Scrittura e credente, di rav Riccardo Di Segni

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /06 /2013 - 14:20 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito http://www.romaebraica.it/ della Comunità ebraica di Roma un articolo scritto da rav Riccardo Di Segni e pubblicato il 26/6/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (30/6/2013)

Quando gli ebrei parlano di rapporto con la propria religione, è raro che si definiscano credenti; il credere lo si dà un po’ per scontato, è poco misurabile nel suo puro movimento di spirito, deve avere una dimostrazione nell’azione. Per cui si preferisce parlare di osservanti. E non è differenza da poco.

Nel primo secolo dell’era cristiana i membri dei numerosi gruppi dissidenti dall’orientamento prevalente - che oggi si direbbe ortodosso - e tra questi i primi giudeocristiani, erano definiti dai rabbini con il termine di minim, plurale della parola biblica che indica “la specie”. Qualcuno ha suggerito che l’insolito termine sia una contrazione ironica della parola maaminim, cioè credenti; nel senso che voi dite o pensate o credete di essere credenti, ma la fede è un’altra cosa. Quindi attenzione a usare questa parola.

Quanto alla scrittura, effettivamente nel linguaggio rabbinico si parla spesso di kitve haQodesh, che si traduce impropriamente come “sacre scritture”, ma che letteralmente è “scritture del Sacro”, nel senso di Colui che è sacro.

Ma la Bibbia, quella ebraica, è chiamata miqrà; la stessa radice semitica da cui poi deriverà il Corano, che non significa scrittura, ma lettura. Qual’è la dimensione prevalente, la lettura o la scrittura?

E ancora, la guida delle nostre azioni è chiamata Torà, che appunto è insegnamento. Ora, nel vocabolario rabbinico, di Torà non ce n’è una sola ma due: quella scritta, Torà shebikhtav, che corrisponde al Pentateuco, e quella “orale”, Torà shebe’al pe, che corrisponde a tutta la tradizione, dai tempi remoti fino ai nostri giorni.

Perché chiamarla orale se si ritrova in migliaia di opere scritte e stampate? Perché fino alla fine del secondo secolo dell’era cristiana l’insegnamento dei Maestri si trasmetteva a viva voce, per tenerlo distinto dal testo del Pentateuco cui si riferiva. Furono poi la dispersione e le mille difficoltà di sopravvivenza a imporre anche per questa tradizione l’uso della penna e della carta o della pergamena.

Tutto questo per dire che la sacralità non si esaurisce nella scrittura, ma è parimenti sacra la parola non scritta, tramandata da Maestro ad allievo e perennemente arricchita. La scrittura è sacra ma senza la lettura non vive, e non s’illumina e non si espande senza l’interpretazione e la trasmissione.

Ora che ci fa il nostro cosiddetto credente con la scrittura, o lettura che sia, o dottrina orale? La risposta è: tutto, o meglio senza la scrittura non c’è spazio e senso per la fede. Per un ebreo i testi a lui sacri sono la guida della vita quotidiana sia in senso normativo che spirituale.

Il senso della vita del singolo e della collettività è spiegato nelle Scritture. Che dicono chi sei, dove ti devi dirigere, cosa scegliere. Perché appartieni a un destino particolare. Che sei un anello di una catena antica, e per questo hai una responsabilità eccezionale. Che non ti puoi sottrarre al compito che hai insieme a tutti coloro che sono chiamati a farlo.

Le scritture sono i testi che parlano dei Patriarchi, di Mosè, dei Profeti, della ricerca reciproca di D. e uomini, dell’intervento divino come creatore e come promotore della storia, della chiamata alla santità di un’intera collettività.

Le scritture prescrivono le azioni che devi compiere e quelle che non devi fare. La lista è lunga e la nostra tradizione arriva a contare 613 precetti, di cui 248 sono “positivi”, azioni da compiere, e 365 i divieti, tanti quanti i giorni dell’anno solare.

Di questa lunga lista ormai da 19 secoli di precetti attivi ce ne sono circa 150, perché gli altri sono collegati a norme cultuali e di purità che richiedono l’esistenza di un Santuario centrale, che non è stato più ricostruito dal 70. Ma anche i 150 precetti, che in alcuni casi sono solo il titolo di un capitolo, sono più che sufficienti per inquadrare la vita della persona, o se vogliamo del credente, in modo completo, in ogni sua forma.

Le regole disciplinano non solo l’onestà nei comportamenti sociali, ma intervengono nei settori più provati e personali della alimentazione e del sesso. Inoltre scandiscono il tempo, con il rispetto del Sabato e delle feste. Tutto questo può sembrare esagerato o poco tollerabile anche per chi, credente di altre religioni, si riallaccia alla Bibbia ebraica come base per la sua credenza.

Alle origini la frattura tra la matrice ebraica e l’evoluzione cristiana trovò una delle sue forze fondamentali proprio nel rifiuto, o nell’abolizione della cosiddetta legge. Non è certo questo il luogo per discutere di questo tema affascinante (ammesso che di questo si possa mai discutere nella cornice del dialogo), ma ciò che va sottolineato è che nella tradizione ebraica l’aspetto normativo, che sia di ambito civile che di ambito rituale-cerimoniale, è essenziale e irrinunciabile.

Le “scritture”, in senso lato, sono il riferimento e il deposito di questa essenzialità. Un esempio: La Torà scritta stabilisce una norma, ad esempio il Sabato, e dice che in questo giorno bisogna astenersi da tutto ciò che è lavoro creativo, melakhà; cosa questo significhi non è spiegato, se non con rari esempi, come il divieto di far ardere il fuoco, o di raccogliere la legna fuori dall’accampamento.

La tradizione orale colma il vuoto e ragionando sulle narrazioni bibliche trova i modelli e i prototipi delle azioni proibite; le enumera, le classifica, si pone i problemi dell’estensione e della limitazione dei divieti caso per caso. Questo lavoro è durato per secoli e continua in pieno sviluppo ancora oggi, tanto più davanti alle trasformazioni tecnologiche che cambiano la vita ogni momento.

La Torà scritta non dice se si può usare il computer o il telefonino di Sabato, lo fa la Torà che un tempo era chiamata orale, pescando nelle fonti e ragionandovi sopra con rigore deduttivo. Tutto ciò può sembrare a un osservatore esterno uno sprofondare nell’aridità legalistica, e difatti questa è l’immagine parodistica e odiosa che è stata trasmessa per secoli; ma solo entrando nel sistema si comprende come la spiritualità, e la salita verso il sacro passano anche, se non soprattutto, attraverso un controllo minuzioso delle azioni e un esercizio rigoroso della ragione. Provare per credere, si direbbe con un gioco appropriato di parole. E il Sabato non è che uno dei tanti modelli di riferimenti.

Senza Torà non esiste il popolo ebraico, perché è la Torà che lo unifica nel tempo e nello spazio e dà il senso la giustificazione e la missione della sua esistenza. Ma senza popolo ebraico non esiste la Torà, perché mancherebbe lo strumento esecutivo della sua realizzazione.

C’è quindi un legame inscindibile al punto che i mistici dicono Israel weorayta chad hu, Israele –nel senso del popolo d’Israele - e la Torà sono un’unica cosa. Questo quindi è il senso del tutto speciale del rapporto tra la fede ebraica e le scritture, è il rapporto dell’identità.

C’è infine una conseguenza rilevante in questo rapporto; le scritture non tollerano l’ignoranza. Per questo rappresenta dovere fondamentale della vita religiosa, da solo pari a tutto il resto, lo studio. Bisogna studiare da quando si è in grado di farlo fino all’ultimo momento della vita. Una scrittura non frequentata è come un corpo senza vita.