Imparare ad educare, di Mariella Carlotti
Riprendiamo dal giornale L’oltre web, numero speciale (solo on line) 27 giugno 2011, la trascrizione di una relazione di Mariella Carlotti, pronunciata in occasione della Festa Karis 2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti sull'educazione, vedi la sezione Catechesi e pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (21/4/2013)
Appunti non rivisti dall’autore. Si ringrazia Maria Silvia Baldarelli per la trascrizione audio
Sono abbastanza imbarazzata perché sono stata trascinata non volendo in questa cosa che non pensavo avesse queste dimensioni, anche perché, io non so parlare teoricamente, io so solo raccontare quello che vivo. So anche che devo farlo perché per me il miracolo, l’unico miracolo della mia vita, è essere arrivata a cinquant’anni e avere ancora voglia di vivere; questo io certamente non me lo sarei mai immaginato. Perciò, da un certo punto di vista, dico sempre sì quando mi invitano, perché io so che ho un debito di gratitudine con il Padreterno. Io, come ho detto a Stefano, ridico a voi quello che ho detto anche in altre occasioni: la riflessione che ho fatto in questi ultimi tempi sulla mia esperienza come insegnante.
Io non avrei dovuto fare l’insegnante, ho fatto l’insegnante contro tutti e contro tutto, perché i miei genitori non volevano assolutamente che io facessi l’insegnante. La scelta di fare l’insegnante è legata ad un fatto, un tornante fondamentale della mia vita. Quando io ho fatto le medie e il liceo, ho vissuto il periodo più terribile della mia vita. Soprattutto al liceo, ho vissuto un periodo di disperazione assoluta senza che nessuno tra i miei insegnanti riuscisse ad entrare in dialogo, anzi no, questo sarebbe stato già parecchio, senza che nessuno tra i miei insegnanti intuisse anche vagamente quello che io mi portavo nell’anima. Quando penso ai miei anni di liceo mi vengono sempre in mente due flash.
Vengo da una famiglia di tradizione cattolica, però quando a quattordici anni sono andata al liceo, in un liceo statale, ho totalmente abbandonato quella tradizione che pure i miei in qualche modo mi avevano comunicato. Erano anni, gli anni Settanta, in cui era facilissimo che questo abbandono coincidesse con l’abbracciare altre cose, come io feci, incontrando un ragazzo che per me è stato determinante nella mia vita. Siccome lui era il capo del Collettivo del mio liceo, e a me è sempre piaciuto fare la parte dell’Anita Garibaldi nel grande cinema della vita, sono diventata Anita Garibaldi.
Però dopo alcuni anni di militanza politica insieme al liceo, c’è stato un momento in cui lui è rimasto delusissimo dall’esperienza che aveva fatto e ha imboccato strade molto brutte, frequentando ambienti legati alla tossico-dipendenza. Io rimasi molto colpita da questa sua evoluzione, perché era un ragazzo pieno di ideali, ma ad un certo punto la delusione di questi ideali l’aveva condotto su strade che lui non aveva immaginato. Io quando ripenso al fatto che la mia vita si è giocata, esattamente in un certo momento intorno ai diciotto anni, nel rapporto con questo ragazzo e in una serie di circostanze della mia vita, che avrebbero potuto non darsi, mi prendono sempre i brividi...
Vi racconto un episodio della mia infanzia e qui me la prendo così lunga che forse ci arriveremo poi alla fine! Quando ero piccola, molto piccola, mi addormentavo, solo se mio babbo (la mamma era una supplente mal tollerata) tutte le sere mi raccontava la stessa storia. La storia che io volevo sentire da mio padre era questa: come aveva conosciuto la mia mamma!
Quando mio padre aveva undici anni, andò con suo padre, mio nonno, in un mulino a sette chilometri dal mio paese. Ad un certo punto, lui era rimasto in macchina, mio nonno era sceso a parlare con il mugnaio; ad un certo punto dalla casa esce una bambina di cinque anni con le trecce. Mio nonno la guarda e dice: “chi è questa bambina?” e il mugnaio “mia figlia”. Mio nonno si gira verso mio padre e dice al mugnaio: “quello è mio figlio, ha sei anni di più, magari saranno marito e moglie”. Tutti ridono.
Se fosse un film, sfumerebbe l’immagine e apparirebbe la scritta “Sedici anni dopo”. Una sera, un sabato sera, mio padre doveva andare da una parte, all’ultimo momento non ci è andato e i suoi amici lo hanno trascinato a ballare. A mio padre non piaceva ballare. Quella stessa sera, mia madre doveva andare da una parte, ma all’ultimo momento non ci è andata e le sue amiche l’hanno trascinata a ballare. A mia mamma non piaceva ballare. In quella sala, in cui tutti ballavano, c’erano due seduti. Ad un certo punto mio padre si era rotto, si è alzato in piedi e ha invitato mia madre a ballare.
Mio babbo dice: “come ti chiami?”. La mia mamma glielo dice, e lui “ma dove abiti?”, e mia mamma dice “abito in un mulino, a sette chilometri da qui”. Mio babbo la guarda e gli fa “da piccola avevi le trecce?” e mia mamma “tutte le bambine da piccole hanno le trecce”. Allora mio babbo dice: “ma io, sai, quindici anni fa, sono venuto con mio babbo nel tuo mulino” e gli racconta l’episodio, che lui ricordava benissimo, mia madre no. E hanno incominciato a ridere, a ridere, a ridere e sono nata io, a forza di ridere.
Io ho capito soltanto molto tardi, perché io mi addormentavo solo con questa storia. Perché l’uomo si addormenta solo quando è certo che la vita ha un destino buono, ha un disegno, e senza saperlo, a quattro anni già lo sentivo.
Tornando agli anni del liceo io in quegli anni lì ho due flash chiarissimi. Ero a scuola, un giorno, facevo la quarta, lezione di filosofia con una professoressa insopportabile che spiegava un argomento insopportabile, credo Spinoza - di lui non ho mai capito nulla, se non il nome, Spinoza - e mentre lei spiegava io ho incominciato a guardare intorno a me i miei compagni di classe e ricordo che ho pensato “ma, forse ha proprio ragione la mia mamma”.
La mia mamma in quel periodo mi ripeteva sempre una domanda, che per me era diventata ossessiva. Siccome io ero diventata tristissima, mia mamma, con cui non parlavo, mi continuava a ripetere: “ma che cosa hai? Ma che cosa ti manca? Ti abbiamo dato tutto, hai tutto, che cosa è che ti manca? Perché sei triste? Che cosa è che ti manca?”. Io dopo mesi che sentivo ripetere questa domanda, un giorno mi girai e le dissi: “se lo sapessi, non mi mancherebbe. Il fatto è che non lo so. Ma mi manca ciò che rende utile tutto, tutto quello che ho”.
E quel giorno in classe guardandomi intorno, pensai: “forse ha veramente ragione la mia mamma, ma io ho tutto”. Perché pensando a certi compagni, c’erano alcuni a cui era morto uno dei genitori, o che avevano i genitori separati, o che avevano problemi economici, o che andavano male a scuola... Non è che ero in una classe di sciagurati. Era una classe normale la mia, però io mi accorsi guardando i volti dei miei compagni di classe, che io non potevo rintracciare niente che mi mancava, eppure c’era qualcosa che mi mancava, e quel giorno mi ricordo che mi venne questa intuizione (erano tre anni che non frequentavo più la vita della Chiesa) e pensai: “ecco io sono come una che ha tutto per camminare, ha anche tutte le cose di ricambio - le scarpe, il k-way, l’ombrello ecc. - tranne l’unica cosa che serve, che è una direzione in cui andare, per cui sto girando in tondo. È questo che mi manca, una strada. Perché se l’avessi e mi mancasse l’ombrello, arriverei bagnata ma arriverei, e se non avessi le scarpe, arriverei con i piedi sanguinanti ma arriverei. Ma se ho tutto e non so dove andare è come se non avessi niente.
Il secondo flash, invece, è relativo al giorno del mio diciassettesimo compleanno, in cui chiesi come regalo al ragazzo a cui volevo così bene, se poteva restare per un pomeriggio lucido (senza farsi), che lui fosse lucido, perché non era più lucido, almeno quasi mai. Uscimmo ed io gli chiesi: “senti sei consapevole che se continui così ti ammazzi?”. Ed io mi ricordo la serietà con cui lui mi rispose dicendomi: “dimmi una ragione per cui io dovrei non farlo”. Io rimasi senza fiato per due minuti, dopo due minuti, con un filo di voce gli dissi: “io. Io sono la ragione per cui dovresti non farlo”. E lui mi disse una cosa per la quale penso che andrà in Paradiso, fosse solo per questo. Mi disse questa frase: “No, io ti voglio molto bene, ma tu non sei una ragione per vivere, tu sei una compagna in una ragione per vivere, perché tu non mi basti. Ed è la cosa più piena di amore che ti ho mai detto”.
Questi sono i due flash a cui, quando facevo la quinta liceo, in circostanze che adesso sarebbe lungo da ripercorrere, anche se è stata una cosa brevissima per me, un solo pomeriggio, in quinta liceo io ho incontrato Cristo. Io ho incontrato Cristo pertinente esattamente a questi due flash, tanto è che per me, quando io ho incontrato Cristo, incontrando la storia del Movimento, io non ho avuto più nessun dubbio che tutta la mia vita sarebbe trascorsa nel capire che cosa mi era accaduto quel pomeriggio, e l’unico modo di capirlo è comunicarlo.
E così in quinta liceo presi questa decisione che io sarei andata ad insegnare alle superiori, perché volevo che, almeno quelli che mi capitavano tra le mani a me, potessero avere una compagnia alla loro vita che a me era mancata. Così ho incominciato ad insegnare - sono entrata di ruolo a ventisei anni, quindi non ho fatto nessuna gavetta, cioè non sono mai stata precaria - nelle scuole statali.
Qui ho avuto una carriera al contrario, perché ho incominciato ad insegnare al Liceo, poi per altre ragioni legate ad altre vicissitudini mi sono spostata cinque volte di città e di provincia, e nello Stato quando uno si sposta di provincia è un casino... per cui praticamente sono passata dal Liceo Scientifico al Liceo Linguistico, a Ragioneria, al Tecnico Agrario, di nuovo in Ragioneria, e poi sono finita ad insegnare, quindici anni fa, in un Professionale.
Quando sono entrata in questa Scuola, nel ‘96, io i primi due anni li ho passati solo a piangere. Praticamente è successo così; io mi ero appena trasferita a Firenze, e a Firenze ero andata per aprire una casa dei Memores Domini (la Comunitàdi laici consacrati di CL di cui io faccio parte). Ero andata nel ‘95 ad aprire una casa in cui inizialmente eravamo in quattro e dopo tre anni eravamo diciassette (io ero quella vecchia, però avevo trent’anni, trentaquattro) è stato bellissimo, però è stata dura... allora la mia vita funzionava così: che io andavo a scuola, uscivo da casa, non potevo piangere a casa, perché era un casino, se piangevo io finivamo, e quindi mi fermavo a metà strada, nell’autogrill tra Prato e Firenze, piangevo e poi andavo a scuola. Uscita da scuola, non potendo piangere a scuola, mi fermavo nell’autogrill dalla parte opposta e piangevo... praticamente ho fatto due anni a piangere a Peretola Est e Peretola Ovest...
Perché piangevo? Perché quando sono arrivata in questa scuola io non capivo se ero arrivata in uno zoo, in cui io ero il domatore o l’assistente sociale, oppure se era ancora una scuola. Perché già sapete come è la situazione nei professionali, per di più a Prato, cioè in una città industriale, in cui c’è una forte immigrazione - prima dal Meridione adesso da paesi extra-comunitari - per cui avevo sempre classi di cui la metà sono di Prato l’altra metà extra-comunitari, ed io dovevo spiegare Leopardi o Dante ai Pakistani.
Finché, dopo due anni che stavo in questa scuola arriva un nuovo Preside. Ci conosciamo, e lui, anche sulla base di informazioni ricevute da altri (perché comunque in questa scuola io ero ritenuta una brava insegnante) mi chiama e mi dice: “senti c’è una quarta che non vuole nessuno, perché è una classe terribile, e nessuno è mai sopravvissuto. Questa classe è composta da sedici extra-comunitari e quindici italiani. Ho provato a darla via a tutti, ma non la vuole nessuno... però soprattutto io penso che lì tu puoi riuscire, perciò la prendi te”.
Io ho provato in tutti i modi a cercare di fargli capire come ero messa, ma non potevo raccontare i miei viaggi di andata e ritorno dalla scuola (perché non era molto professionale) e alla fine ho accettato. Io se penso a che cosa significa educare, penso alla domanda che mi è passata per la testa quel giorno, quando tornando indietro da scuola ed essendo più triste del solito, pensando “ma con questi non ce la farò! È stata durissima già in questi due anni con classi più normali, almeno meno numerose, come farò ora con una classe così?”. Ecco, mentre pensavo queste cose, ad un certo punto mi ha attraversato la testa una domanda: “Signore, e se fossi Tu a darmi questa situazione per la mia conversione?”.
Ecco, io penso che si educa solo se uno ha questa domanda, senza questa domanda uno insegna, ma solo con questa domanda l’insegnamento è un fenomeno educativo. Perché per educare bisogna sentire che la realtà che ti è data, che hai davanti, è la risorsa della tua speranza. Se no uno insegna ma non educa, e lo sa, tanto è che esce dalla scuola più vuoto di come è entrato, esce dal rapporto con i figli, o con gli alunni svuotato, non riempito, stanco, non rinvigorito.
La svolta è stato capire che io andavo a scuola, non per cambiare quelli che avevo davanti, ma per cambiare io. Per la mia esperienza personale, la capacità educativa è proporzionale a questa domanda su di sé. Se uno entra nel rapporto con l’altro, che sia quello che hai lì che viene al Meeting per vedere la mostra del Buon Governo, che sia un mio alunno, che sia una persona di casa mia, che sia l’estraneo che incrocio per un’ora, la capacità educativa dipende da questo: se io entro nel rapporto con l’altro sentendo che il rapporto con l’altro è l’unico modo che io ho per aver rapporto con Dio. Se dal rapporto con l’altro mi aspetto il mio cambiamento o il suo cambiamento. Questo è l’unico modo che tu hai per cambiare l’altro, perché l’altro cambia se cambi tu.
Perché l’altro deve poter seguire il tuo cambiamento. Non è che ho capito tutto questo quella mattina, ma tutto cominciò ad affacciarsi quella mattina, rispetto a questa proposta che mi aveva fatto il preside. Senza questo, o si rinuncia ad educare... io lo vedo, tantissimi insegnanti... (chi sceglie il mio mestiere è gente che almeno all’inizio ha una intenzionalità ideale, perché se no oggi farebbe dell’altro...) ... io vedo tantissimi insegnanti che entrano a scuola pieni di buone intenzioni, ma dopo un anno, due anni, tre anni non ce le hanno più e rinunciano ad educare (perché senza questa domanda si rinuncia ad educare, magari uno non se lo dice neanche, però ci rinuncia... oppure si pensa di educare perché si predica e si rimprovera che è il modo con cui, la maggior parte della gente pensa che si educa; predicare e rimproverare, come fanno i preti. Ma da questo punto di vista siamo tutti
clericali, perché la predica e il rimprovero è accusare l’altro di essere diverso da come è - che se uno fosse minimamente intelligente è ovvio - l’altro è sempre diverso da quello che tu hai in testa... Non per nulla gli insegnanti sono la categoria più lamentosa che io conosco, forse anche perché è quella che più frequento...
Quando uno al mattino entra in sala insegnanti il 90% di discorsi che sente sono lamentele. Faccio un esempio. Una collega da sette anni tutti gli anni, se non è ad Ottobre, al massimo entro Dicembre, si lamentava dicendo “la quarta di quest’anno è peggio della quarta dell’anno scorso”. Questo per sette anni consecutivi. Allora un giorno le ho detto: “Senti, se io dicessi per un anno che la quarta di quest’anno è peggio di quella dell’anno precedente per la prima volta, penserei che questo è un anno sfortunato; se lo dovessi ridire anche l’anno successivo ridirei che anche questo è un anno sfortunato. Al terzo anno che mi ritrovo a dire la stessa cosa, mi direi che io sono sfigata! Ma al quarto anno che mi ritrovo a dire questa stessa cosa la domanda se io non sono peggio dell’anno scorso me la farei”. Perché la realtà o è la risorsa della propria speranza, perciò il modo con cui Dio ti cambia, oppure è l’ostacolo alla tua felicità e tu devi sempre accusarla.
La seconda cosa che voglio dire è questa. Quell’anno lì, quando io tornai a casa e pensai “e adesso? Io devo prendere questa classe, che faccio?”, però il fatto che mi aveva attraversato la testa, quella domanda - guardate, io lo dico sempre anche alle persone a cui voglio bene - cioè se uno non sente che il figlio che ha è il figlio ideale, che l’alunno che ha è l’alunno ideale, ne fa un handicappato, perché gli rimprovera continuamente di essere diverso da quello che uno ha in testa, e questo prima avvelena la tua vita e poi rende handicappato quello che hai di fronte, perché ti dimostrerà che hai ragione, perché sempre la realtà ti dà quello che gli chiedi, perciò ti dimostra quello che tu hai già in testa. Comunque io quella mattina lì tornai a casa e pensai “devo ribaltare tutto, con questi qui io non posso più insegnare come ho sempre pensato di insegnare”. Non posso entrare in classe e dire a quei ragazzi, come ho sempre detto, “Leopardi è nato a Recanati nel 1798”, perché solo per spiegare a cinque pakistani dove è Recanati ci metto tre mesi. E come mai il fatto che sia nato a Recanati è significativo?
Perciò io non posso incominciare così, non capiscono, non gliene frega nulla, ma soprattutto mi venne la seconda intuizione geniale di quella mattina. Quando penso a questa cosa, tutt’ora penso che lì Dio mi ha fatto un dono; innanzitutto il fatto stesso di pormi questa domanda, ovvero non tanto “come faccio ad affrontare questa classe?”, ma sentire affacciarsi alla mia coscienza l’ipotesi che quella realtà che io avvertivo così contraria a me era il modo con cui Dio prendeva iniziativa con me. Però la seconda questione decisiva è stato il pomeriggio, quando mi sono chiesta “ma che gliene frega a dei pakistani di Leopardi? Perché dovrebbe studiare Leopardi?” il pormi questa seconda domanda è stato interessantissimo, perché per rispondere a questa domanda io me ne dovevo fare un altra “ma a me che me ne frega di Leopardi?” solo facendo un lavoro sul mio interesse, andando fino in fondo al mio interesse io trovavo il pakistano. Perché il pakistano non è l’altro da me, è il fondo di me.
A questo punto ho ripreso in mano tutte le mie materie dal punto di vista di questa domanda “devo fare questo, ma che gliene frega?”, poiché in questa classe, tra i quindici stranieri che avevo, che erano tutti musulmani come tradizione, il gruppo più consistente erano i pakistani, perciò persone lontanissime dalla nostra tradizione. Perché un marocchino o un algerino è comunque un mediterraneo, loro no. Allora quando sono entrata in classe per la prima volta ho esordito dicendo: “sentite, io sono la vostra insegnante di lettere”. Sfruttando il fatto che la prima ora ti stanno a sentire sempre, anzi la prima ora no, i primi dieci minuti della prima ora sì, se non altro perché sono curiosi e vogliono capire chi sei.
Non mi conoscevano sicché mi presento e dico: “sono la vostra insegnante di italiano. Mi hanno detto che in questa classe non ha resistito nessuno e io non sono così presuntuosa da pensare di essere la prima, però io ci voglio provare e vi lancio una sfida. Io adesso faccio una lezione di italiano, vi chiedo di ascoltarmi un ora, e di decidere alla fine di questa ora se vale la pena ascoltarmi tutto l’anno o no. Io mi sottopongo totalmente al vostro giudizio. Alla fine di questa ora voi deciderete... e farete quello che vorrete a partire dal giudizio che darete dopo questa ora di lezione. Io poi mi comporto di conseguenza, ho il registro e vi boccio. D’altronde ognuno si assume le sue responsabilità. Però io voglio fare questo tentativo, che ci si possa intendere. Ci state ad ascoltarmi un ora?”. I capi della classe si guardano tra loro con cenni di intesa, poi parla uno di loro e dice “un’ora” (N.B. Io avevo due ore di lezione con loro). Ho risposto: “mi basta, però quest’ora mi ascoltate veramente”.
Inizio la lezione, dicendo loro che come prima lezione devo spiegare un poeta italiano che si chiama Giacomo Leopardi. Leopardi è un poeta che ha scritto tante poesie. Normalmente queste poesie sono poesie che lui scrive in prima persona, cioè normalmente tutte le sue poesie lui le mette in bocca a se stesso. Ma c’è una poesia, una delle più suggestive delle sue poesie, che lui non mette in bocca a sé stesso. L’unica che lui mette in bocca ad un pastore delle vostre parti, un pastore pakistano. Si intitola Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
E sapete perché lui ad un certo punto ha sentito l’esigenza di mettere in bocca ad un pastore dell’Asia questa poesia? Questa poesia è un lungo dialogo del pastore con la luna, in cui il pastore fa alla luna le eterne domande dell’uomo. Chi sono? Perché sono nato? Perché soffro? Perché dovrò morire? Leopardi mette queste domande in bocca ad un pastore dell’Asia, perché è come se dicesse “guardate, c’è un livello di noi, c’è un livello in ognuno di noi, che non appartiene a me perché sono istruito, ma appartiene anche al pastore. Che non appartiene a me in quanto europeo, ma appartiene anche a te che sei dell’Asia. Che non appartiene a me perché faccio parte di una tradizione cristiana, perché appartiene anche a te che fai parte di una tradizione musulmana. C’è un livello che ci rende uomini che è senza tempo e senza spazio”.
Questo è il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia. Poi ho detto: “io adesso vi leggo questa poesia e voi dovete fare la fatica di ascoltarmi mentre la leggo. Poi alla fine io vi chiederò: ma Leopardi ha sbagliato titolo? Più umilmente doveva intitolare questa poesia Canto notturno di uno insignificante poeta italiano dell’Ottocento? Oppure il titolo è giusto? E a questa domanda non risponderà la classe, io la farò ad ognuno di voi, e ognuno di voi per rispondere dovrà paragonare le parole che io leggo con il suo cuore. Dove per “suo cuore” intendo il brivido che avete sentito magari guardando un cielo stellato, o guardando il mare, o innamorandovi per la prima volta, oppure voi del Pakistan quando siete saliti su un aereo e avete visto la vostra terra che si allontanava e una terra che si avvicinava in cui sareste stati trattati quasi come schiavi.”
Io ho letto questa poesia in un silenzio irreale. Avevo paura mentre leggevo le parole. Alla fine nessuno fiatava. Allora, io ho preso il registro e ho incominciato a chiamarli, dal più lontano al più vicino, cominciando dai pakistani, poi i latino americani, poi i rumeni, gli algerini, i marocchini... e ho incominciato a chiedere: “Mohamed, è il tuo canto notturno?”. “Sì, prof.”. “Alì, è il tuo canto notturno?”. “Sì, prof.”... trentuno sì. Allora ho detto “ragazzi non so voi, ma io stamattina ho fatto una scoperta dell’altro mondo... ho scoperto che quella cosa che ho sempre intuito, che c’è un fondo di noi che ci fa fratelli, è vera! E che noi abbiamo una prateria su cui possiamo correre. La letteratura è questa corsa, ci state a farla?”.
Lì ho capito che cosa significava insegnare. Io non avrei fatto le mostre al Meeting, se i miei alunni non mi avessero insegnato a insegnare... perché per raccontare una cosa ad un altro tu devi fare un lavoro tuo, perché devi chiederti che cosa gli interessa all’altro di quello che hai scoperto te, ma questa domanda in realtà è “che cosa veramente interessa a me? Che esperienza ho fatto veramente io?” Perché questa si comunica, mentre un discorso no.
Un discorso non si comunica mai, anche se è molto intelligente. Non si comunica. Può manipolare l’altro, ma non può comunicarsi. E così quella mattina io ho scoperto che nell’altro io ho un complice, ed è per questo che io posso educare. Io posso educare se sento che l’altro è la strada del mio cambiamento, non del suo, perché il suo è un mistero della sua libertà davanti a Dio, di cui io non posso rispondere fino in fondo. Io devo rispondere della mia libertà davanti a Lui.
Questo è il dramma dell’essere padre o dell’essere madre. Questo è il dramma dell’essere insegnante. Sono mestieri che sono dimensione di tutti i mestieri, perché anche chi lavora in banca ha lo stesso problema, perché l’educazione è una dimensione di qualsiasi lavoro, anche se nel mio è la dimensione fondamentale. L’educazione è possibile se io sento che l’altro, che io ho davanti, è una possibilità per me. Non è il terreno su cui io applico le cose che so. Ma è la possibilità che Dio mi dà per capire chi sono io.
Seconda cosa: io nell’altro ho una possibilità di dialogo perché l’altro è come me, è cuore. Ed io ho sempre un complice nell’altro, anche nel peggior delinquente. Mi ha fatto impressione quest’anno, che ho preso una classe non da ridere - questa volta però solo dodici ragazzi, sei italiani e sei no - in cui un giorno un italiano, Giovanni, il mio preferito in assoluto in questa classe... (i prof lo sanno, abbiamo sempre un preferito, il preferito è il modo con cui Dio ti permette di arrivare al non preferito, perciò è una strada molto facilitante, ed io sto sempre attenta a chi preferisco, perché mi aiuta ad arrivare anche a chi immediatamente non preferisco. In questa classe chiaramente è Giovanni, lo sanno tutti, ci portano in giro)... quando a Novembre riporto la seconda verifica di storia, Giovanni aveva preso tre.
Allora gli ho detto: “perché non hai studiato?” e lui mi dice: “perché mi fa fatica!”. Allora io gli ho detto: “non è vero! Questa è una balla”. Insorgono tutti. “No prof. Perché una balla? Mi fa fatica veramente studiare...” e io “no, non è vero, non è vero che uno non si muove per questo!” e loro insistevano tutti quanti... allora dico: “facciamo un esperimento in diretta? (io ero facilitata dal fatto che lui, la settimana prima, mi aveva confidato di aver preso una sbronza per una ragazzina di nome Silvia). Chiamo a testimone tutta la classe. Tu rispondi sinceramente alle domande che io faccio (questo è il valore del preferito; che ti risponde sinceramente). Immagina questa situazione: 13.45 suona la campanella. Accendi il telefonino. Ti chiama tua mamma e ti dice: “Giovanni mi andresti sulla Calvana (un monte sopra Prato) a cogliere dei funghi?”. Tu che fai? Risposta: gesto inequivocabile... di rifiuto. Insisto; metti che pur controvoglia tu decidi di ascoltare il quarto comandamento e inizi a salire, mentre vai su che fai? E lui “un moccolo a passo”.
Benissimo. Secondo scenario; 13 e 45, suona la campanella. Accendi il telefonino, ti chiama la Silvia: “Giovanni, sono sulla Calvana, verresti ad aiutarmi a raccogliere i funghi?”. Tu che fai? “Di corsaaaa!” ed io dico: “Giovanni ma nel primo o nel secondo caso è diversa la strada? Diversa l’energia che devi spendere per arrivare in cima alla Calvana?” e lui fa: “No!”. “E allora che cosa è diverso?”. “È che nel secondo caso èla Silvia!”
“Allora vedete, il problema della vita non è la fatica, è lo scopo. Perciò non è che tu non studi storia perché fai fatica, tu non studi storia perché non hai capito perché. Perciò invece di non studiare tu dovresti stressarti, finché non capisci il perché. Perché dopo io diventola Silvia, mentre adesso così mi tratti come la tu’ mamma!”. Insomma educare è dialogare con il cuore, ma tu dialoghi con il cuore dell’altro se dialoghi con il tuo.
Terza cosa e finisco; questa educazione che è comunicazione al cuore dell’altro avviene introducendo l’altro alla realtà, secondo una bellissima definizione di educazione, che il Giuss (don Giussani) ha dato ne “Il rischio educativo”. Perché la cosa che a me fa più impressione oggi, che vedo nei miei ragazzi come la proiezione su uno schermo gigante della stessa tentazione che sento in me, è il disprezzo della realtà, come ciò che mi precede.
Invece io come cuore mi scopro solo nel rapporto con la realtà. Perciò io se voglio aiutare i ragazzi a vivere come cuore, devo aiutarli a vivere la realtà. Qui racconto l’ultimo episodio, l’episodio in cui io di più ho capito questo.
Qualche anno fa, io avevo una quinta di tredici ragazzi, una mattina entrando dovevo spiegargli l’antisemitismo nazista. Mi ero portata dietro dei brani di Hitler da leggere in classe sugli ebrei. Mentre entravo in classe mi è venuta una idea, e prima di cominciare la lezione, ho detto loro: “sentite visto che siete così pochi (erano tutti italiani in quella classe) scrivete su un foglietto chi sono gli ebrei. Vi do cinque minuti, scrivete tutto quello che sapete.”
Ritirati i tredici foglietti pensavo di leggerli per far vedere loro il contrasto tra quello che loro sapevano e quello che aveva scritto Hitler. Sono rimasta impressionata, e con me anche loro, perché quello che loro avevano scritto era esattamente quello che aveva scritto Hitler. Loro sono rimasti esterrefatti. Fabio, il più in gamba di questi ragazzi mi dice: “prof, ma come è possibile?” e io: “già, come è possibile? Voi siete tutti di famiglie di sinistra, e siete stati tirati su in uno stato che ha fatto dell’antifascismo il suo cavallo di battaglia, avete pianto guardando “la vita è bella”, ma se io vi chiedo di scrivere chi sono gli ebrei mi dite quello che diceva Hitler. C’è qualcosa che non torna”, e loro “Che cosa è che non torna?”.
“Credo che quello che non torna è che voi non vi siete mai posti questa domanda, e ripetete semplicemente quello che altri hanno detto”. Allora Fabio dice: “e come si fa a non ripetere quello che altri dicono?”. E io dico: “sapete come si fa? Oggi quando usciamo da scuola, mangiamo un panino insieme, andiamo alla Sinagoga di Firenze, bussiamo alla Sinagoga, ci aprirà un ebreo e noi gli domanderemo: tu chi sei? E sentiremo che cosa dice lui di sé”.
Sicché siamo tutti usciti da scuola, andiamo tutti a Firenze (chiaramente avevo chiamato prima, così ci ha aperto il Rabbino della Sinagoga, bravissimo), bussiamo e chi ci ha aperto ci ha detto chi sono gli Ebrei, raccontandoci tra l’altro di sé. Il giorno dopo siamo tornati a scuola e io dico “adesso, in cinque minuti, scrivete chi sono gli ebrei”. Ho raccolto i foglietti, li ho riletti, e questa volta erano il contrario di quello che diceva Hitler.
Allora io gli ho detto: “Ragazzi, io non potrò tutta la vita accompagnarvi a bussare alla porta della realtà, ma sappiate che per diventare liberi, bisogna bussare alla porta della realtà e sentire che cosa risponde perché se no ripeterete quello che sentite alla televisione, e quello che direte non vi renderà mai liberi, perché non sarà mai vero. Mai frutto di una vostra esperienza”.
Finisco così, perché quando io sono stanca ho un difetto, chiacchiero tantissimo. Finisco dicendo in sintesi una cosa; volevo chiarire quella cosa che Carron, la guida di Comunione e Liberazione dopo la morte di Giussani, ci ha ripetuto così frequentemente, cioè che educare è comunicare sé, cioè il proprio modo di rapportarsi con la realtà, perché si comunica solo ciò che si è. Questo lo dico come una strada, per me molto semplice, per chi è padre, per chi è madre, e tutti siamo padri e madri, perché siamo tutti adulti, e un adulto è padre, se no è un adolescente. Uno è padre non perché riesce a convincere l’altro, uno è padre se è impegnato drammaticamente con il proprio io, perché questo educa.