Gabriele D’Annunzio, specchio fastidioso del nostro tempo, di Giovanni Fighera
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 5/6/2013. L’articolo appartiene alla serie Maturità 2013 proposto agli studenti in vista dell’Esame di Stato. Dal testo sono stati omessi i riferimenti diretti alla preparazione dell’Esame stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (23/6/2013)
Si celebrano quest’anno i centocinquanta anni dalla nascita di Gabriele d’Annunzio (1863-1938), un autore che è emblema del suo tempo e della Belle Époque e, nel contempo, corifeo di quell’esasperata ricerca edonistica che è propria dell’uomo contemporaneo. Forse per questo oggi non piace, perché è uno specchio in cui l’uomo di oggi rischia di riconoscersi. Forse per lo stesso motivo oggi è trascurato nelle scuole. Non è mai stato proposto un suo testo per la tipologia A dell’Esame di Stato. Ungaretti, Montale, Saba sono stati proposti per l’analisi di testo due, perfino tre volte in quindici anni, Primo Levi, Quasimodo, Pavese e altri una volta, d’Annunzio mai. Perché Saba sì, d’Annunzio no? Non certo ragioni artistiche possono motivare questa illustre esclusione, casomai motivazioni moralistiche o ideologiche. Per caso, il peso di Saba nella nostra storia letteraria e della cultura può essere paragonato a quello di d’Annunzio?
La vita
Il 12 marzo del 1863, centocinquanta anni fa, nasceva Gabriele Rapagnetta, che si sarebbe fatto chiamare più tardi D’Annunzio o, con scrittura aristocratica, d’Annunzio. È uno degli autori più importanti della Belle Époque, che ha segnato e rappresentato un’epoca, piaccia o non piaccia, divenendo il modello di tutta quella borghesia che non voleva sentirsi borghese, ma desiderava assumere modi aristocratici. Ebbene, proprio quel d’Annunzio che aspirava a distinguersi in modo elitario sarebbe diventato l’emblema dell’omologazione borghese.
È il personaggio più citato, che maggiormente compare sulle riviste, di cui si parla nel bene e nel male, per gli scandali, per gli arditi romanzi in cui racconta le proprie avventure sentimentali, per le spese folli senza le quali non potrebbe condurre una vita quasi principesca, ma che gli provocano debiti tali che per alcuni anni deve lasciare l’Italia (1910) trovando rifugio in Francia.
Tornerà in patria solo quando, scoppiata la Prima guerra mondiale, si fa acceso interventista infuocando il popolo con le sue parole e anticipando così la retorica di piazza mussoliniana. Alla guerra D’Annunzio partecipa non come soldato al fronte, in trincea, ma come personaggio d’eccezione, che vuole distinguersi ed essere protagonista come nella beffa di Buccari o nel volantinaggio su Vienna.
Anche finita la guerra D’Annunzio salirà agli altari della cronaca per l’impresa di Fiume (1919-1920). È forse il canto del cigno prima dell’uscita di scena dal palcoscenico pubblico. Dal 1921 lo scrittore si ritirerà nella villa Cargnacco presso Gardone Riviera, che sarà il suo museo costruito in vita a perenne memoria della sua vita inimitabile. Ivi morì il primo marzo 1938.
Figura eclettica e, al contempo, eccentrica, poliedrica e versata in diversi campi, poeta, drammaturgo e romanziere, pubblicista e sceneggiatore, abile self promoter, è lui l’artista con cui tutti i contemporanei si devono confrontare, sia che lo amino e cerchino di imitarlo sia che lo osteggino e lo avversino apertamente.
D’Annunzio deve essere «attraversato», capito, superato, parodiato, come ha ben compreso Montale, che, trent’anni più giovane, lo identifica come idolo polemico tra i poeti laureati de «I limoni» nella prima raccolta Ossi di seppia (1925), ma ancora nella quarta raccolta, Satura (1971), ormai anziano, fa memoria del poeta pescarese, morto da alcuni decenni, e fa la parodia de «La pioggia nel pineto» nel suo componimento «Piove».
L’opera
Dell’immensa produzione drammaturgica, novellistica e poetica di D’Annunzio è qui impossibile trattare per esteso. Circoscriveremo il discorso, per lo più, ai romanzi, mentre rifletteremo sui versi dannunziani nell’esercitazione dell’analisi di testo.
Come per processo osmotico D’annunzio recepisce a suo modo, è bene dirlo, le molteplici sollecitazioni letterarie, culturali e filosofiche del periodo in cui vive. Sarà lui ad aprire la stagione del Decadentismo esteta in Italia con il romanzo Il piacere (1889), che risente dell’influenza del padre dell’Estetismo, quel Huysmans che scrisse A ritroso.
Emblema di una visione edonistica della vita, raffinato e alla ricerca di nuove sensazioni, il protagonista Andrea Sperelli crede che si debbano assaporare i piaceri della vita, senza alcuna responsabilità e vincolo relazionale. Si inganna, come lui stesso comprenderà presto, quando si renderà conto di essere catturato proprio dalla donna con cui è terminata la relazione. Il romanzo si apre con il tentativo di Sperelli di riprendere il rapporto con la sensuale Elena. Il fallimento di questo tentativo porterà Sperelli ad allacciare una relazione con Maria Ferres, di una bellezza più spirituale rispetto ad Elena.
Il suo cuore è ancora preso dal primo amore e lui pronuncerà il nome di lei dopo un rapporto con la Ferres, che decide così di lasciare l’amante. La stessa trama del romanzo rivela il fallimento dell’etica del piacere.
Se amore e piacere coincidono, ha ragione D’Annunzio a scrivere in una delle sue poesie più note, «La pioggia nel pineto», dedicata all’amata Eleonora Duse: «Piove […]/ su la favola bella/ che ieri/ m’illuse, che oggi t’illude,/ o Ermione». Anche le storie più importanti sono favole belle, illusioni che possono persistere solo per il tempo in cui perdura la soddisfazione del piacere.
Il piacere (1889) appartiene al ciclo della rosa, emblema dell’estetismo dannunziano, trilogia di cui fanno parte anche L’innocente (1892) e Il trionfo della morte (1894). Proprio nella conclusione di quest’ultimo romanzo compare per la prima volta il riferimento a Così parlò Zarathustra di Nietzsche.
Sarà D’Annunzio a rendere per primo celebre il Verbo niciano in Italia, dopo aver letto Nietzsche tra il 1892 e il 1893. Una rilettura molto riduttiva che tenderà a presentare il nuovo superuomo in una chiave personalistica. L’insuccesso e il successo sono due facce della stessa medaglia dell’inettitudine contemporanea, un’inettitudine che proviene proprio dal fatto che i personaggi non hanno più un fondamento su cui consistere, un ubi consistam.
La loro stima scaturisce, così, solo dall’esito delle loro azioni. I personaggi dannunziani inseguono disperatamente la riuscita nella vita, in qualsiasi ambito, dall’arte alla conquista sentimentale fino all’impresa sportiva. L’universo romanzesco di D’Annunzio si popola di superuomini che interpretano le passioni di quel poeta che è stato anche romanziere, pilota, soldato, politico, conquistatore di donne.
Nelle Vergini delle rocce (1895) Claudio Cantelmo vorrebbe il ritorno ad un’élite intellettuale e politica contro la plebaglia democratica e incolta e deve scegliere per moglie una delle tre figlie del principe Capece Montaga. Il discendente proveniente da questa unione sarà il superuomo, colui che ridarà lustro ai fasti antichi dell’Italia, l’eletto a custodire la bellezza dal deturpamento e dalla rozzezza contemporanei.
Questo è l’ufficio programmatico degli ultimi custodi della bellezza: «Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. […] Bollate voi sino all’osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodaiuoli […]. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo».
D’Annunzio inveisce contro l’omologazione, proprio lui che, proponendosi come l’inimitabile, è coscientemente e volontariamente promotore di atteggiamenti eccentrici che fungano da modello per il potente ceto borghese. Le prerogative del nuovo capo d’Italia, del superuomo figlio di Claudio Cantelmo, corifeo del Verbo, «nuovo Messia in terra», saranno forza, violenza e disciplina. L’interprete della nuova stagione dannunziano – superomistica compendia la presunta superiorità di gusto culturale ed estetico con il fascino di colui che sperimenta sempre nuovi campi imponendosi con l’eccellenza. Il progetto della trilogia dedicata al superuomo (Ciclo del giglio) non viene completato e si interrompe al primo romanzo.
Allo stesso modo anche il Ciclo successivo, quello del melograno, che nasce dalla confluenza di Estetismo e superomismo, si interrompe alla prima opera, il Fuoco (1900). Stelio Effrena è l’esteta che vuole generare un nuovo genere artistico dalla commistione di musica, danza e poesia. Morto il grande musicista tedesco Richard Wagner, durante il funerale aiuterà a portare la sua bara ereditandone in maniera simbolica il testimone, ma fallirà.
In Forse che sì forse che no (1910) Paolo Tarsis, l’unico personaggio dannunziano che riesce nell’impresa progettata (la traversata del Mar Tirreno), presenta già nel nome un’evidente parodia di san Paolo di Tarso. L’aviatore appare per molti tratti più come una reviviscenza dell’homo divus rinascimentale che si deve affermare in un ambito piuttosto che un’attualizzazione del superuomo niciano.
Non c’è nulla di nuovo nelle figure dannunziane che poco hanno in comune, è bene dirlo, con il superuomo teorizzato dal filosofo tedesco. Annichilimento di tutti i valori del passato, annullamento della tradizione, volontà di potenza e creazione di nuovi valori sono per Nietzsche gli aspetti salienti del superuomo, che, in maniera simile al bambino, non conosce passato e futuro, ma vive solo per il presente. Proprio al bambino, quindi, si dovrebbe rivolgere l’uomo nuovo niciano.
Pressoché negli stessi anni in cui legge Nietzsche D’Annunzio sente persino il fascino del grande romanziere russo Dostoevskij, i cui echi si sentono nell’Innocente o in Giovanni episcopo. La produzione del russo, però, offre spunti per le trame e suggestioni per le atmosfere dei romanzi piuttosto che provocare un suo profondo ripensamento sull’esistenza.
Organico al potere tanto quanto Carducci, anche se mascherato sotto i panni di un finto innovatore, elitario e antiborghese (quando lui stesso è, invece, rappresentante privilegiato del ceto), D’Annunzio prosegue l’irridente sberleffo al Crocefisso di cui si era reso interprete pochi decenni prima lo stesso Carducci nell’«Inno a satana».
D’Annunzio ha sempre deliberatamente contrapposto la propria brama di affermazione narcisistica al Verbo incarnato, Cristo. La parodia ha spesso accompagnato la produzione dannunziana in maniera ostentatamente provocatoria e mordace.
Si pensi, ad esempio, nel Piacere alle descrizioni delle camere da letto in cui si congiungono i corpi dei due amanti adulterini. In maniera antifrastica e irrisoria una raffigurazione artistica dell’«Annunciazione» campeggia sulle lenzuola: la castità della Madonna si configura come appetitoso antipasto al connubio carnale peccaminoso.
I richiami sacrali percorrono in maniera ossessiva non solo i romanzi, ma anche le poesie e lo stesso luogo che D’Annunzio scelse come suo ultimo soggiorno, il Vittoriale degli italiani. All’amico architetto Maroni che gli porge gli auguri di buona Pasqua, D’Annunzio risponde: «Non augurarmi buona Pasqua, perché da Cristo è stato menomato il mondo». È un giudizio che nasce dalla convinzione che Gesù abbia tolto all’uomo il piacere e la vitalità.
D’Annunzio, che non ha creduto in Lui, nel centuplo quaggiù e nell’eternità, conclude gli ultimi anni nella solitudine e nella tristezza. Quando muore l’homo religiosus, quando si dimentica il desiderio dell’uomo, muore in realtà l’uomo stesso, che viene trattato come ingranaggio di un meccanismo che deve efficientemente funzionare. L’uomo perde così di vista il proprio fine e collabora inconsapevolmente ad un fine diverso. Questa è la radice dell’alienazione.
Per questo d’Annunzio oggi, a centocinquant’anni dalla nascita, dovrebbe essere riscoperto. Non solo, perché emblema e protagonista della sua epoca, non solo perché bisogna attraversarlo in ogni caso per capire il Novecento (come ha detto Montale), ma perché rappresenta, anche se con una patina edulcorata e raffinata, la nostra epoca e l’esito e il destino cui l’uomo si avvia quando mette sé e il proprio arbitrio sul piedistallo. In nome della fama, del successo, del potere e dei soldi si può vendere una parte di sé. Il mito di Faust si è compiuto, ma alla parola felicità è stato sostituito l’idolo in cui si ripone ogni speranza.
[Brano proposto alla lettura]
Tra le tante raccolte di poesie dannunziane meritano una particolare menzione le Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, che dovevano essere composte da sette sillogi (le sette stelle delle Pleiadi), ma che nel progetto conclusivo compresero Maia, Elettra, Alcyone, Merope, Asterope.
G. D’Annunzio, «La sera fiesolana», da Alcyone (1903)
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ‘l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ‘l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà del dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle.
[...]