Tomasi di Lampedusa e Il Gattopardo, o dell’innato desiderio di eternità, di Giovanni Fighera
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 14/6/2013. L’articolo appartiene alla serie Maturità 2013 proposto agli studenti in vista dell’Esame di Stato. Dal testo sono stati omessi i riferimenti diretti alla preparazione dell’Esame stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (23/6/2013)
Un caso letterario
Un vero e proprio caso letterario è quello di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) e del suo romanzo, Il Gattopardo, da taluni ritenuto addirittura il più bel romanzo scritto nel Novecento. Un caso letterario per molteplici ragioni.
Se fu animato da una viva passione letteraria fin da giovane, solo nel 1954 l’autore si dedicò nottetempo alla scrittura, spronatovi dalla partecipazione ad un convegno letterario che si tenne in quell’anno a San Pellegrino Terme. Alla fine del medesimo anno e fino alla morte lavorò al suo capolavoro, probabilmente non terminato (forse doveva essere integrato con uno o due capitoli), quasi certamente non sottoposto ad una revisione definitiva.
In secondo luogo, la Mondadori con la supervisione di Elio Vittorini scartò il romanzo considerandolo, in un certo senso, opera ottocentesca, poco adatta al nuovo pubblico di lettori.
Fu lo stesso Vittorini a rispondere a Tomasi di Lampedusa: «Come recensione non c’è male, ma pubblicazione niente». La previsione era che il testo avrebbe ottenuto probabilmente un buon riscontro della critica, ma sarebbe stata un fiasco presso il pubblico, sulla scia dei romanzi veristi verghiani di fine Ottocento. Per la Feltrinelli, invece, si interessò al romanzo Giorgio Bassani che scese in Sicilia per incontrare Gioacchino Lanza Tomasi, parente dell’autore (nel frattempo deceduto), che gli consegnò il manoscritto del ’57 (in parte differente dal dattiloscritto del ’56).
Il romanzo Il Gattopardo veniva così pubblicato per conto della Feltrinelli nel 1958, vinceva il Premio Strega nel 1959 e diventava il primo best seller italiano (oltre centomila copie vendute). Un romanzo considerato ottocentesco per l’argomento, decadente per i toni e per il dilagante senso di crisi che pervade la storia otteneva il consenso di un pubblico di lettori che nel decennio precedente aveva apprezzato opere di stampo neorealista. In pratica, con questi anni si concludeva la stagione del Neorealismo letterario e cinematografico e si apriva un’epoca nuova, quella dei best seller. Con Il Gattopardo il successo delle vendite si coniugava ad un’alta qualità letteraria. Molti critici letterari, mossi da convinzioni ideologiche antitetiche a quelle che emergevano nel romanzo, tacciarono l’opera di essere conservatrice e reazionaria, e per questo non impegnata, grave macchia in quegli anni Sessanta in cui sarebbe iniziato il trionfo del tutto è politica, della letteratura del rifiuto e del rifiuto della letteratura.
Il romanzo
La storia de Il Gattopardo è nota e resa ancor più celebre dalla bellissima trasposizione cinematografica che realizzò Luchino Visconti nel 1963, avvalendosi di un cast eccezionale tra cui brillavano Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale. Strutturato in otto parti (non capitoli), la vicenda è ambientata in Sicilia, tra il 1860 e il 1910, dall’anno che precorre la caduta dei Borboni e l’unificazione d’Italia a quelli che anticipano la Grande guerra.
Don Fabrizio è il principe di Salina, il Gattopardo, aristocratico e conservatore. Tancredi è il suo caro nipote, al passo coi tempi, capace di cogliere lo spirito della rivoluzione che sta avvenendo e che nello spazio di un anno spodesterà i Borboni portando la Sicilia all’interno del Regno d’Italia.
Prima garibaldino, poi arruolatosi nell’esercito piemontese, il giovane si fa interprete di quella generazione che è convinta di sapersi avvantaggiare dei cambiamenti storici. Ma davvero gli avvenimenti storici riescono a cambiare e a modificare l’anima ancestrale siciliana? La risposta sembra essere negativa, almeno nella prospettiva di Don Fabrizio a colloquio con il rappresentante dello Stato piemontese Chevalley: «In Sicilia non importa far bene o far male: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi […]. Da duemila anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso».
La storia non è, però, la protagonista fondamentale del romanzo. Dominano le vicende private, gli amori di Tancredi, che prima corteggia Concetta e, poi, si sposa con la bellissima Angelica, figlia dell’arricchito Don Calogero, i furtivi tradimenti del Gattopardo e i conseguenti sensi di colpa, la gelosia di Concetta, l’atmosfera decadente e seducente della villa estiva di Donna fugata. Un senso di crisi e di decadenza accompagna il racconto.
Così, il romanzo, più che epopea di un popolo, quello siciliano, è indagine e perlustrazione dei cuori dei personaggi, che palpitano, desiderano, ambiscono, amano, sospirano per le delusioni. Per questo il successo del pubblico è segno che Tomasi di Lampedusa non si faceva portavoce del milieu sociale aristocratico, cui peraltro apparteneva, ma interpretava la malinconia e la nostalgia dell’uomo che si rattrista per il passaggio del tempo, per il tramonto della vita, per la scomparsa della giovinezza e delle antiche tradizioni.
L’autore cantava l’ambizione, innata nell’uomo, di fermare il tempo o di trovare un tempo mitico in cui tutto potesse permanere sempre uguale, che altro non è che il desiderio innato nell’uomo dell’eternità. Ambizione che è destinata a fallire nella dimensione terrena e storica come icasticamente comunica la scena finale dell’ottava parte (1910). Molti personaggi ormai sono morti. Concetta, che ormai vive in «un mondo noto ma estraneo», si vuole liberare del cane impagliato Bendicò, che desta «ricordi amari» ed «è diventato veramente troppo tarlato e polveroso». «Mentre la carcassa» viene «trascinata via, gli occhi di vetro» la fissano «con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare».
Già prima, però, sono disseminati i segni della disgregazione e della caducità delle cose. Nei mesi di fidanzamento di Tancredi con Angelica il narratore da un lato descrive bene la condizione umana di attesa del compimento della felicità, dall’altro anticipa con una felice prolessi la delusione degli anni venturi: «Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull’inevitabile sfondo di dolore. […] Quando furono diventati vecchi e inutilmente saggi i loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati i giorni del desiderio sempre presente perché sempre vinto, dei letti, molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, dello stimolo sensuale che appunto perché inibito si era, un attimo, sublimato in rinunzia, cioè in vero amore».
In un’altra scena (VI parte, 1862) Don Fabrizio sembra contemplare e corteggiare la morte, che sopraggiungerà vent’anni più tardi (VII parte, 1882). Allora, poco prima della dipartita, farà un consuntivo dei rari momenti di felicità sperimentata cercando di trarre «dall’immenso mucchio delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici»: «due settimane prima del suo matrimonio, sei settimane dopo; mezz’ora in occasione della nascita di Paolo […], alcune conversazioni con Giovanni […]. Ma queste ore potevano davvero essere collocate nell’attivo della vita? Non erano forse un’elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie?»
Un linguaggio raffinato, di altra epoca, decadente ed esteta, seduce e accompagna il lettore nel romanzo, come quando l’autore descrive l’attesa dell’arrivo di Angelica al ricevimento: «L’attimo durò cinque minuti; poi la porta si aprì ed entrò Angelica. La prima impressione fu di abbagliata sorpresa. I Salina rimasero col fiato in gola […]. Sotto l’impeto della sua bellezza gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzandoli, i non pochi difetti che questa bellezza aveva». Sentiamo da ultima la grazia della descrizione di Angelica: «Era alta e ben fatta, in base a generosi criteri; la carnagione sua doveva possedere il sapore della crema fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello delle fragole. Sotto la massa dei capelli color di notte avvolti in soavi ondulazioni, gli occhi verdi albeggiavano, immoti come quelli delle statue e, com’essi, un po’ crudeli». Non so quale altro romanziere del Novecento italiano sia stato in grado di scrivere con una simile grazia e capacità espressiva.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa affidava proprio alla potenza evocatrice della parola e dell’arte il compito di fissare sulla pagina le memorie del passato e di fermare, così, il tempo.
[Brano proposto alla lettura]
«Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto 'adesione' non 'partecipazione'. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene; il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso».
Adesso Chevalley era turbato. «Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato».
«L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s’impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto».
Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l’indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. «Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto».
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: «Ma non le sembra di esagerare un po’, principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni».
Il Principe si seccò: «Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo».