Cesare Pavese: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?», di Giovanni Fighera
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 15/6/2013. L’articolo appartiene alla serie Maturità 2013 proposto agli studenti in vista dell’Esame di Stato. Dal testo sono stati omessi i riferimenti diretti alla preparazione dell’Esame stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (23/6/2013)
La vita
Nato a Santo Stefano Belbo nelle Langhe nel 1908, Cesare Pavese studia Lettere all’Università di Torino ove ha come maestro Augusto Monti e stringe amicizie che saranno poi determinanti nella sua formazione e nell’attività editoriale e letteraria successiva. Un suo amico Giulio Einaudi fonda l’omonima casa editrice di cui Pavese diventerà prima collaboratore e successivamente anche direttore e con cui pubblicherà tutti i suoi romanzi. La sua vocazione alla scrittura è viva e feconda fin da giovane, già dai tempi universitari e da quando, una volta laureato, si dedica anche all’insegnamento.
Nel 1935 viene confinato per un anno a Brancaleone calabro, accusato di collaborare con gli antifascisti. Ritornato a Torino, scopre che Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca» di cui è innamorato, si è sposata con un altro uomo. Grande è la delusione. La sua produzione si converte sempre più dalla poesia alla prosa, in un’attività instancabile che lo porta al più grande riconoscimento italiano, il conseguimento del Premio Strega (1950) con La bella estate, scritta nel 1949. Il 1950 è anche l’anno del suo più noto romanzo, La luna e i falò. Il 27 agosto 1950 Pavese si suicida in una camera d’albergo a Torino.
I romanzi
La contemporaneità ha esaltato quell’autonomia e quell’individualismo dell’uomo moderno che coincide, in realtà, con una condizione di solitudine. Così scrive Charles Taylor ne Il disagio della modernità: «Il lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io, che a un tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato e le allontana dall’interesse per gli altri e la società». Per questo Cesare Pavese (1908-1950) annota in una pagina del suo diario Il mestiere di vivere, datata 1939: «La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo come con un amico [...]. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi qui stia la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un’illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri». L’uomo si può conoscere e riavere solo nel rapporto con l’altro, proprio perché l’io è rapporto strutturale con un tu.
Le righe sopra riportate appartengono alle pagine di riflessioni personali, di diario privato che furono trovate in una cartella verde, alla morte di Cesare Pavese, fogli sciolti per lo più manoscritti (tranne quattordici pagine dattiloscritte). Su una pagina bianca compare il titolo Il mestiere di vivere di Cesare Pavese. La prima edizione dell’opera sarà postuma (1952). Pavese aveva chiuso i suoi giorni in una camera d’albergo a Torino, suicida. Nell’ultima confidenza affidata al diario annotava (18 agosto 1950): «La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi? Basta un po’ di coraggio. […] Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».
Non aveva ancora compiuto quarantadue anni, aveva già pubblicato tantissime opere, sillogi poetiche (tra cui Lavorare stanca, La terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) e romanzi (La spiaggia, Il compagno, La casa in collina, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, La bella estate, La luna e i falò, …), aveva conseguito la palma del migliore ottenendo il Premio Strega proprio due mesi prima e il 14 luglio aveva scritto facendo presagire quanto sarebbe poi successo: «Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla».
Il mestiere di vivere è, forse, il più bel diario che sia mai stato steso insieme allo Zibaldone di Leopardi, da leggersi a sorsi, come si assaggia un vino pregiato. Vi dominano la vita, la dimensione dell’esperienza, la ricerca della maturità (per Pavese «Ripeness is all» ovvero «la maturità è tutto»), la consapevolezza che l’animo umano è strutturato come attesa.
Il 27 novembre del 1945 Pavese annota: «Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Nessuna delusione, per grande che sia, può estirpare questa innata aspettativa del compimento. Disumano, addirittura tragico, sarebbe non attendersi più nulla: «Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile» (15 settembre 1946).
Nel 1942 Pavese aveva intuito, così almeno ci sembra di capire, che l’attesa scaturisce da un’esperienza già vissuta e sperimentata. Scriveva, infatti, il 28 gennaio: «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta. Devi creare un nesso tra il fatto che nei momenti più veri tu sei inevitabilmente ciò che fosti in passato […] e il fatto che soltanto le cose ricordate sono vere». La memoria di quanto è stato è ciò che permette all’uomo di essere pienamente tale. È il ricordo dell’evento, di quanto sarà e si ripeterà sempre. Altrove Pavese usa il termine «mito», parola a lui così cara che alla dimensione del mito dedicherà l’intera opera Dialoghi con Leucò e la poesia «Mito» («Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo/ senza pena, col morto sorriso dell’uomo/ che ha compreso»).
L’idea del viaggio, di una vita in cui si prende consapevolezza di sé e della realtà, in cui si possa giungere a cogliere l’essenza stessa di ciò che sta oltre il tempo, proprio perché permane, invariabile, è sottesa a tutta la produzione di Pavese, da quella poetica (si pensi a I mari del sud) a quella narrativa. La vita dell’uomo permette viaggi, ma non ritorni. L’impossibilità di un ritorno è raccontata nell’ultimo romanzo La luna e i falò (pubblicato nel 1950).
Tornato dall’America dopo la liberazione e dopo aver fatto fortuna, Anguilla cerca invano nel paese natio delle Langhe il proprio passato e i compagni cari dell’infanzia. Molti, infatti, sono morti. Rivive nella figura del piccolo Cinto, adottato dal contadino Valino, la sua stessa storia di orfano nell’infanzia. Infine, scopre che quei falò che nella tradizione mitica, ancestrale e contadina rinnovano di anno in anno la fecondità della terra sono nell’orizzonte storico lo strumento della tragica morte durante la guerra, in cui ha perso la vita giovanissima la bella ragazza del paese, Santa, divenuta spia dei tedeschi.
Ora che è tornato capisce che «un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Anguilla non può restare, deve ripartire, ora che sa e ha capito. La maturità dell’uomo è questa consapevolezza della vita, questa accettazione del destino che, se non si tramuta in amore, lascia solo tanta tristezza e malinconia. Annotava Pavese il 15 febbraio del 1950: «Ragioni sempre: le cose prima d’esser conosciute, le cose dopo conosciute… Il problema è sempre quello – razionalizzare, prender coscienza, fare storia».
Ma non tutto si comprende. «Poesia è rappresentare il nodo irrisolto come tale, farne sentire il mistero, il selvaggio. Ma allora dov’è lo sforzo di conoscere del poetare?» (15 febbraio 1950). La poesia e l’arte più in generale nascono dal mito, non da un concetto. I «compagni» comunisti di Pavese non concordano con questa visione dello scrittore, lo trovano un cattivo compagno, come lo scrittore precisa nello stesso giorno sul diario.
Il 1950 è l’anno in cui Pavese vince il Premio Strega con La bella estate, una trilogia che raccoglie brevi romanzi: La bella estate (1940), Il diavolo sulle colline (1948), Tra donne sole (1949). Pavese annota nel suo diario: «C’è una cosa più triste che fallire i propri ideali: esserci riusciti». La vittoria era stata la conferma dell’inutilità di ogni sforzo umano di darsi la felicità.
L’adesione al Comunismo (Pavese si era tesserato al PCI nel 1945 per «tacitare i rimorsi e […] rompere l’isolamento» come scrisse Davide Lajolo nel Vizio assurdo, fondamentale biografia dello scrittore) aveva mostrato l’inconsistenza dell’ideologia e la sua incapacità a cogliere la complessità del reale. L’uomo è in attesa della buona novella, che il Mistero (così presente in tutta la produzione di Pavese) condivida la strada con noi, si faccia compagnia e presenza umana, rompendo così la solitudine. Questa era stata l’intuizione di Pavese descritta nella pagina di diario del 1939.
[Brano proposto alla lettura]
«I mari del Sud» da Lavorare stanca
(a Monti)
Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
- un grand’uomo tra idioti o un povero folle -
per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino… ”
mi ha detto “…ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.
Vent’anni è stato in giro per il mondo.
Se n’ andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
uomini, più gravi, lo scordarono.
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.
Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono cosi”.
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma uscì ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
“Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza”.
Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno
scrivo sul manifesto: – Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo – e che la dicano
quei di Canelli”. Poi riprende l’erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.
Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.
[...]