Come si concludono i Promessi sposi? Perché nessuno a scuola lo racconta?, di Giovanni Fighera
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Giovanni Fighera pubblicato il 18/12/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (26/5/2013)
Qualche settimana fa (sabato 1 dicembre) con Repubblica nella serie «Le grandi storie della letteratura raccontate dai grandi scrittori di oggi» è uscita una revisione dei Promessi sposi operata dal semiologo, saggista, romanziere italiano di fama internazionale Umberto Eco. Uno scrittore, che già dalla gioventù ha professato di aver abbandonato la fede e la chiesa cattolica, ha riscritto I promessi sposi, opera che non è soltanto il romanzo più importante che sia stato scritto nella nostra letteratura, ma che rappresenta in forma concreta e incarnata il genio del cristianesimo.
A riguardo del romanzo e del suo autore Eco ha commentato: «Il signor Alessandro sembra amare molto i poveretti, ma certo non sa proprio come aiutarli a far valere i loro diritti. E siccome, per l’appunto, era un cristiano assai fervente, tutti hanno detto che la sua morale era che bisogna rassegnarsi e sperare solo nella Provvidenza». Sui Promessi sposi si è scritto davvero tanto. A scuola è più facile che gli studenti di quinta sappiano ripetere i commenti di critici illustri sul romanzo o il loro giudizio sulla provvidenza manzoniana piuttosto che sappiano dire semplicemente come Manzoni concluda il romanzo.
Fate una verifica immediata. Se avete figli che studiano alle superiori, al biennio (ove andrebbero letti I promessi sposi in forma integrale o quasi) o al triennio (almeno un mese è solitamente dedicato allo studio del grande scrittore lombardo), oppure anche alle medie inferiori, chiedete loro che cosa sia la fede per Manzoni. Oppure, in forma più semplice, come si concluda il romanzo. O quale sia il «sugo della storia», per utilizzare l’espressione che l’autore pone al termine dell’opera. Oppure chiedetevi voi lettori, che avete studiato, vi siete diplomati o laureati, se abbiate mai affrontato la conclusione dei Promessi sposi, se vi abbiano mai letto a scuola le ultime quattro pagine del romanzo, quelle che seguono il matrimonio di Renzo e Lucia. Sarebbe interessante condurre una statistica al riguardo tra tutti quanti affermano di aver studiato il romanzo più importante della letteratura italiana.
Nel mio piccolo io ho condotto una statistica in questi quindici anni di insegnamento al triennio delle superiori (tre in istituti professionali e ben dodici in Licei classici e scientifici). Non mi risulta difficile calcolare la percentuale, perché posso con certezza affermare che ancora nessuno studente, quando mi accingo ad affrontare Manzoni al triennio e chiedo la conclusione del romanzo (che dovrebbe aver già letto al biennio), sia riuscito nell’impresa! Quindi, tra gli studenti che arrivano all’ultimo anno della scuola superiore, nessuno (zero per cento) conosce la conclusione. Le risposte che più si sono avvicinate, per la verità, sono state queste: il romanzo prosegue per poco e Renzo e Lucia hanno dei figli oppure i due protagonisti non sono così contenti.
Tutto qui? Vi sembra possibile che in un anno di scuola il docente non abbia un’ora di tempo per raccontare quanto Manzoni abbia voluto dirci? È un’omissione voluta o casuale? Per approfondire un aspetto della realtà è importante metterlo in relazione con il suo significato, con il senso, quello che Manzoni chiama «il sugo della storia».
Il nostro autore, cattolico e realista, non ha voluto scrivere una favola a lieto fine, come potrebbe a taluni sembrare, né tantomeno ha voluto scrivere un’opera moralista. Entrambe le interpretazioni sono una deliberata riduzione della genialità del cristianesimo che emerge dalla lettura del romanzo. Vediamo allora meglio la conclusione.
Una volta sposato con Lucia, Renzo va ad abitare in un paesino della bergamasca dove si crea una forte attesa per vedere quella donna per la quale il giovanotto ha passato tante traversie. Quando finalmente la sposa giunge in paese, le persone incominciano ad esprimere giudizi non sempre lusinghieri sull’aspetto della ragazza. Le voci girano finché qualche «amico» non pensa di riportare i commenti a Renzo. Questi mostra di aver tutto sommato mantenuto l’indole di un tempo, cova dentro di sé un’ira pronta ad esplodere. «A forza d’essere disgustato, era ormai divenuto disgustoso. Era sgarbato con tutti, perché ognuno poteva essere uno de’ critici di Lucia. Non già che trattasse proprio contro il galateo; ma sapete quante belle cose si possono fare senza offender le regole della buona creanza: fino sbudellarsi».
Ma finalmente Renzo ha la possibilità di cambiare paese e di comprare lì un filatoio assieme al cugino Bartolo. «Lucia, che lì non era aspettata per nulla, non solo non andò soggetta a critiche, ma si può dire che non dispiacque; e Renzo venne a risapere che s’era detto da più d’uno: “Avete veduto quella bella baggiana che c’è venuta?”. L’epiteto faceva passare il sostantivo».
Ma i fastidi iniziano a farsi sentire anche lì. La vita dell’uomo non è mai perfetta, immune dalla sofferenza e dai problemi. L’uomo desidera sempre indossare un vestito che non è il proprio, percepisce un’insoddisfazione come un pungolo, anche quando sembra aver raggiunto l’obiettivo tanto agognato. Manzoni per rappresentare tale situazione esistenziale utilizza un’immagine icastica: l’uomo è come un infermo che desidera cambiare letto, guarda quello altrui e lo vede più comodo e confortevole. Quando finalmente riesce a trovare un altro giaciglio, inizia a sentire «qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio».
Il romanzo, però, non è ancora terminato. L’Autore lombardo scrive che gli «imbrogli» descritti nella prima parte del romanzo non ci furono più e che la vita trascorse in maniera abbastanza tranquilla tanto che non ce la racconta perché ci avrebbe ad annoiare. Il lavoro procedeva bene e nel primo anno di matrimonio nacque Maria cui seguirono, poi, tanti altri bambini. Renzo provvide a che studiassero poiché «giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro».
Da quanto si legge nell’ultima pagina del romanzo, comprendiamo che diverso fu l’atteggiamento di Renzo e Lucia nei confronti di quanto accaduto: quest’ultima, più discreta e meno moralista, mossa da una fede e da un abbandono al Mistero e a Dio più totali, custodiva e meditava l’accaduto in cuor suo senza eccessivi trionfalismi, mentre lo sposo raccontava ovunque quanto era loro capitato soffermandosi su quanto aveva imparato. Diceva: «Ho imparato… a non mettermi nei tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardar con chi parlo: ho imparato a non alzare troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che ne possa nascere».
Insomma, Renzo faceva il moralista, si poneva di fronte all’accaduto con uno sguardo tutto proteso su di sé più che sul Mistero di chi fa tutte le cose, sforzandosi di migliorare e cambiare e non ripeter più gli errori di prima. La visione di Renzo era agli occhi di Lucia parziale, in quanto l’esperienza ci insegna che spesso quanto accade non è conforme ai nostri progetti e alle nostre aspettative, anche quando il nostro comportamento è stato dettato dal buon senso: «E io - disse un giorno al suo moralista - cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercare me. Quando non voleste dire,- aggiunse, soavemente sospirando, - che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi».
Ebbene i due novelli sposi si misero a discutere su questo punto e arrivarono ad una conclusione che l’anonimo decise di porre come «sugo di tutta la storia» perché estremamente giusta e ragionevole, anche se partorita da povera gente. Questo è il sugo della storia, quindi, ovvero il senso che dà sapore e, quindi, significato all’intera vicenda. È Manzoni stesso a dircelo e, quindi, sembra fuorviante andare a chiederlo e a cercarlo nelle pagine di tanta critica letteraria: «I guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore». I guai (cioè il dolore, la malattia, i problemi della vita), se vissuti di fronte alla presenza di Gesù, sono l’occasione, la circostanza in cui noi siamo chiamati a convertirci, a riconoscere Lui presente.
Questo è il già, la sperimentazione del «centuplo quaggiù», non è l’eliminazione dei problemi, ma uno sguardo nuovo sulla realtà. Esso infonde quella perfetta letizia di cui parla S. Francesco quando afferma che essa risiede nella nostra sofferenza offerta a Cristo per il bene e la salvezza altrui (in questa «offerta» l’amaro si tramuta in dolcezza).
Il centuplo quaggiù non è l’eliminazione della sofferenza, ma si traduce in uno sguardo nuovo e diverso sulla stessa. Anche il male viene guardato diversamente, con una misericordia che abbraccia sé e l’altro per la debolezza umana, nella consapevolezza che il misterium iniquitatis trova solo in Cristo una plausibile risposta.