio in Europa, e come persona colta che non avrebbe mostrato eccessiva ostilità verso una classe di intellettuali, i philosophes, dei quali Voltaire si sentiva il leader naturale – o, come amava definirsi, “il patriarca”.
Dopo la morte di Benedetto le cose andarono peggio. Il nuovo Papa Clemente XIII, Carlo della Torre di Rezzonico, non era né colto né illuminato e non provava alcun rispetto per l’attività dei philosophes. Non parlava nemmeno francese, peccato mortale agli occhi di Voltaire. La più alta concentrazione dei testi antireligiosi e antipapali di Voltaire si riscontra fra il 1758 e il 1769, esattamente gli anni del regno di Clemente.
Da un lato Voltaire considerava espressamente Benedetto l’uomo giusto per una riforma del cattolicesimo in senso tollerante; dall’altro lato era sicuro che Clemente fosse l’uomo giusto per fermare e annullare tale processo. In entrambi i casi era convinto del ruolo chiave del Papa per i destini dell’Europa e di ciò che aveva sempre percepito come la propria religione.
Voltaire si definì sempre cattolico, in un tempo in cui scegliere una religione non aveva tanto a che fare con l’asserzione della propria identità individuale ma, molto più concretamente, col pagare le tasse, col poter comprare terre, con l’avere diritti civili e così via. Si trattava di una scelta capitale e decisiva. In quanto cattolico, nel 1761 Voltaire si sentì in diritto di spedire una lettera – leggermente derisoria – a Clemente XIII, nella quale lui e M.me Denis, ovviamente in italiano, gli chiedevano fra le altre cose una reliquia di san Francesco per la chiesa “che Francesco di Voltaire edifica nella vicinanza della herezia, riputando che sia convenevole di spiegare tutti i segni della fede in faccia de gli inimici”.
L’aveva promesso e lo fece davvero: lunedì 25 maggio 1761 venne posata la prima pietra di questa chiesa cattolica, che conteneva le reliquie spedite da Roma, che sorgeva nelle terre possedute da Voltaire e dove questi qualche volta prese la comunione per dare, diceva, “un esempio edificante” ai suoi parrocchiani.
Voltaire si sentì sempre membro del cattolicesimo. Nel 1753 trascorse alcune settimane a studiare la Bibbia nell’abbazia benedettina di Senones. Nel 1758 chiese formalmente l’esenzione dalle tasse dovute dai protestanti francesi. Moltissime sue lettere contengono professioni di fede, poste in maniera ora più ora meno paradossale: “Noi papisti”, “la religione cattolica che professo”, “io, in quanto cattolico”, “io sono un vero cattolico”, “un buon cattolico come me”.
Anche nei momenti di sconforto, quando dice “ci sarebbero tutte le ragioni per decattolicizzarsi”, parte dal presupposto che per decattolicizzarsi si debba anzitutto essere cattolici.
Per capire lo strano cattolicesimo di Voltaire bisogna stare attenti all’aggettivo che molto di frequente lo accompagna nelle sue dichiarazioni religiose: “bon”, “buono”. Quest’aggettivo fa la sua apparizione più celebre nel “Trattato sulla tolleranza”, testo cruciale del 1763: “Grazie a Dio, sono un buon cattolico”. Di là da qualche sfuriata estemporanea, Voltaire non volle mai abolire il cattolicesimo; volle piuttosto riformarlo, ma non al modo di Lutero o Calvino.
Monarchico intransigente, rivendicava la necessità che la religione cessasse di essere un pretesto per manovre politiche interne al governo degli stati. Riteneva che il cattolicesimo dovesse essere esente da ogni superstizione o violenza, che dovesse rifiutare ogni costrizione o persecuzione, che dovesse essere basato sulla fede razionale in un Dio giusto garante di ricompense e punizioni nell’oltretomba, che non dovesse fondarsi sui dogmi o sulle reliquie (ehm) ma concentrarsi sul comportamento concreto delle persone in questa vita.
Voltaire si aspettava che ogni cattolico mirasse a essere un buon suddito, un lavoratore onesto e un padre di famiglia affidabile; tutto ciò, nel francese del XVIII secolo, era reso con un termine di non facile traduzione: “honnête homme”. Per dare l’idea, su Wikipedia l’articolo “Honnête homme” non ha equivalente nelle altre lingue. Non significa solamente “uomo onesto” ma implica tutti i significati che ho citato prima.
La filosofia di Voltaire era sempre stata condotta lungo le linee di questo ideale religioso, che aveva delineato con chiarezza in un libricino significativamente intitolato “Catéchisme de l’honnête homme”, associando l’ideale illuministico del buon suddito che considera tutti gli uomini come fratelli alla struttura cattolica del catechismo. Solo in questa maniera un cattolico poteva essere, o meglio doveva sforzarsi di essere, un buon cattolico. Parlare bene l’italiano era un requisito facoltativo.
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