Dante e l'educazione all'amore. Una lezione dal canto V dell’Inferno dedicato alle anime dei lussuriosi, di Giovanni Fighera

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 14 /07 /2013 - 14:08 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da La Bussolaquotidiana del 7/7/2013 un articolo scritto da Giovanni Fighera. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (14/7/2013)

Nell’immortale canto V dell’Inferno viene descritto il secondo cerchio che comprende le anime dei lussuriosi, definiti come coloro che la «ragione sottomettono al talento». Sentimento e attrazione («talento») per l’altro sono importanti, ma non possono sopraffare la ragione, ovvero l’apertura alla realtà secondo la totalità dei fattori in gioco. Voler bene all’altro significa voler il bene dell’altro, la sua realizzazione e il suo compimento.

Come può essere considerato un amore vero un rapporto che non realizza e non compie, che non guarda al destino e alla strada del compagno? Trascinati da una bufera che mai non ha sosta, a somiglianza del vento delle passioni che non seppero controllare in vita, i lussuriosi sono più volte paragonati ad uccelli che volano in un’aria cupa e di colore «perso» (cioè scuro). Dapprima l’intero gruppo di anime è paragonato agli stornelli che sono trascinati «a schiera larga e piena […] di qua, di là, di giù, di sù». Poi, in mezzo a loro Dante vede una lunga teoria di anime simili a «gru», che sono i lussuriosi che hanno concluso la loro vita con una morte violenta.

Tra questi vi sono Semiramide, Elena, Didone, Cleopatra, Achille, Paride, Tristano. Che siano personaggi storici e leggendari, sono tutti accomunati dal fatto di essere stati immortalati dalla grande letteratura. Qui, è proprio lei, la grande letteratura, ad essere messa sul banco degli imputati. Forse, proprio quella letteratura che ha posto come tema primario l’amore in realtà ha ingannato il suo pubblico, perché spesso non ha creduto nell’amore vero, che dura nel tempo, ma ha confidato nel fascino dell’amore impossibile o della storia breve e tragica. Questa letteratura  ha fin troppo inciso sulla mentalità comune con la sua teorizzazione dell’amore impossibile finendo, spesso, per complottare contro l’istituto familiare. Il rapporto amoroso che porta alla prole, vissuto nella quotidianità, nel dolore, nella sofferenza, sembra stancare per la sua monotonia  e ripetitività. 

In mezzo a queste anime Dante vorrebbe parlare con «due che 'nsieme vanno,/ e paion sì al vento esser leggeri». Sono Paolo Malatesta di Rimini e Francesca da Polenta di Ravenna, due cognati. L’aneddotica racconta che Paolo venne inviato come procuratore del matrimonio tra il brutto fratello Gianciotto e la bella e affascinante Francesca. In quell’incontro probabilmente la donna si ingannò credendo che Paolo sarebbe stato il suo sposo. Chissà quale delusione e quale risentimento provò quando si rese conto che avrebbe sposato il fratello zoppo. Il matrimonio, che avrebbe sancito la definitiva conclusione delle guerre e dei contrasti tra Ravenna e Rimini, venne comunque celebrato. Francesca non dimenticò, però, Paolo. I due si amarono finché non vennero colti di sorpresa da Gianciotto e uccisi.

Di tutta questa storia Dante non racconta la parte iniziale. Dei due innamorati abbracciati a perpetuare la perenne memoria della giovinezza, dell’amore, della bellezza strappati via violentemente parla soltanto lei, la donna raffinata, bella, affabile, che ha eleganza e toni cortesi, quasi stilnovistici. Francesca è in tutto e per tutto simile a Beatrice, se non che Beatrice accompagnerà nel tempo e con pazienza Dante in Paradiso, mentre la Ravennate ha portato l’amato direttamente e speditamente all’Inferno.

Sentiamo l’eleganza con cui si presenta: «O animal grazïoso e benigno/ che visitando vai per l'aere perso/ noi che tignemmo il mondo di sanguigno,/ se fosse amico il re de l'universo,/ noi pregheremmo lui de la tua pace,/ poi c'hai pietà del nostro mal perverso». Colta e ispirata a toni poetici, Francesca è cosciente che l’amore può risiedere solo in un cuore «gentile» , cioè buono («Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende»), e che all’amore si dovrebbe rispondere con l’amore («Amor, ch'a nullo amato amar perdona»), anche se poi questo non accade, nella maggior parte dei casi. Fu la bellezza del corpo ad accendere la fiamma tra loro.  

Dante allora vuole sapere come sia possibile che un sentimento così nobile, così alto, così bello come quello amoroso possa tradursi in peccato. Qual è stato il punto, il momento in cui i due cognati hanno svelato i loro reciprochi sentimenti? Alla domanda di Dante «A che e come concedette amore che voi conosceste i dubbiosi disiri», Francesca ricorda dapprima che non c’è dolore più grande che ricordarsi dei tempi felici quando si è infelici. Poi aggiunge: «Noi leggiavamo un giorno per diletto/ di Lancialotto come amor lo strinse;/soli eravamo e sanza alcun sospetto./[…] ma solo un punto fu quel che ci vinse./ Quando leggemmo il disiato riso/esser basciato da cotanto amante,/ questi, che mai da me non fia diviso,/la bocca mi basciò tutto tremante./ Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse».

In un istante si gioca la libertà della persona. Un istante può valere una vita, la salvezza o la dannazione. È segno di maggiore libertà vivere l’istante per l’istante («carpe diem»), cioè scegliere nell’istante in nome del proprio piacere e della propria soddisfazione, oppure decidere tenendo conto della propria strada, del destino, di tutte le componenti e i fattori?

Ai miei studenti cerco di chiarire questa domanda con un altro quesito. È più libero un padre di famiglia che si lascia andare all’istinto del momento e tradisce la moglie (e, quindi, i figli, come disse una mia studentessa) rompendo così la fedeltà alla consorte e sfasciando magari il nucleo familiare oppure un padre che, memore dell’amore che prova e della promessa fatta, sceglie per il bene proprio e dei suoi cari? 

Fatto salvo che la responsabilità del peccato è personale, perché ogni uomo è libero, ancora una volta, in conclusione del canto V, Dante chiama sul banco degli imputati la letteratura e, quindi, gli scrittori. La storia di Lancillotto e Ginevra, scritta tra gli altri dal grande Chrétien de Troyes (che è anche l’autore del Perceval) e letta da Paolo e Francesca, è di soave delicatezza e dai toni cortesi e galanti. Eppure, Dante riconosce che un testo letterario può avere un peso determinante nelle vicende di chi legge.

Lo scrittore ha una responsabilità incredibile. Per questo dico sempre ai miei studenti e ai loro genitori: «Di solito a scuola si spronano i ragazzi a leggere, a vedere film, a frequentare coetanei (socializzare). Invece, dovete pensare a cosa leggete, a cosa vedete, a chi frequentate. Lettura, amicizie, film e programmi TV ci formano ed educano».

Si conclude, così, il canto V dell’Inferno con lo svenimento di Dante, escamotage narrativo utilizzato dal poeta nei primi cerchi per evitare di dover descrivere il passaggio da un cerchio all’altro.  

Veniamo allora ad alcune brevi riflessioni cui ci invita la lettura dei versi oggi, nel 2013. Quante volte si sente dire che due persone si amano anche se poi non si aiutano a volersi davvero bene, ma soddisfano semplicemente un narcisistico compiacimento sensuale! Come è, invece, importante imparare a guardare la compagna, la fidanzata, la moglie con il distacco che permette di vedere l’altro per quello che è, diverso da noi, dalle nostre pretese e soprattutto con una strada, un destino!

La cultura odierna tende a presentare la sessualità come uno dei piaceri da soddisfare, equiparabile agli altri piaceri o ad altri aspetti ludici dell’esistenza o ai bisogni primari dell’uomo. Questa considerazione affonda le sue radici in una visione dell’uomo esclusivamente materialista per cui noi siamo considerati alla stregua degli animali. Tutta la cultura di ascendenza positivista, scientista e darwiniana opera ormai da un secolo e mezzo, soprattutto nelle scuole, per trasmettere il messaggio che tra noi e le scimmie non esiste in realtà alcuna differenza se non per il fatto che noi siamo semplicemente più avanti nella linea evolutiva.

Sarebbe lungo ripercorrere le tappe del graduale e subdolo affermarsi di un presupposto che annienta qualsiasi affermazione che l’uomo sia in realtà qualcosa di più che un grumo di cellule. Se l’uomo è un aggregato di cellule, un insieme di nervi, di impulsi, di bisogni e nulla di più, è necessario, oltre che giusto, soddisfare qualsiasi necessità che insorga. L’amore appare solo come un’idealizzazione di queste reazioni ormonali e chimiche e di pulsioni fisiche. L’uomo nella sua complessità è, così, ridotto esclusivamente ad una componente fisica.

Per addentrarci meglio nel sentimento che unisce un uomo e una donna dobbiamo cercare di capire meglio il mistero dell’essere umano, una complessità così grande da non poter essere circoscritta alla sfera fisica. Nella tradizione cristiana l’uomo è anima e corpo, componenti non separate, ma unite in una reciproca relazione. Non si può, perciò, parlare completamente di sessualità e di affettività delimitando l’ambito alla sfera fisica ed escludendo così l’ambito delle aspettative, dei desideri, delle domande, della realizzazione e del compimento della persona, ovvero dello spirito. In poche parole anche nell’ambito dell’affettività, come del resto in tutte le sfere dell’umana natura, non emerge solo la componente dell’istintività e dell’impulso.

Un rapporto affettivo può essere vissuto solo in tutte le componenti in quest’apertura che salvaguarda e rispetta tutti gli aspetti dell’uomo. Questa apertura a tutti i fattori della realtà viene chiamata ragione. La mano che strappa il fiore per possederlo lo costringe al rapido inaridimento. Colui che fa un passo indietro può osservare il fiore e sorprendersi stupito per la sua bellezza. Chi capirà meglio il fiore: chi l’ha reciso o chi l’ha ammirato? Chi amerà meglio la propria ragazza, chi saprà aspettare e si meraviglierà per un amore che cresce e sa manifestarsi in diverse forme di affettività o chi pretenderà di possedere l’altro prima ancora di essersi promesso, di aver fatto sacrifici per l’altro? Sarà amore l’egoistica e narcisistica soddisfazione del proprio desiderio sessuale o l’atteggiamento di chi non soddisfa subito il desiderio per salvaguardare sé e l’altro? 

Qualsiasi educazione all’affettività presuppone in realtà una particolare visione dell’uomo. Spesso i fautori e i promotori di questa educazione nelle scuole si presentano come innocui portavoci  di un insegnamento asettico, mentre sono troppo spesso messaggeri di una cultura cinica, scettica, materialista, in cui anche l’amore è ridotto all’unica sfera fisiologica. Prima di chiedersi che cosa sia l’affettività è indispensabile chiedersi davvero chi sia l’uomo.