Montale, “Se non sei/ è solo la mancanza/ e può affogare”, di Giovanni Fighera

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /06 /2013 - 08:35 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 10/6/2013. L’articolo appartiene alla serie Maturità 2013 proposto agli studenti in vista dell’Esame di Stato. Dal testo sono stati omessi i riferimenti diretti alla preparazione dell’Esame stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (26/6/2013)

La vita

Nato a Genova nel 1896, Eugenio Montale si diploma in ragioneria e poi si forma da autodidatta, come tanti grandi poeti del Novecento. Montale confesserà ormai anziano all’amica Annalisa Cima: «Non appartengo ai paradisi artificiali di Palazzeschi, né agli inferni lussuriosi di Ungaretti; sono un uomo che ha vissuto al cinque per cento. Appartengo al limbo dei poeti asessuati e guardo al resto del mondo con paura». È «uomo del non – possesso, della fantasia resa realtà, è corso sino alla fine verso immagini che materializzava o, meglio, verso persone che smaterializzava». Quanto possono aiutare queste parole a comprendere meglio il rapporto di Montale con le tante figure femminili che campeggiano nella sua poesia, come Gerti/Dora Markus, o Irma Brandeis chiamata anche con il nome Clizia, o ancora Arletta/Annetta.

Montale diventa direttore del Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux dal 1929 al 1938. Nel 1948 inizia la collaborazione con «Il Corriere della Sera» e scrive la terza raccolta La bufera e altro (1956), dopo Ossi di seppia (1925) e Le occasioni (1939). Nel 1962 sposa Drusilla Tanzi, che ha conosciuto nel 1927 e con cui convive dal 1939. Drusilla muore nel 1963 lasciando un profondo dolore nella vita di Montale di cui è testimonianza la quarta raccolta che esce dopo tanti anni, quella Satura (1971) che è in gran parte dedicata alla donna amata. Il valore della sterminata produzione di Montale che attraversa gran parte del secolo scorso viene consacrato prima dalla nomina a senatore a vita (1967), poi dal Premio Nobel per la letteratura (1975), conseguito sei anni prima della morte (1981). 

La poesia

Per il poeta nativo di Genova e amante del mare ligure (la famiglia aveva una casa a Monterosso) la comunicazione e la scrittura sono il tentativo di entrare in relazione con il Tu, cioè con il senso, con il Mistero che emerge nella realtà. In Intenzioni (Intervista immaginaria, 1946) il poeta rivela: «Mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. All’eloquenza della nostra vecchia lingua volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza».

Così, fin dalla prima raccolta Ossi di seppia (1925), la poetica di Montale non rifugge dalla musicalità, bensì dall’ostentata retorica dei «poeti laureati» al fine di giungere all’essenzialità e di sradicare la prosopopea dannunziana in uno sforzo di ritorno all’ordine dopo le avanguardie storiche dei primi decenni del secolo. Montale descrive, spesso, la percezione di poter cogliere la verità che sta oltre il sensibile. Ha l’impressione che la realtà possa tradire il suo segreto in un punto, che il Mistero si possa svelare come per miracolo.

Così Montale racconta la manifestazione della sacralità del reale nella poesia «I limoni»: «Vedi, in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto,/ talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità./ […] Sono i silenzi in cui si vede/ in ogni ombra umana che si allontana/ qualche disturbata Divinità». In silenzio e rivolto alla realtà, con sguardo attento Montale fruga per cogliere quello «sbaglio di natura», quel «punto morto del mondo» che permetta di andare oltre l’apparenza per percepire la verità.

Non sempre, però, riusciamo a sostenere questo atteggiamento di domanda e di ricerca, soprattutto quando il senso di solitudine ha il sopravvento. Allora, stupore e meraviglia possono lasciare il posto allo scetticismo, al cinismo, alla tristezza per la mancanza di senso e per il vuoto, alla percezione della negatività del vivere (così, ad esempio, nella poesia «Spesso il male di vivere ho incontrato»).

In «Forse un mattino andando in un’aria di vetro» il poeta sottolinea la possibilità che all’uomo si sveli il Mistero della realtà, come per un miracolo. L’eliminazione del velo dell’apparenza, la manifestazione della sostanza e della verità delle cose, in altre parole l’epifania, segnano in maniera indelebile la coscienza del poeta, che se ne andrà col suo «segreto», «tra gli uomini che non si voltano», ovvero in mezzo a tutte quelle persone che non si fanno interrogare e provocare dalla vita e dalla realtà. Il miracolo è questa sorpresa dell’evidenza del senso e del significato, che avviene in un momento, in maniera fugace.

L’influenza della corrente filosofica del contingentismo di Émile Boutroux, corrente spiritualista che reagisce al materialismo del Positivismo, e la poetica del correlativo oggettivo (formulata da T. S. Eliot) sono ancora più evidenti nella seconda raccolta Le occasioni (1939). Ivi, la circostanza che permette di cogliere la verità è quasi sempre l’incontro con la donna. Campeggiano qui figure femminili, come Gerti/Dora Markus, o Irma Brandeis chiamata anche con il nome Clizia, o ancora quell’Arletta/Annetta di cui il poeta aveva già cantato nella prima raccolta. La donna, presente o più spesso assente (quindi rievocata nella memoria), è l’unica possibilità del miracolo e di rompere la solitudine, è il «tu» privilegiato, l’interlocutrice con una valenza salvifica nell’insensatezza totale dell’esistenza. La lezione del Dolce Stil Novo e su tutti di Dante è forte.

Nella terza raccolta La bufera e altro (1956), pur non mancando i riferimenti alla Seconda guerra mondiale, dominante è ancora la tendenza del poeta a superare la contingenza storica per parlare dell’uomo e delle sue domande. Confesserà Montale all’amica Annalisa Cima: «I primi tre libri (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro) sono scritti in frac, gli altri in pigiama, o diciamo in abito da passeggio. Forse mi sono reso conto che non potevo continuare a inneggiare a Clizia, alla Volpe, a Iride, che del resto non esistono più nella mia vita. Quando scrivevo i primi libri non sapevo che avrei raggiunto gli ottant’anni […]. Ho voluto suonare il pianoforte in un’altra maniera, più discreta, più silenziosa».

La quarta raccolta, Satura, datata 1971, è divisa in quattro sezioni: Xenia I e Xenia II, Satura I, Satura II. Montale dedica le poesie della sezione «Xenia»(«doni votivi per l’ospite») alla moglie Drusilla Tanzi, denominata spesso con tono affettuoso Mosca, per i grandi occhiali da miope che portava. Sposata solo nel 1962 e morta l’anno successivo, Drusilla è in realtà compagna di Montale già sul finire degli anni Trenta. 

Ricorda ancora Montale in Xenia II:«Dicono che la mia/ sia una poesia d’inappartenenza./ Ma s’era tua era di qualcuno:/ di te che non sei più forma, ma essenza./ Dicono che la poesia al suo culmine/ magnifica il Tutto in fuga,/ negano che la testuggine/ sia più veloce del fulmine./ Tu sola sapevi che il moto non è diverso dalla stasi,/ che il vuoto è il pieno e il sereno è la più diffusa delle nubi./ Così meglio intendo il tuo lungo viaggio/ imprigionata tra le bende e i gessi./ Eppure non mi dà riposo/ sapere che in uno o in due noi siamo una cosa sola». La vera poesia rimanda sempre all’Assoluto, a quel «Tutto in fuga» che l’arte può solo suggerire. Il dolore e la sofferenza fanno parte della gioia, la pienezza può riempire il vuoto nell’anima solo quando noi ne abbiamo coscienza e mendichiamo. Così si può viaggiare anche se bendati e immobili in un letto.

Sempre più chiara e concreta è la coscienza della funzione salvifica della presenza muliebre. Pensiamo alla celeberrima poesia (Xenia II, 5) in cui il poeta scrive: «Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale/ e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino./Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio./ […] Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio/non già perché con quattr’occhi forse si vede di più./Con te le ho scese perché sapevo che di noi due/le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,/erano le tue». Il viaggio è qui metafora della vita e la discesa delle scale (immaginiamoci, ad esempio, le scale ripide e strette di una casa a Monterosso) rappresenta il trascorrere del tempo che accompagna lentamente, ma inesorabilmente al Destino che attende tutti noi, quella morte che spalanca all’altra vita.

La poesia è una catabasi moderna, una discesa agli Inferi realizzata con la compagnia della moglie. Ora, senza di lei, il viaggio del poeta è solitario, senza più quel sostegno che, oltre che una compagnia costante, rappresentava anche un giudizio autorevole per il poeta. Una donna non equivale all’altra. Non conta tanto essere in due, ma poter camminare in due fidandosi del giudizio altrui, condividendo il vissuto e aiutandosi vicendevolmente nella strada verso il Destino.

Nello Xenia I, 5  emerge questo affettuoso spirito di appartenenza tra i due sposi, un’appartenenza che è quasi dipendenza reciproca quasi come quella del cane incimurrito nei confronti del padrone. Si nota, poi, da parte del poeta anche quell’indefettibile fiducia nella moglie, capace di leggere nella profondità del cuore delle persone, nonostante la sua cattiva vista: «Non ho mai capito se io fossi/il tuo cane fedele e incimurrito/ o tu lo fossi per me./Per gli altri no, eri un insetto miope/smarrito nel blabla/ dell’alta società. Erano ingenui/quei furbi e non sapevano/di essere loro il tuo zimbello:/ di esser visti anche al buio e smascherati/ da un tuo senso infallibile, dal tuo/radar di pipistrello».

Montale è convinto che questa compagnia durerà per l’eternità. Con quale tenerezza il poeta si rivolge a lei dicendo (Xenia I, 4): «Avevamo studiato per l’aldilà/un fischio, un segno di riconoscimento./Mi provo a modularlo nella speranza/che tutti siamo già morti senza saperlo». Oppure: ««E il Paradiso? Esiste un Paradiso?»/ «Credo di sì, signora, ma i vini dolci/ Non li vuole più nessuno»». Alla fine del viaggio ecco la scoperta tanto attesa e sospirata per tutta la vita: il Paradiso e l’eternità.

[Brano proposto alla lettura]

«Piove» da Satura (1971)

Piove. È uno stillicidio
senza tonfi
di motorette o strilli
di bambini.

Piove
da un cielo che non ha
nuvole.

Piove
sul nulla che si fa
in queste ore di sciopero
generale.

Piove
sulla tua tomba
a San Felice
a Ema
e la terra non trema
perché non c’è terremoto
né guerra.

Piove
non sulla favola bella
di lontane stagioni,
ma sulla cartella
esattoriale,
piove sugli ossi di seppia
e sulla greppia nazionale.

Piove
sulla Gazzetta Ufficiale
qui dal balcone aperto,
piove sul Parlamento,
piove su via Solferino,
piove senza che il vento
smuova le carte.

Piove
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l’assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l’ha ordinato.

Piove sui nuovi epistemi
del primate a due piedi,
sull’uomo indiato, sul cielo
ominizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui work in regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero, sgocciola
sulla pubblica opinione.

Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.

[...]