San Filippo Neri: per imparare a conoscerlo. Lezione del Corso di Storia della Chiesa di Roma per catechisti, tenuta presso Santa Maria in Vallicella. File audio dalle relazioni di Andrea Lonardo e Maurizio Botta
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Mettiamo a disposizione il file audio dell'incontro su San Filippo Neri, tenuto da Andrea Lonardo e Maurizio Botta presso Santa Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) il 23/2/2013. Per il programma delle relazioni successive, vedi l'Homepage del sito Gli scritti. Per le relazioni precedenti vai ai link Un'introduzione alla Dei Verbum, Un'introduzione alla Sacrosanctum Concilium. Un'introduzione alla Gaudium et spes e Un'introduzione alla Lumen gentium. Per gli incontri degli anni precedenti, vedi la sezione Roma e le sue basiliche. Su San Filippo Neri, vedi anche la sezione Maestri dello Spirito.
Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2013)
Raccontando la vita di San Filippo Neri nella Sala ovale
(foto Bruno Brunelli)
Lezione a due voci su San Filippo Neri (Maurizio Botta e Andrea Lonardo)
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Visita alla chiesa di Santa Maria in Vallicella (Chiesa Nuova)
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ANTOLOGIA DI TESTI UTILIZZATA DURANTE L'INCONTRO
Ufficio catechistico di Roma www.ucroma.it (cfr. anche www.gliscritti.it )
San Filippo Neri
Prossimi incontri
C.S. Lewis, Il cristianesimo come lo vede il diavolo spiegato all’uomo
Lunedì 25 febbraio, ore 21.00, presso il Venerabile Collegio Inglese, in via di Monserrato 45. Relazione del prof. Edoardo Rialti. Seguirà una breve visita del Collegio
Corso sulla storia della Chiesa di Roma (VI anno): il Concilio di Trento e la controriforma
Sabato 23 marzo 2013 – ore 9.45-12.00
San Girolamo dei Croati a Ripetta: Il Concilio di Trento.
Sabato 11 maggio 2013 – ore 9.45-12.00
San Lorenzo in Panisperna: Il Catechismo Romano ed i Catechismi di Lutero e Calvino.
Viaggio di studi in Terra Santa, ORP, guida Andrea Lonardo, 21/30 luglio 2013
Gruppo min. 30 pax quota netta € 1490,00 + € 30,00. Supplemento netto camera singola € 350,00. Il prezzo è garantito per gli iscritti entro il 28 febbraio
- 1° giorno ROMA. Partenza in mattinata in aereo da Fiumicino per Tel Aviv. Proseguimento in pullman per Beer Sheva, visita degli scavi, ed arrivo a Mitzpe Ramon.
- 2° giorno MITZPE RAMON. Partenza per Avdat e passeggiata a piedi lungo il canyon di En Avdat. Proseguimento per Ein Ghedi e pranzo. Field School di Ein Ghedi, Qumran, In serata arrivo a Gerico, Messa e notte a Gerico.
- 3° giorno GERICO. Messa a Gerico al mattino, partenza per Deserto di Giuda, S. Giorgio in Koziba. Visita di Gerico, sicomoro, tell Gerico, Palazzo erodiano all'inizio di wadi Kelt, pranzo a Gerico, Bet Shean, cena e notte al Monte delle Beatitudini
- 4° giorno MONTE DELLE BEATITUDINI. Messa al Monte delle Beatitudini, Percorso a piedi lungo il Lago di Tiberiade. Visite Tabgha, Primato, Cafarnao. Traversata in battello. Visita di Kursi, Betsaida, Korazim e rientro al Monte delle Beatitudini.
- 5° giorno MONTE DELLE BEATITUDINI. Partenza per Nazareth (Basilica con gli scavi della Basilica ed il Museo, Grotta dell’Annunciazione, S. Giuseppe), messa presso i Piccoli Fratelli di Gesù, pranzo, nel pomeriggio Sepphoris e Cana.
- 6° giorno MONTE DELLE BEATITUDINI. Messa al mattino alle Beatitudini, visita di Tell Hazor e di Tell Dan, pranzo a Neot Mordekhay, visita di Banyas, visita del castello di Nimrod e ritorno per il Golan. Rientro al Monte delle Beatitudini.
- 7° giorno MONTE DELLE BEATITUDINI. Partenza con visita di Nain, Megiddo, Muqhraka (con messa), pranzo a Sdot Yam, visita di Cesarea, partenza per Gerusalemme (Casa Nova o, comunque, albergo in città vecchia).
- 8° giorno GERUSALEMME. Messa al Santo Sepolcro, poi in pullman al Monte degli ulivi con visita del Pater noster, del Dominus flevit, del Getsemani, pranzo a Casa Nova. Pomeriggio, visita della cattedrale di S. Giacomo, del Jerusalem Archeological Park, del quartiere ebraico e del cardo
- 9° giorno GERUSALEMME. Visita al Santo Sepolcro, Museo della Torre di David. Pranzo e pomeriggio a Betlemme, con messa
- 10° giorno GERUSALEMME. Partenza per Emmaus/Latroun con sosta negli scavi. Proseguimento per l’aeroporto di Tel Aviv e partenza in aereo per Roma Fiumicino.
Materiali disponibili
Anno della fede. La catechesi e il Concilio Vaticano II
- Sono on-line i file audio su Dei verbum , su Sacrosanctum Concilium, su Gaudium et spes, su Lumen gentium e su Blaise Pascal (su www.gliscritti.it )
- 8 lettere alle famiglie con figli da 0 a 3 anni: III parte dell'itinerario battesimale proposto dalla diocesi di Roma. Otto file in PDF pronti da stampare (sul sito)
- Credo in Dio Padre creatore onnipotente. Parlare di Genesi 1-3 nella catechesi. Testo e file audio da una catechesi di Andrea Lonardo e Il Catechismo della Chiesa Cattolica per imparare “la forza e la bellezza della fede”, di Andrea Lonardo (su www.gliscrtti.it)
- Continuano Le domande grandi dei bambini su Youtube
1/ I luoghi di S. Filippo Neri
S. Filippo nel suo apostolato prima come laico, poi come sacerdote visse ed operò in molte chiese romane.
S. Eustachio
In un appartamento nei pressi della chiesa, Filippo Neri vive, esercitando il mestiere di precettore dei due figli di Galeotto Caccia (dei quali uno diverrà prete e l'altro monaco).
SS. Trinità dei Pellegrini
Legata alla fondazione dell'Arciconfraternita dei Pellegrini e dei convalescenti, istituita da S. Filippo nel 1548 e avente finalità di accoglienza dei pellegrini, soprattutto durante gli Anni Santi, legata alla rinascita religiosa che si avverte a Roma dopo il “sacco” del 1527. La Confraternita si incaricava dell'ospitalità dei pellegrini giunti a Roma. Nobili e gentildonne, guidati da S. Filippo, prestavano la loro opera caritatevole. Questa Chiesa era tra le più antiche di Roma. Venne ricostruita nel 1603-16 dal Maggi. L'Ospizio che si apre a fianco della Chiesa venne eretto nelle forme attuali in occasione del Giubileo del 1625. In questi locali, usati come infermeria durante l'assedio del 1849, morì Mameli. Da notare due acquasantiere poste all'esterno che servivano per farsi il segno della croce prima di entrare ed uscire dall'Ospizio.
Le sette Chiese e le catacombe di San Sebastiano
Filippo vi si reca pellegrino da laico per pregare in questi luoghi
S. Giovanni in Laterano
D. Persiano Rosa, suo padre spirituale, che risiede all'epoca a S. Girolamo della Carità, lo guida a divenire sacerdote. Nella Basilica di S. Giovanni, Filippo Neri viene ordinato diacono il 29 marzo 1551.
S. Tommaso in Parione
Nella chiesa di S. Tommaso in Parione, vicino piazza Navona, Filippo viene ordinato sacerdote il 23 maggio 1551.
S. Girolamo della Carità
Dal 1551 Filippo Neri per ben trentadue anni è ospite della Chiesa di S. Girolamo della Carità. Trova infatti congeniale al suo spirito l'ordine spontaneo che regna nel convento. Accetta la vita comune del clero, vivendo nella stessa comunità in cui abita il suo padre spirituale, insieme ad altri sacerdoti. S. Girolamo della Carità nel Cinquecento è un centro poco frequentato, ma con l'arrivo di Filippo diventerà la meta più ricercata dalla popolazione, richiamata dalla sua personalità piena di fascino. A quell'epoca la Chiesa presentava un orientamento perpendicolare a quello attuale (quindi parallelo al corso del Tevere) con l'ingresso su piazza S. Caterina della Rota. Dell'edificio originale, distrutto da un incendio nel 1631 non rimane nessun reperto a causa della totale ricostruzione avvenuta durante il XVII secolo. L'interno è di Domenico Castelli, la facciata di Carlo Rainaldi. Di particolare suggestione le stanze disposte su tre piani che contengono i ricordi di S.Filippo.
S. Giovanni dei Fiorentini
S. Filippo, nel 1564, divenne rettore della Chiesa. Qui continua l’apostolato di “Pippo il buono”: accoglienza di laici e religiosi con i quali S. Filippo prega nella semplicità a lui congeniale. Fu papa Leone X a volere la chiesa Al progetto lavorarono in successione Sangallo il giovane, Baldassarre Peruzzi, Michelangelo, Borromini. La cupola viene realizzata da Carlo Maderno nel 1602 e la facciata, del 1734, è opera di Alessandro Galilei. L'interno a 3 navate, a croce latina, è riccamente decorato con affreschi legati alle tematiche del Concilio di Trento (anche se parzialmente modificati successivamente). Vi è sepolto Borromini.
S. Maria in Vallicella
Gregorio XIII affida a Filippo, nel 1575, l'antica chiesa. Essa è ridotta in rovina e per metà interrata. Scartata l'idea di restaurarla, i padri optano per la sua demolizione e ricostruzione. I lavori hanno inizio immediatamente, secondo un progetto di Matteo da Castello. La fede e la tenacia di Filippo riescono a superare le molte difficoltà e controversie. Egli afferma infatti che, secondo un suo patto con la Vergine, la chiesa sarebbe sorta prima della sua morte. Nel 1577 la chiesa è dotata di copertura lignea ed i preti possono stabilirvisi. L'interno è progettato dall'architetto Martino Longhi, con la collaborazione di Giacomo della Porta. La chiesa viene solennemente consacrata nel 1599.
L'Oratorio dei Filippini
La consapevolezza di dover affrontare il problema della formazione cristiana degli uomini del suo tempo lo aveva portato a dar vita agli incontri che chiamerà “l'oratorio”, incentrati su di una educazione alla fede cristiana, attraverso la conoscenza e la meditazione delle vite dei santi alternata ad orazioni e canti, dando a tutti i partecipanti la possibilità di intervenire e di dibattere su questioni di varia natura. L'Oratorio divenne sede della riforma musicale, avvenuta proprio in questo luogo. Lentamente, infatti, le laudi monodiche si trasformarono in composizioni a più voci (ad “Oratorio”). Il più noto compositore, amico di Filippo Neri è Giovanni Animuccia.
Gli incontri dell'oratorio avvennero nelle stesse stanze delle chiese dove Filippo abitò. L'attuale edificio viene, invece, costruito da Francesco Borromini, dopo la morte di S. Filippo, dal 1638 al 1640 e si affianca alla facciata della Chiesa di S. Maria in Vallicella, alla quale rimane subordinato per altezza e per il materiale usato (in mattoni), con elementi decorativi in travertino. La facciata con andamento leggermente concavo, vuole raffigurare l'abbraccio cordiale dei Filippini. L'interno è concepito in funzione della grande sala dell'Oratorio, dove, nelle pareti ad intonaco, vengono ripetute le tipologie esterne e con l'utilizzazione della pianta ellittica si viene a creare una nuova concezione di sala dove tutti potessero vedersi mentre pregano, cantano o parlano. Oltre a questo spazio centrale esistono altri ambienti, come la biblioteca, legati alla vita quotidiana dei Filippini. È stato sequestrato alla Chiesa nel 1870.
2/ Breve biografia di San Filippo Neri (a cura dell'Oratorio della Chiesa Nuova di Roma che custodisce il corpo del Santo)
Filippo Neri nasce a Firenze il 21 luglio 1515, e riceve il battesimo nel "bel san Giovanni" dei Fiorentini il giorno seguente, festa di S. Maria Maddalena.
La famiglia dei Neri, che aveva conosciuto in passato una certa importanza, risentiva allora delle mutate condizioni politiche e viveva in modesto stato economico. Il padre, ser Francesco, era notaio, ma l'esercizio della sua professione era ristretto ad una piccola cerchia di clienti; la madre, Lucrezia da Mosciano, proveniva da una modesta famiglia del contado, e moriva poco dopo aver dato alla luce il quarto figlio.
La famiglia si trovò affidata alle cure della nuova sposa di ser Francesco, Alessandra di Michele Lenzi, che instaurò con tutti un affettuoso rapporto, soprattutto con Filippo, il secondogenito, dotato di un bellissimo carattere, pio e gentile, vivace e lieto, il "Pippo buono" che suscitava affetto ed ammirazione tra tutti i conoscenti.
Dal padre, probabilmente, Filippo ricevette la prima istruzione, che lasciò in lui soprattutto il gusto dei libri e della lettura, una passione che lo accompagnò per tutta la vita, testimoniata dall'inventario della sua biblioteca privata, lasciata in morte alla Congregazione romana, e costituita di un notevole numero di volumi. La formazione religiosa del ragazzo ebbe nel convento dei Domenicani di San Marco un centro forte e fecondo. Si respirava, in quell'ambiente, il clima spirituale del movimento savonaroliano, e per fra Girolamo Savonarola Filippo nutrì devozione lungo tutto l'arco della vita, pur nella evidente distanza dai metodi e dalle scelte del focoso predicatore apocalittico.
Intorno ai diciotto anni, su consiglio del padre, desideroso di offrire a quel figlio delle possibilità che egli non poteva garantire, Filippo si recò da un parente, avviato commerciante e senza prole, a San Germano, l'attuale Cassino. Ma l'esperienza della mercatura durò pochissimo tempo: erano altre le aspirazioni del cuore, e non riuscirono a trattenerlo l'affetto della nuova famiglia e le prospettive di un'agiata situazione economica.
Lo troviamo infatti a Roma, a partire dal 1534. Vi si recò, probabilmente, senza un progetto preciso. Roma, la città santa delle memorie cristiane, la terra benedetta dal sangue dei martiri, ma anche allettatrice di tanti uomini con desiderio di carriera e di successo, attrasse il suo desiderio di intensa vita spirituale: Filippo vi giunse come pellegrino, e con l'animo del pellegrino penitente, del "monaco della città" per usare un'espressione oggi di moda, visse gli anni della sua giovinezza, austero e lieto al tempo stesso, tutto dedito a coltivare lo spirito.
La casa del fiorentino Galeotto Caccia, capo della Dogana, gli offrì una modesta ospitalità - una piccola camera ed un ridottissimo vitto - ricambiata da Filippo con l'incarico di precettore dei figli del Caccia. Lo studio lo attira - frequenta le lezioni di filosofia e di teologia dagli Agostiniani ed alla Sapienza - ma ben maggiore è l'attrazione della vita contemplativa che impedisce talora a Filippo persino di concentrarsi sugli argomenti delle lezioni.
La vita contemplativa che egli attua è vissuta nella libertà del laico che poteva scegliere, fuori dai recinti di un chiostro, i modi ed i luoghi della sua preghiera: Filippo predilesse le chiese solitarie, i luoghi sacri delle catacombe, memoria dei primi tempi della Chiesa apostolica, il sagrato delle chiese durante le notti silenziose. Coltivò per tutta la vita questo spirito di contemplazione, alimentato anche da fenomeni straordinari, come quello della Pentecoste del 1544, quando Filippo, nelle catacombe di san Sebastiano, durante una notte di intensa preghiera, ricevette in forma sensibile il dono dello Spirito Santo che gli dilatò il cuore infiammandolo di un fuoco che arderà nel petto del santo fino al termine dei suoi giorni.
Questa intensissima vita contemplativa si sposava nel giovane Filippo ad un'altrettanto intensa, quanto discreta nelle forme e libera nei metodi, attività di apostolato nei confronti di coloro che egli incontrava nelle piazze e per le vie di Roma, nel servizio della carità presso gli Ospedali degli incurabili, nella partecipazione alla vita di alcune confraternite, tra le quali, in modo speciale, quella della Trinità dei Pellegrini, di cui Filippo, se non il fondatore, fu sicuramente il principale artefice insieme al suo confessore P. Persiano Rosa.
A questo degnissimo sacerdote, che viveva a san Girolamo della Carità, e con il quale Filippo aveva profonde sintonie di temperamento lieto e di impostazione spirituale, il giovane, che ormai si avviava all'età adulta, aveva affidato la cura della sua anima. Ed è sotto la direzione spirituale di P. Persiano che maturò lentamente la chiamata alla vita sacerdotale. Filippo se ne sentiva indegno, ma sapeva il valore dell'obbedienza fiduciosa ad un padre spirituale che gli dava tanti esempi di santità. A trentasei anni, il 23 maggio del 1551, dopo aver ricevuto gli ordini minori, il suddiaconato ed il diaconato, nella chiesa parrocchiale di S. Tommaso in Parione, il vicegerente di Roma, Mons. Sebastiano Lunel, lo ordinava sacerdote.
Messer Filippo Neri continuò da sacerdote l'intensa vita apostolica che già lo aveva caratterizzato da laico. Andò ad abitare nella Casa di san Girolamo, sede della Confraternita della Carità, che ospitava a pigione un certo numero di sacerdoti secolari, dotati di ottimo spirito evangelico, i quali attendevano alla annessa chiesa. Qui il suo principale ministero divenne l'esercizio del confessionale, ed è proprio con i suoi penitenti che Filippo iniziò, nella semplicità della sua piccola camera, quegli incontri di meditazione, di dialogo spirituale, di preghiera, che costituiscono l'anima ed il metodo dell'Oratorio. Ben presto quella cameretta non bastò al numero crescente di amici spirituali, e Filippo ottenne da "quelli della Carità" di poterli radunare in un locale, situato sopra una nave della chiesa, prima destinato a conservare il grano che i confratelli distribuivano ai poveri.
Tra i discepoli del santo, alcuni - ricordiamo tra tutti Cesare Baronio e Francesco Maria Tarugi, i futuri cardinali - maturarono la vocazione sacerdotale, innamorati del metodo e dell'azione pastorale di P. Filippo. Nacque così, senza un progetto preordinato, la "Congregazione dell'Oratorio": la comunità dei preti che nell'Oratorio avevano non solo il centro della loro vita spirituale, ma anche il più fecondo campo di apostolato. Insieme ad altri discepoli di Filippo, nel frattempo divenuti sacerdoti, questi andarono ad abitare a San Giovanni dei Fiorentini, di cui P. Filippo aveva dovuto accettare la Rettoria per le pressioni dei suoi connazionali sostenuti dal Papa. E qui iniziò tra i discepoli di Filippo quella semplice vita famigliare, retta da poche regole essenziali, che fu la culla della futura Congregazione.
Nel 1575 Papa Gregorio XIII affidò a Filippo ed ai suoi preti la piccola e fatiscente chiesa di S. Maria in Vallicella, a due passi da S. Girolamo e da S. Giovanni dei Fiorentini, erigendo al tempo stesso con la Bolla "Copiosus in misericordia Deus" la "Congregatio presbyterorm saecularium de Oratorio nuncupanda". Filippo, che continuò a vivere nell'amata cameretta di San Girolamo fino al 1583, e che si trasferì, solo per obbedienza al Papa, nella nuova residenza dei suoi preti, si diede con tutto l'impegno a ricostruire in dimensioni grandiose ed in bellezza la piccola chiesa della Vallicella.
Qui trascorse gli ultimi dodici anni della sua vita, nell'esercizio del suo prediletto apostolato di sempre: l'incontro paterno e dolcissimo, ma al tempo stesso forte ed impegnativo, con ogni categoria di persone, nell'intento di condurre a Dio ogni anima non attraverso difficili sentieri, ma nella semplicità evangelica, nella fiduciosa certezza dell'infallibile amore divino, nella letizia dello spirito che sgorga dall'unione con Dio. Si spense nelle prime ore del 26 maggio 1595, all'età di ottant'anni, amato dai suoi e da tutta Roma di un amore carico di stima e di affezione.
La sua vita è chiaramente suddivisa in due periodi di pressoché identica durata: trentasei anni di vita laicale, quarantaquattro di vita sacerdotale. Ma Filippo Neri, fiorentino di nascita - e quanto amava ricordarlo! - e romano di adozione - tanto egli aveva adottato Roma, quanto Roma aveva adottato lui! - fu sempre quel prodigio di carità apostolica vissuta in una mirabile unione con Dio, che la Grazia divina operò in un uomo originalissimo ed affascinante.
"Apostolo di Roma" lo definirono immediatamente i Pontefici ed il popolo Romano, attribuendogli il titolo riservato a Pietro e Paolo, titolo che Roma non diede a nessun altro dei pur grandissimi santi che, contemporaneamente a Filippo, aveva vissuto ed operato tra le mura della Città Eterna. Il cuore di Padre Filippo, ardente del fuoco dello Spirito, cessava di battere in terra in quella bella notte estiva, ma lasciava in eredità alla sua Congregazione ed alla Chiesa intera il dono di una vita a cui la Chiesa non cessa di guardare con gioioso stupore. Ne è forte testimonianza anche il Magistero del Santo Padre Giovanni Paolo II che in varie occasioni ha lumeggiato la figura di san Filippo Neri e lo ha citato, unico dei santi che compaiano esplicitamente con il loro nome, nella Bolla di indizione del Grande Giubileo del 2000.
3/ Vita laicale e poi sacerdotale
- la presentazione della vita laicale manca nelle fiction su San Filippo (con la scusa che l’attore deve essere lo stesso!)
da San Filippo Neri. «State buoni se potete», di Paolo Mattei
Giungeva pellegrino a Roma, per essere libero di stare vicino alle memorie apostoliche e dei martiri, pure quelle semiabbandonate all’impeto di una natura inaddomesticata.
Una volta arrivato, si stabilì a Sant’Eustachio, nei pressi del Pantheon, in casa di un concittadino, ai figlioli del quale «faceva dei latini», dava cioè ripetizioni di grammatica, per guadagnarsi il pane e l’alloggio. Per il resto della giornata «stavasene egli quanto poteva il più solitario, e senza compagnia d’altrui», fuori casa, «per le sue divozioni», scrive uno dei suoi primi biografi, l’oratoriano Antonio Gallonio. Filippo visitava le Sette Chiese e, specialmente di notte, le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano, a quel tempo deserte e malsicure pure di giorno.
Naturalmente, la solitudine del giovane Filippo non era così radicale come certi aforismi biografici tendono a disegnarla: divenne infatti subito amico dei domenicani del convento e della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, nel cui coro recitava il mattutino e la compieta; fu compagno dei gesuiti nel terribile inverno del 1538-39, e con loro girò per la città a raccogliere infermi e poveri vessati dalla fame.
Alla fine degli anni Quaranta del secolo praticava il quartiere dei Banchi, poco lontano da Ponte Sant’Angelo, dove era diventato amico dei cassieri e dei ragazzi commessi nei fondachi, ai quali, con la sua bella allegria, spesso ripeteva: «Beh, fratelli, quando volemo cominciare a far bene?». E sempre in quel periodo andava a pregare nella chiesetta di San Salvatore in Campo, alla Regola, dove fondò, insieme ad altri, la Compagnia della Santissima Trinità, per l’assistenza ai pellegrini che si sarebbero riversati nell’Urbe nell’imminente anno giubilare del 1550.
In quella Compagnia incontrò padre Persiano Rosa, cappellano della chiesa di San Girolamo della Carità, vicino a piazza Farnese, che divenne il suo confessore. E a San Girolamo incominciò a ritrovarsi abbastanza regolarmente con quei compagni - giovani apprendisti e impiegati nei banchi, ma anche gente semplice, figli di artigiani e bottegai, notai e miniatori - che gli si erano stretti attorno, contagiati dalla sua allegria cristiana. Era quella la «prima sementa dell’Oratorio», come la definì il Gallonio.
[...]
Filippo divenne prete il 23 maggio 1551. Gallonio racconta che da quel giorno iniziò a trovarsi «ad ogn’hora... al confessionario, scendendo ogni mattina all’alba nella chiesa, dove lungamente dimorando udiva con allegrezza quanti a lui venivano».
A San Girolamo continuava con i suoi amici il dialogo semplicissimo, fatto, scrive Rita Delcroix (Filippo Neri, il santo dell’allegria, Roma 1989), di «domande e risposte sulla fede, sulla bellezza e la virtù e concluso con una spiegazione e un’esortazione, che Filippo compiva fraternamente, pianamente. Si usciva poi insieme per le strade di Roma...».
Filippo trascorreva tempo con i suoi ragazzi. Stava con loro. Qualcuno però si lamentava della “troppa allegrezza” dei suoi giovani. E lui tranquillamente diceva: «Lasciateli, miei cari, brontolare quanto vogliono. Voi seguitate il fatto vostro. State allegramente: non voglio scrupoli, né malinconie; mi basta che non facciate peccati». E quando doveva calmarli un po’ diceva loro: «State buoni... se potete».
Arrivava anche a mendicare per le strade e alle porte dei più sontuosi palazzi per testimoniare l’umiltà ai suoi amici. Un giorno, un signore, infastidito dalle sue richieste, gli diede uno schiaffo. Filippo non si scompose: «Questo è per me» disse sorridendogli «e ve ne ringrazio. Ora datemi qualcosa per i miei ragazzi».
Il 1564 fu l’anno in cui al riluttante “Pippo buono” venne “imposta” dal suo amico cardinale Carlo Borromeo la rettoria di San Giovanni dei Fiorentini, in via Giulia, quasi sulle sponde del Tevere. Là il santo destinò alcuni suoi seguaci diventati preti in quegli anni. Lui però se ne restò a San Girolamo.
Poi, il 15 luglio 1575, Gregorio XIII, con la bolla Copiosus in misericordia, concedeva al «diletto figlio Filippo Neri, prete fiorentino e preposito di alcuni preti e chierici», la chiesetta parrocchiale di Santa Maria in Vallicella, nel rione Parione, dedicata alla Natività di Maria, ed erigeva canonicamente «una Congregazione di preti e chierici secolari da chiamarsi dell’Oratorio».
In quello stesso 1575 si iniziò la ricostruzione della chiesetta. Filippo, che non voleva assolutamente spostarsi, lasciò San Girolamo per questa nuova dimora solo nel 1583. Louis Bouyer (La musica di Dio. San Filippo Neri, Milano 1980) racconta che «ci volle l’intervento personale del Papa per spingerlo a lasciare il suo vecchio San Girolamo e a trasferirsi con la Congregazione che lo proclamava suo unico superiore. Se si riuscì a forzargli la mano, egli si rifarà organizzando una splendida mascherata. I discepoli più fedeli dovettero attraversare la città sotto i lazzi di tutti, ciascuno trasportando con gran cura un pezzo della miserabile mobilia di Filippo».
dalla vita di San Filippo Neri del Bacci
Si contentò che lo chiamassero Padre; gustandogli questo nome, perché piuttosto suona amore, che superiorità.
- l’oratoriano deve morire su uno di questi tre legni: l’altare, il confessionale, la sedia dell’oratorio
da Antonio Cistellini, “San Filippo Neri” l’Oratorio e la congregazione oratoriana
Diversamente da quanto si è potuto credere, l’Oratorio si configurò fin da principio, e sempre più in seguito, come un’istituzione per adulti, o quanto meno per giovani uomini non più adolescenti. Basta osservare, per convincersi, quello che si leggeva all’Oratorio, i discorsi che si tenevano, gli argomenti dei sermoni. E anche i padri della Congregazione, impiegati come per loro primo compito all’Oratorio, rivolgeranno le loro attività indistintamente ad ogni categoria di persone di tutte le età.
da Antonio Cistellini
“Egli indirizzava, sì, i suoi all’azione caritativa, e la visita agli ospedali rimarrà una pratica sempre in osservanza, fra i sodali laici dell’Oratorio; tuttavia l’esercizio delle opere di misericordia corporale non viene considerato come un diretto obiettivo della sua istituzione, bensì come una necessaria conseguenza di una coerente professione cristiana”.
- ancora la questione delle opere di misericordia spirituale
4/ Sull'amore a Cristo e a Dio
Diceva spesso che non si cercasse altro che Christo, dicendo spesso: Chi vuol altro che Christo non sa quel che vole, e chi vuole altro che Christo non sa quel che domanda. Diceva ancora: Vanitas vanitatum et omnia vanitas, se non Christo (ricordo n. 45 del Maffa)
Di più diceva che era tanto utile e necessario questo staccamento dalle cose terrene per servire a Dio, che se havesse avuto diece persone veramente staccate e che non volessero altro che Christo, gli bastava l'animo di convertir tutto il mondo (ricordo n. 49 del Maffa)
Se l'anima ha da Dio l'esser perfetto,
sendo, com'è, creata in un istante,
e con mezzo di cagion cotante
come vincer la dee mortal oggetto?
Là 've speme, desio, gaudio e dispetto
la fanno tanto da se stessa errante,
sì che non veggia, e l'ha pur sempre innante,
chi bear la potria sol con l'aspetto.
Come ponno le parti esser rubelle
ala parte miglior, né consentire?
e quella servir dee, comandar quella?
Qual prigion la ritien, ch'indi partire
non possa, e alfin col pie' calcar le stelle;
e viver sempre in Dio, e a sé morire?
5/ Sulla grazia
Signore, non aspettar da me se non male e peccati; Signore, non ti fidar di me, perché cadrò al certo, se non m'aiuti (ricordo n. 42 del Maffa)
6/ Sulla preghiera e il padre spirituale
…diceva che non ci era cosa che il demonio havesse più a male quanto l'oratione (ricordo n. 74 del Maffa)
Diceva anche che non bisognava mai fidarsi di se stesso, ma consigliarsi sempre con il padre spirituale e raccomandarsi all'oration di tutti (ricordo n. 85 del Maffa)
Diceva poi a tutti quelli che desideravano la salute dell'anima loro che avanti si eleggessero un confessore ci pensassero bene, ma poi che l'havessero preso non lo lasciassero mai e gl'havessero grandissima fede, conferendogli ogni minima cosa, perché il Signore non lo lascerà mai errare in cosa che fusse per la salute dell'anima loro (ricordo n. 109 del Maffa)
Diceva ancora che non si domandasse mai al Signore una gratia assolutamente, come la sanità o altra simil cosa, ma sempre con conditione se gli piace o se è per il meglio (ricordo n. 36 del Maffa)
7/ Sulle virtù e i vizi
Essortava tutti spessissime volte con infocati raggionamenti alla virtù della castità, dicendoli: Si guardino li giovani dalla carne e li vecchi dall'avaritia (ricordo n. 64 del Maffa)
- la presenza del Maligno
8/ Sull'amore ai fratelli
Per questo diceva spesso che il lasciare i suoi gusti per aiuto del prossimo, cioè spirituali, era atto di gran perfezione et era lasciar Christo per Christo (ricordo n. 53 del Maffa)
Soleva dire alle persone che andavano a servir gli infermi degli hospedali o a far altra simil opera di charità che non bastava far il servitio semplicemente a quello infermo, ma che bisognava, per farlo con maggior charità, imaginarsi che quello infermo fosse Christo e tener per certo che quello che faceva a quell'infermo lo faceva all'istesso Christo e così si faceva con amore e maggior profitto dell'anima (ricordo n. 40 del Maffa)
…diceva che per essere perfetto non basta a obedire et honorare i superiori, ma bisognava honorare gli uguali et inferiori (ricordo n. 24 del Maffa)
9/ Sull'equilibrio umano
Et per instruir meglio i suoi figlioli spirituali nello stato della discrezione, dicea che non bisognava fare ogni cosa in un giorno, et che non si diventa santo in quattro dì, ma a poco a poco, di grado in grado. (ricordo n. 14 del Maffa)
Essortava ancora a fugire ogni sorta di singularità e voler mostrare di essere e fare di più degli altri, e per questo diceva spesso che non gli piacevano queste estasi o ratti in pubblico, come cosa pericolosissima, e che chi vole volare senza ale bisogna pigliarlo per i piedi e tirarlo in basso. (ricordo n.25 del Maffa) Come lei sa la poesia è faticosa alla testa e per conseguenza non può partorire sanità, generando humore malenconico et altri mali quali detto Padre dice havere cognosciuto in molti che hanno atteso a simile esercitio… (parole riportate da p.Fedeli, portavoce di S.Filippo Neri presso Giovenale Ancina, convalescente da una grave malattia)
Io Filippo Neri sopraintendente affermo non solo quanto di sopra, ma è molto più bisognerà crescere nelle spese, accrescendo il popolo e la divotione (lettera nell'Archivio di S.Giovanni dei Fiorentini con cui Filippo chiede più soldi alla “nazione fiorentina”).
E' proverbiale l' episodio nel quale una madre porta a S.Filippo Neri la figlia che afferma di vedere i santi e la Madonna; S.Filippo la guarda negli occhi ed esclama: “Che si sposi!”
Non giudico atto a questo offitio il p.Giovanni Francesco Bordini, quale, se bene ha di molte belle parti e virtù, che ne deve rendere gratie a Nostro Signore Iddio, l'ho trovato sempre duro et di proprio parere, monstratolo in particolare nel volere vencere di comprare le case delle monache contro mio volere et senza necessità; il che, oltra al havere comprato case vecchie et muraglie fracide…
(inoltre a S.Giovanni dei Fiorentini) si stava colle porte aperte, de sorte che la chiesa era impraticabile et a forestireri et a noi di casa, pel freddo grande et vento che entrava per tutto. Si che, non havendo imparato, tra l'altre virtù ch'ha, d'obedire et de credere troppo al suo parere et giudicio, non è atto a comandare né governare…
Né meno reputo atto a questo governo il p.Antonio Talpa, che anco egli è troppo affetionato alle sue opinioni, senza cedere all'altrui quantunche migliore siano: come mostrò per voler fare un disegno de cavar acqua, quando si incomenzò a fabricare, nel che nacque et spesa et inconvenienti in casa… (dalle Disposizioni del 1585, quando era stata da poco annessa l'Abbazia di S.Giovanni in Venere e si stava per aprire la filiale di Napoli)
10/ Sulla gioia
Voleva ancora che le persone stesser alegre dicendo che non gli piaceva che stessero pensose e malinconiche, perché faceva danno allo spirito, e per questo sempre esso beato Padre, ancora nelle se gravissime infermità, era di viso gioviale et allegrissimo, et che era più facile a guidare per la via dello spirito le persone alegre che le malinconiche (ricordo n. 33 del Maffa)
Non gli piacevano gli scrupoli, come cose che inquietano assai la conscientia, et per questo molte volte da chi gli voleva dire in confessione, non voleva sentirle (ricordo n. 35 del Maffa)
Raccomandava a tutti la quiete della conscientia e per questo a un certo suo proposito disse una volta che quando la persona volesse fare qualche voto cercasse di farlo condizionato: se potrò, se mi si ricorderà, o in altro simil modo (ricordo n. 34 del Maffa)
Diceva ancora che doppo le tentationi non bisognava starvi a discorrere se la persona haveva consentito o no, perché molte volte per simili pensieri solevano tornare le medesime tentazioni (ricordo n. 91 del Maffa)
Amo, e non posso non amarvi, quando
resto cotanto vinto dal desio
che 'l mio nel vostro, e 'l vostro amor nel mio;
anzi ch'io 'n voi, voi 'n me ci andiam cangiando.
E tempo ben saria veder il quando
ch'alfin io esca d'esto carcer rio,
di così folle e così cieco oblio,
dov'io mi trovo, e di me stesso in bando.
Ride la terra e 'l cielo e l'ora e i rami,
stan quieti i venti, e son tranquille l'onde,
e 'l sol mai si lucente non apparse.
Cantan gli augelli: Chi dunc'è che non ami
e non gioisca? Io sol, che non risponde
la gioia alle mie forze inferme e scarse.
11/ Sull'umiltà
Diceva ancora che per arrivare alla perfettione della vita spirituale e per acquistare perfettamente il dono dell'humiltà sono necessarie quattro cose, cioè: spernere mundum, spernere nullum, spernere se ipsum, spernere se sperni (ricordo n. 3 del Maffa)
12/ Sull'aridità
Diceva ancora che le persone spirituali dovevano esser designate tanto a sentire i gusti di Dio come a stare in aridità di spirito et della devotione tutto quello tempo che piace a Dio, non si lamentando mai di cosa alcuna (ricordo n. 139 del Maffa)
13/ Sulle sofferenze altrui
Avvertiva ancora che quando una persona andava a visitare un infermo non facessi del profeta con dire che l'infermo morirebbe overo non morirebbe, perché diceva che vi erano state persone che havevano detto che un infermo sarebbe morto, e poi quando guariva gli rincresceva che fusse guarito perché la profezia non era riuscita (ricordo n. 107 del Maffa)
Diceva anche che quando si andava a raccomandar l'anima di alcun moriente che un bonissimo aiuto era a pregar per quell'anima e che bisognava dile poche parole et di raro (ricordo n. 139 del Maffa)
14/ Sul rapporto con i Papi
Il signor Cardinale si fermò poi sino a doi hore di notte, e disse tanto bene di vostra Santità, più di quello che mi pareva, essendo ella Papa, dovrebbe essere l'istessa humiltà. Christo, a sett'hore di notte, si venne a incorporare con me, e vostra Santità guarda che la venisse, pur una volta nella nostra chiesa. Christo è huomo et è Dio, e mi viene, ogni volta che io voglio, a visitare; e vostra Santità è huomo puro, nato d'un huomo santo e da bene; esso nato da Dio Padre. Vostra Santità nato dalla signora Agnesina, santissima donna; ma esso nato dalla Vergine delle Vergini. Harei che dire, se volessi secondare la collera che ho. (dalla lettera che Filippo malato scrisse negli ultimi anni al Papa Clemente VIII, rimproverandolo di non essere ancora venuto a trovarlo; il Papa, suo carissimo amico, mandò a rispondere, fra l'altro: “Del non essere venuta a vederla, dice che Vostra Reverentia non lo merita, poiché non ha voluto accettare il cardinalato, tante volte offertoli… Et quando Nostro Signore la viene a vedere, lo preghi per lui et per i bisogni urgenti della Christianità”)
15/ Sui sacerdoti
Consigliava alli sacerdoti, massime che vivono in comune, che cercassero in quanto fusse possibile di non haver niente in particolare in sacrestia e gli diceva che non havessero mai hora particolare, né altare, né altra cosa, ma che dicessero la messa quando erano chiamati e dove erano mandati (ricordo n. 106 del Maffa)
16/ Il rapporto con Roma. Stabilitas loci ed apostolato rivolto all’intera città, non ad un solo quartiere
Filippo Neri prete romano, di Antonio Cistellini, da Memorie Oratoriane del dicembre 2000, n. 20, pp. 17-22
Filippo Neri si spense placidamente alla Vallicella, circondato dalla corona dei suoi come un antico patriarca, alle prime ore del 26 maggio 1595. Già da vivo era stato venerato, e non solo a Roma, come un santo; alla sua morte fu il popolo, insieme con personalità di primo piano, a proclamarne la santità.
Subito ecclesiastici autorevoli ottennero dal papa, Clemente VIII, che si avviasse il processo di canonizzazione. La deposizione dei testi si incominciò a raccogliere il 2 agosto e proseguì fino al 1601. Dopo una sosta di tre anni e mezzo, dovuta a vari motivi, durante la quale uscì la prima biografia del padre (1600 e 1601) a opera del p. Antonio Gallonio che si giovò molto delle già copiose testimonianze, l’attività processuale fu ripresa nel 1606, e vi ebbe anche merito, per buone ragioni, l’ambasciatore di Francia Carlo duca di Nevers.
Fu allora che il popolo romano si inserì ufficialmente in questa impresa. Il martedì 10 febbraio 1609, il magistrato del popolo romano in Campidoglio, in seduta segreta, deliberò di abbracciare la causa della canonizzazione, deputando quattro consiglieri ad occuparsene direttamente. (Ci furono 20 voti contrari su 125 consiglieri). Il giovedì 12 febbraio, in seduta pubblica - in un ambiente «pienissimo di nobiltà quanto mai sia stato» - fu confermata a gran voce la delibera.
Non solo, ma si stabilì che per la festa anniversaria il Comune offrisse un omaggio alla chiesa di S. Maria in Vallicella di un calice d’argento di 30 scudi con quattro torce: ciò che fu fatto quell'anno stesso il 26 maggio: rito che si continua tuttora.
Con tutto ciò il processo canonico, che sembrava sempre vicino alla felice sua conclusione, per varie e complesse vicende andò poi a rilento con altre incresciose interruzioni. Si giunse al 25 maggio 1615, quando Paolo V dichiarò Filippo beato e autorizzò a celebrarne l’ufficiatura. Ma soltanto cinque anni dopo, sotto il successore Gregorio XV; il 12 marzo 1622 il fiorentino-romano Filippo Neri fu proclamato santo. (Ma ancora, fino alla fine, a stento e fatica, sembra: pare che, fra l’altro, a ostacolarne l'esito abbiano concorso autorevoli esponenti spagnoli, sempre memori dell'intervento decisivo di Filippo nell’assoluzione di Enrico di Navarra, che solo alla fine si rassegnarono a veder aggiunto l'umile prete secolare della Vallicella ai quattro canonizzandi spagnoli: S. Ignazio, S. Francesco Saverio, S. Teresa, S. Isidoro).
Indicibile l’esplosione di giubilo di tutta Roma alla canonizzazione di padre Filippo, allora più che mai sentito santo romano. (Si diceva dalle malelingue che erano stati canonizzati quattro spagnoli e un santo!).
Abbondano le narrazioni particolareggiate delle interminabili festose celebrazioni che si svolsero in quei giorni in Roma, dopo S. Pietro, a S. Maria in Vallicella, a S. Giovanni de’ Fiorentini, a S. Girolamo della Carità e altrove, con processioni dietro ai variopinti stendardi, panegirici, musiche, spari e girandole.
Il fiorentino Filippo Neri era dunque davvero santo romano? La traduzione della giustamente celebrata biografia del santo dei francesi L. Ponnelle e L. Bordet (pubblicata in Francia nel 1928-29), uscita in Italia nel 1931, recava la bella prefazione di Giovanni Papini, nella quale si moveva agli autori dell'opera un solo appunto: quello di non aver abbastanza lumeggiato la «fiorentinità» di Filippo. Ne sorse una disputa curiosa, nella quale, fra altri, alzò la voce il compianto filippino p. Carlo Gasbarri con una sua biografia, intitolata appunto, polemicamente, «Filippo Neri santo romano». Che cosa dirà di tale disputa campanilistica, curiosa e forse alquanto oziosa e oggi di scarso interesse?
E certamente vero che Filippo, non solo era fiorentino (da quattro generazioni la famiglia era scesa da Castelfranco di Sopra nel Valdarno), e lui stesso gradiva che gli altri sapessero «che e’ lo fusse», ma da quando, nel 1534, era giunto a Roma, in veste di pellegrino, l’Urbe fu la sua patria. Anche se una indicazione precisa della sua vocazione gli verrà data più tardi, fin da principio egli è soprattutto affascinato e conquistato dagli aspetti sacri di Roma: sono le chiese, che egli visita continuamente (proseguendo la pratica di Firenze), le catacombe - quella di S. Sebastiano, la sola accessibile allora -, le memorie dei martiri, i riti religiosi.
Ma c’è un episodio che lo fa decidere a fissarsi per sempre in Roma, per una vocazione tutta sua singolare. Fu qualche anno dopo la sua ordinazione sacerdotale (1551) e l’avvio dell’Oratorio da S. Girolamo della Carità, che, alla lettura all'Oratorio delle lettere dei primi evangelizzatori del nuovo mondo (di S. Francesco Saverio particolarmente, che si disse lo abbia conosciuto poco dopo giunto in Roma), prese a interrogarsi se non poteva anch’egli esser chiamato a quella straordinaria impresa.
Con un gruppetto dei suoi figli spirituali, fra i quali emergeva fervido Francesco Maria Tarugi, si recò per consiglio a S. Paolo da un religioso che lo indirizzò all'abbazia delle Tre Fontane da un monaco fiorentino di santa vita, il cistercense Vincenzo Ghettini. Questi, dopo aver preso tempo, alla fine gli dichiarò con estrema sicurezza che le sue Indie erano Roma! Sarebbe stato l’apostolo di Roma.
Questa eccezionale qualifica - apostoli di Roma da sempre designati i santi Pietro e Paolo - ora, ricorrendo il quarto centenario del suo pio transito, è stata solennemente riconfermata dal pontefice nella lettera commemorativa del 7 ottobre 1994: «Qualificato come il santo della gioia per antonomasia, S. Filippo dev’essere pure riconosciuto come "l’apostolo di Roma", anzi come il "riformatore della città eterna". Lo divenne quasi per naturale evoluzione e maturazione delle scelte operate sotto l'illuminazione della Grazia. Egli fu veramente la "luce" e il "sale" di Roma, secondo la parola del vangelo (Mt 5,13-16). Seppe esser luce in quella civiltà certamente splendida, ma spesso soltanto per le luci oblique e radenti del paganesimo. In tale contesto sociale Filippo rimase ossequiente all’autorità, devotissimo al deposito della verità, intrepido nell’annunzio del messaggio cristiano. Così fu la sorgente di luce per tutti».
«Filippo - osservava un grande filippino, il p. Guglielmo Faber, fondatore dell’oratorio di Londra - venne in Roma in uno dei momenti più gravi della chiesa. La capitale contava molti santi ma era anche piena di corruzione. Egli era il più quieto uomo nell’ardua opera sua che mai si fosse veduti; nondimeno, per così esprimermi, magnetizzava l’intera città. Quando cessò di vivere la lasciò tutt’altra di quello che era stata, anzi con l’impronta del suo spirito e del suo genio, tanto in essa profondi, che fu nominata città sua, ed egli apostolo di Roma».
Un genere di apostolato, che fu di riforma, tutto di suo genio, contemporaneo a quello di grandi personalità, coevo e prosecutivo del concilio, ma assai singolare, e ripetiamo, circoscritto al perimetro dell’Urbe. Esso avrà la sua lucida espressione nella sua azione ministeriale (nel confessionale, alla cattedra della parola di Dio, all' altare), concentrata nell' oratorio. E cioè: colloqui cuore a cuore, commenti di letture, sermoncini in stile familiare, illustrazione di storia della Chiesa e di vita di santi, dialoghi intervallati da laudi, canzoncine sacre, e poi passeggiate per colli e per chiese.
L’oratorio, sbocciato da lui nella casa ospitale di S. Girolamo, attirerà sempre più gente d’ogni sorta e condizione: finirà per diventare una delle meraviglie di Roma del tempo, addirittura! E la congregazione dell’oratorio poi, sorta accanto a Filippo fra i più intimi discepoli - a S.Giovanni de’ Fiorentini, poi alla Vallicella - costituirà con quello il cenacolo filippino, rappresentazione suggestiva della primitiva comunità gerosolimitana nella chiesa nascente. Appunto come la intesero, con Filippo, fin dal principio, il Baronio, i primi memorialisti e giù fino al Faber e al Newman.
A Filippo diventano così familiari tutte le strade di Roma: le conosce tutte e le pratica spesso, di solito col gruppetto dei suoi più vicini, di giovani soprattutto. Tenuto conto, che al dire del Montaigne (che fu a Roma giusto in quegli anni, 1580-81), «l’occupazione dei romani consiste nell’andare a spasso per le vie; di solito quando si accingono a uscire lo fanno solo per andare di strada in strada, non perché abbiano una meta dove fermarsi».
La gente che egli accosta e che lo avvicina - di solito, per non staccarsene più - appartiene alle più svariate categorie: un mondo variopinto, di artigiani giovani di bottega, professionisti, musici, artisti, uomini dell’aristocrazia e cortigiani: poi su ecclesiastici insigni, cardinali, fino al pontefice, che gli concede dimestichezza e riverenza. La Roma del suo tempo, che in certo modo è sua, è meravigliosamente rappresentata nei resoconti del lungo processo canonico (una ventina d'anni), verbalizzati e stilati con immediata vivacità e fedeltà.
[...] L’orizzonte di Filippo e dei suoi è soltanto quello di Roma, e questo è il campo che essi si sentono impegnati a coltivare, consapevoli che i frutti ridonderanno in vantaggio della chiesa universale.
Una volta soltanto Filippo è ispirato ad allargare la sua visuale: nel momento drammatico riguardante l’invocata assoluzione di Enrico di Navarra (Enrico IV); dall’uccisione di Enrico III (1589) al 1593, al 1595. Questo suo eccezionale intervento ebbe luogo dietro impulso e incitamento di due suoi amici e figli spirituali, il cardinale Alessandro de’ Medici e il cardinale Gianfrancesco Morosini.
L’azione persuasiva presso il papa di padre Filippo (che, per suggerimento del card. Medici, già nunzio e legato in Francia durante le tragiche vicende, non rifiuta di introdursi perfino nella camera dove il papa è dolorante per la gotta) è subito da lui intesa per il bene dell’intera cattolicità. L’assoluzione verrà nel settembre 1595, con la bolla stesa dal card. Silvio Antoniano (un altro figlio spirituale di Filippo) e sarà davvero un gesto di immensa portata: salvezza della Francia dalla minaccia calvinista e dalle bramose spire della Spagna regalista di Filippo II.
All’infuori di questo episodio, non si sa che Filippo abbia guardato al di là di Roma nel suo ministero. Egli, per usare ancora l’asserzione del papa, è stato adottato da Roma; ma Roma pure è stata da lui adottata.
Filippo rimaneva in Roma quasi come oggetto di particolare attrazione, di incommensurabile affetto (il card. de’ Medici, che già diceva di trovare il paradiso nella stanzetta del padre, appena morto lui scriveva a G.B. Strozzi a Firenze che ormai, dopo la scomparsa di Filippo, nulla più lo confortava per rimanere in Roma).
E quanto Roma deve a Filippo, per tante cose belle e buone che egli le donò, che varrebbe la pena di inventariare e di cui tenere religiosa memoria! A cominciare, per esempio, dal rinnovato interesse per la chiesa antica, di cui affidò lo studio a Cesare Baronio, per l’archeologia cristiana, soprattutto per le catacombe. I nomi di Giovanni Severani, Antonio Bosio, di Paolo Aringhi, appartengono al vivaio culturale religioso della Vallicella, dove padre Filippo è ispiratore e maestro.
Mi basti qui soffermarmi su un dono tipicamente filippino, che peraltro adorna anche gli altri. La prima edizione della celebre biografia filippina di Luigi Ponnelle e Luigi Bordet, uscita nel 1928-29, recava una bellissima prefazione del card. Alfredo Baudrillard, nella quale l’illustre porporato oratoriano si rallegrava per quella pubblicazione che riteneva provvidenziale nell’immettere fra le correnti spirituali francesi, ancora alquanto immusonite e stagnanti relitti giansenistici, una ventata di fresca e gioiosa e ilare autenticità cristiana attraverso la figura incomparabile del fiorentino-romano Filippo Neri. Questa corrente di gioiosa interpretazione del vivere cristiano, Filippo la profuse in Roma fin da principio e per tanti anni. Philippus sive de christiana laetitia (Valier 1591) è un’equazione nota e ripetuta, che si deve anzitutto comporre nel suo preciso quadro storico, cioè nel tempo della cosiddetta «controriforma» e in quel contesto di severi provvedimenti, di austeri indirizzi di gravi personaggi.
Espressione viva di tale nota gioiosa che caratterizza l’apostolato filippino sarà la musica corale e monodica da principio, che resta una componente non trascurabile della pratica oratoriana filippina. La lauda, che scandisce il succedersi dei sermoni e della preghiera, recava un’antica origine fiorentina, savonaroliana: mentre, al dire del Razzi, nella sua patria era in decadenza, Filippo l’introdusse in Roma e la fece rifiorire fino, più tardi, a farla maturare in oratorio musicale.
La figura di Filippo si staglia, vigorosa e singolare, in quel clima revisionista e riformista dell’età post-tridentina, ma, è necessario rilevarlo ancora, i suoi occhi e il suo cuore restano sempre circoscritti all' orizzonte romano. Facile il confronto, specie con i gesuiti, che progettano un’azione planetaria. Tutt’altro indirizzo quello di Filippo. Ad alcuni dei suoi che, fin da principio, ambivano di emularli progettando missioni e fondazioni, egli si oppone con una sua bella massima che è insieme un assioma: «Chi fa il bene in Roma fa bene in tutto il mondo». E un pensiero denso di significati, e la storia l’ha convalidato più volte. Ma è pure un monito, anche per quelli che vivono e operano oggi in Roma: «Chi fa bene in Roma fa bene in tutto il mondo».
dalle "Lettere" a sant'Ignazio di san Francesco Saverio, sacerdote (Lett. 20 ott. 1542, 15 gennaio 1544; Epist. S. Francisci Xaverii aliaque eius scripta, ed. G. Schurhammer I Wicki, t. I, Mon. Hist. Soc. Iesu, vol. 67, Romae, 1944, pp. 147-148; 166-167)
Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti [nella parte meridionale dell'India nella zona della costa della Pescheria], che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient'altro se non che sono cristiani. Non c'è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l'Ave ed i Comandamenti della legge divina. Da quando dunque arrivai qui non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l'hanno ancora ricevuto. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali, come si dice, non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciano né dire l'Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non ho loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il regno dei cieli. Perciò, non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l'Ave Maria. Mi sono accorto che sono molto intelligenti e, se ci fosse qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che diventerebbero ottimi cristiani. Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d'Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all'inferno! Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti! In verità moltissimi di costoro, turbati da questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore: "Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?" (At 9, 6 volg.). Mandami dove vuoi, magari anche in India.
17/ La presentazione della storia della Chiesa, come via pastorale
- Cesare Baronio (è il Pierotto di Preferisco il Paradiso... cfr. anche il racconto delle storie dei Santi in State buoni se potete)
Cesare Baronio e la storia vista dall'Oratorio. È Filippo Neri il padre degli "Annales", di Edoardo Aldo Cerrato
Che cosa indusse san Filippo Neri a orientare allo studio della storia della Chiesa il giovane sorano Cesare Baronio, giunto a Roma da Napoli nell'ottobre del 1577 per continuare gli studi di Legge?
Nella deposizione al processo di canonizzazione di padre Filippo, richiamando gli inizi della sua esperienza all'Oratorio, il Baronio attesta: "Mi comandò ch'io parlassi dell'istoria ecclesiastica; replicando io che non era secondo il mio gusto, ma che ero più presto a trattare cose dello spirito (...) agramente mi insisté; il che mi ha dato a pensare che il Padre, illuminato dallo Spirito Santo, volesse che tal fatica, alla Chiesa di Dio utile, si facesse (...) e facendomi parlare di questo per trent'anni nell'Oratorio, senza per così dire avvedermene, mi trovo aver fatta questa fatica".
La "fatica" è, ovviamente, la composizione degli Annales Ecclesiastici che nascono dalla trentennale esposizione nell'Oratorio della storia della Chiesa: lavoro fondato sull'amore filiale per la Chiesa, ma nutrito, mano a mano che l'impegno avanzava, dalla ricerca severa e dallo studio dei documenti, in perfetta sintonia con la scuola di Filippo, ardente di pietà devota, ma per nulla incline a fantasie e illusioni.
La trattazione della storia rappresentava senza dubbio una felice novità, quando l'esposizione di argomento storico non rientrava - né in forma sistematica, né saltuariamente - nel programma di formazione spirituale di nessuna delle antiche come delle recenti istituzioni dedite all'apostolato.
La scelta di Filippo Neri ha radice, certamente, nella sua impostazione di uomo pratico, attento a privilegiare i fatti e la concretezza, invece che le teorie e le astratte argomentazioni. Ma non si può prescindere, nel valutarla, anche dalla speciale capacità che egli mostra, in vari ambiti, di intuire i bisogni del tempo e di cercare per essi concrete soluzioni.
Filippo Neri ebbe "antenne" speciali. Egli che, senza mai parlare di riforma, cambiò attraverso il suo ministero il volto dell'Urbe, sentì forse, e in modo più chiaro di altri, l'esigenza di introdurre i discepoli, attraverso la storia della Chiesa - non soltanto mediante le vite dei santi (che tanto spazio avevano nell'Oratorio) - nella viva esperienza di fede che aveva percorso i secoli; segnata, senza dubbio, da zone d'ombra, ma concreta vicenda storica in cui si attua l'opera della salvezza. Non è già comprensibile a questa luce la predilezione di Filippo per le catacombe, memoria storica dei martiri, e la rinnovata proposta di visita alle Sette Chiese, come incontro vivo e concreto con la grande testimonianza della tradizione cristiana?
È lecito chiedersi, tuttavia, se padre Filippo non abbia anche percepito l'importanza che l'argomentazione storica rivestiva nel dibattito acceso dalla Riforma protestante. Si sarebbe presto diffuso in Europa il forte attacco critico, condotto su base storica, contro la Chiesa cattolica dalle Centurie di Magdeburgo, con le quali Matthias Vlacich (Flacio Illirico) si proponeva, con un piano prettamente teologico, di scardinare la legittimità storica del cattolicesimo romano dimostrando la degenerazione della Chiesa di Roma rispetto alle origini.
La pubblicazione dei primi tre tomi della Ecclesiastica historia integram Ecclesiae Christi ideam (...) secundum singulas centurias vedeva la luce a Basilea nel 1559, ma già nel 1554, in una Consultatio de conscribenda accurata historia ecclesiae, parlando della futura pubblicazione delle Centurie, Flacio Illirico non nascondeva la decisiva spinta polemica antiromana; e nel 1556, aveva pubblicato a Basilea una serie di testimonianze antipapali che costituiranno l'ossatura delle Centurie: il Catalogus testium veritatis qui ante nostram ætatem Pontifici Romano eiusque erroribus reclamaverunt.
L'incarico conferito da padre Filippo a Baronio si situa pochi mesi avanti l'edizione del primo volume delle Centurie, ma erano passati quattro anni dalla pubblicazione della Consultatio e due anni da quella del Catalogus. Non è azzardato pensare - come suggerisce anche Hubert Jedin - che a Roma, dove con facilità confluivano le notizie, egli ne fosse al corrente.
Si è dibattuto sull'ampiezza e la profondità della cultura di san Filippo Neri, della quale molti contemporanei hanno testimoniato l'eccellenza: quel che è certo è che egli possedeva la vivace intelligenza che consente di captare - anche in ambito culturale - i fermenti più significativi.
A fronte della sfida protestante, la Chiesa cattolica presentava se stessa come la forma attuale, ma fedele, della Chiesa apostolica. La prima risposta cattolica alle Centurie di Magdeburgo sarebbe giunta nel 1573 con l'Adversus Magdeburgenses Centuriatores del gesuita Francisco Turriano, che pone in evidenza lo scarso rigore degli autori delle Centurie o addirittura l'ignoranza di ogni buona regola storiografica; ma in campo cattolico si diffondeva la consapevolezza che la forza d'urto delle Centurie di Flacio stava nel fatto di proporre la ricostruzione globale della vita della Chiesa; e che occorreva pertanto rispondere con un'opera paradigmatica che si ponesse allo stesso livello.
Tentarono l'impresa Onofrio Panvinio e Pietro Canisio, ma i loro scritti, pur validi, si rivelarono insufficienti. E a nulla approdò anche la commissione cardinalizia istituita da Pio V per confutare i centuriatori. Nel dicembre del 1578 Gregorio XIII affidò a Carlo Sigonio l'incarico di comporre una Historia ecclesiastica: lo storico la concepirà nel rispetto dei principi enunciati dal cardinale Gabriele Paleotti, ma l'opera rimase incompiuta.
Cesare Baronio, che per dieci anni aveva elaborato e approfondito il materiale raccolto fin dall'inizio del suo incarico, era ormai pronto a rispondere all'impegno e poteva iniziare nel 1588 la pubblicazione degli Annales Ecclesiastici che avrebbero raggiunto, l'anno della sua morte, il numero di dodici volumi in folio illustrando la storia della Chiesa dalle origini al 1198.
Pensò a quest'opera padre Filippo quando indusse Baronio allo studio della storia per i sermoni dell'Oratorio?
Nel "Ringraziamento" a Neri, posto a capo del IX volume (1598), quando ormai il padre era morto da tre anni e il suo processo di canonizzazione era iniziato, Cesare Baronio lo afferma; come pure farà nella seconda deposizione al processo canonico, rilasciata nel 1607, quando citerà il sogno in cui aveva visto il santo conferirgli esplicitamente l'incarico di scribere Annales.
Il distaccato atteggiamento del santo verso la traduzione in scrittura delle fatiche baroniane è tuttavia un fatto, ampiamente documentato: non da ascriversi, certo, a mancanza di interesse, ma piuttosto alla comprovata manifestazione del carattere di Filippo e alla costante preoccupazione per la crescita dei discepoli nell'umiltà; senza dimenticare che non mancava la realistica preoccupazione delle priorità incombenti sulla giovane Congregazione.
È di Filippo la paternità degli Annales: certamente della finalità di essi, se non dei tomi - alcuni editi, tuttavia, da una tipografia appositamente allestita dalla congregazione, vivente il padre - che diedero fama universale al discepolo già famoso per la pubblicazione del Martyrologium Romanum e delle Adnotationes che lo accompagnavano. Fu padre Filippo, infatti, a introdurre il Baronio nella attività che gli avrebbe consentito di rispondere con solidi argomenti all'attacco con cui il mondo protestante cercava di minare, su base storica, la dottrina della Chiesa Romana.
da Il cardinal Cesare Baronio, dal sito www.baronio.vicenza.it
Racconterà più tardi che la prima volta che lo incontrò restò tanto colpito dalla dolce carità e dalle sante parole di P. Filippo, che decise di non lasciarlo più. “E, subito che cominciò a praticare col Santo, Dio gli comunicò tanta abbondanza di spirito e disprezzo di questa terra, che, se Filippo non gli avesse comandato per obbedienza di continuare gli studi di legge, avrebbe lasciato il mondo e si sarebbe ritirato in qualche stretta religione per servire più perfettamente a Dio [...] Ma il Beato Padre non gli volle mai dar licenza, dicendogli che il Signore voleva altro da lui”.
Il 5 gennaio del 1558, vigilia dell’Epifania del Signore, nella cameretta di Filippo colma di persone, il Padre comandò improvvisamente a Cesare di dir qualcosa sulla prossima festa. Non aveva mai parlato in pubblico, ma gli riuscì bene. Filippo iniziò da quel momento a curare intensamente la vita spirituale del discepolo, occupandosi soprattutto della sua umiltà e sottoponendolo a duri esercizi di mortificazione interiore, compiuti dal Baronio con grande libertà di spirito. Continuavano i suoi interventi all’Oratorio, con una particolare predilezione per i temi della morte e dell’aldilà, quando P. Filippo volle che il Baronio si dedicasse a trattare la storia della Chiesa; lo farà per trent’anni, riprendendo dall’inizio, ogni quattro anni, la sua esposizione.
Il 16 dicembre 1560 scrisse alla famiglia la sua decisione di prendere gli Ordini sacri e nei giorni seguenti fu ordinato suddiacono. In una lettera del 21 maggio 1561 annunciava al padre: “ieri sera per grazia del Signore compii il mio dovere e ho soddisfatto il vostro desiderio, e fui addottorato in civile e in canonico...”, tralasciando però di dire che subito aveva lacerato l’attestato dottorale e distrutto il libro di poesie che aveva scritto. Sarà ordinato sacerdote il 27 maggio 1564, primo dei discepoli di Filippo, per la chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini, avendo rinunciato al buon canonicato che la Chiesa di Sora gli offriva; di qui in poi la sua vita è totalmente intrecciata al sorgere ed allo sviluppo della Congregazione.
Nell’aprile del 1577 con i confratelli di S. Giovanni si trasferisce alla Vallicella: mentre pronuncia l’ultimo sermone, una misteriosa colomba, entrata nell’Oratorio, ne attende la conclusione; poi vola verso la nuova dimora dei Padri. A partire dal 1589, per decisione della Congregazione, inizia la pubblicazione degli Annales ecclesiastici, frutto del meticoloso studio con cui P. Cesare preparava i sermoni dell’Oratorio, e di varie altre opere, accolte con unanime favore, tra le quali il Martirologio che la Chiesa ha usato fino alla nuova edizione del 2001 e per la quale il testo baroniano ancora funge da base.
Mentre cresceva la sua fama di studioso e P. Filippo non mancava di esercitarlo nell’umiltà, in tutti i modi possibili, cresceva nella stessa misura nel piissimo sacerdote l’anelito di un cammino di perfezione sempre più intenso: lo spirito di orazione e di penitenza, l’esercizio delle virtù - umiltà e carità, in primo luogo - le fatiche apostoliche continuate anche tra l’incessante lavoro intellettuale e varie infermità (da alcune delle quali fu miracolosamente guarito ad opera di P. Filippo: quella del 1572, in particolare, da cui Cesare uscì per l’ardente preghiera di P. Filippo che disse a Dio: “Restituiscimelo, lo voglio!”) sono accompagnate da doni soprannaturali che accreditano a P. Cesare una immensa stima. [...]
Padre Filippo è ormai avviato alla fine dei suoi giorni terreni; sarà P. Cesare a chiedere l’ultima benedizione del Santo sulla sua famiglia. Da questo momento il Baronio, che già per tre volte era riuscito a rifiutare vari vescovadi, è costretto ad accettare la nomina di Protonotario apostolico, e nel 1596, appena rieletto Preposito per il secondo mandato, dovette accettare la Sacra Porpora in obbedienza al Papa, che gli assegnava il titolo presbiterale dei SS. Nereo ed Achilleo, l’antica Basilica che egli aveva scelto proprio perché fatiscente e bisognosa di restauri. Nominato Bibliotecario di S. R. Chiesa, visse poveramente in Vaticano, conservando “in saccoccia” la chiave della sua camera nella Vallicella, “amato nido” dove, ogni quindici giorni, continuò a sermoneggiare all’Oratorio. [...]
da «Come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo»: l'espressione che Galilei imparò dal cardinale Baronio, di Edoardo Aldo Cerrato
Il quarto centenario delle prime osservazioni di Galileo Galilei al telescopio [1609] sarà celebrato in tutto il mondo come l’anno dell’astronomia: lo ha ricordato anche Benedetto XVI nella solennità dell’Epifania traendo spunto dalla stella che guidò i Magi, e tornando sul tema, a lui carissimo, del rapporto tra la fede e la scienza, ha detto nell’omelia: «C’è nel cristianesimo una peculiare concezione cosmologica, che ha trovato nella filosofia e nella teologia medievali delle altissime espressioni. Essa, anche nella nostra epoca, dà segni interessanti di una nuova fioritura, grazie alla passione e alla fede di non pochi scienziati, i quali – sulle orme di Galileo – non rinunciano né alla ragione né alla fede, anzi, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità. Il pensiero cristiano paragona il cosmo ad un “libro” – così diceva anche lo stesso Galileo – considerandolo come l’opera di un Autore che si esprime mediante la “sinfonia” del creato».
L’altro Libro nel quale Dio si rivela è la Sacra Scrittura e Galileo (1564-1642), a proposito dei suoi avversari che ritenevano erronea la teoria copernicana perché contrastante con la Scrittura, scriveva nella Lettera A Madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana (1615)[1] che occorre prima di tutto saper interpretare il sacro testo: dopo aver riportato un’ampia citazione del De Genesi ad litteram di s. Agostino circa l’intento dello Spirito Santo nell’ispirare la Bibbia – che culmina nella affermazione: «Spiritus Dei noluisse ista docere homines nulli saluti profutura»: lo Spirito di Dio non volle insegnare agli uomini cose che nulla avrebbero giovato alla salvezza – scrive: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo»[2].
È opinione corrente che sia Cesare Baronio il personaggio da cui Galileo lascia intendere di aver udito direttamente l’espressione citata. Se non lo si può affermare con prove documentali, l’attribuzione della frase è, tuttavia, concordemente attestata[3] e rivela piena corrispondenza con il pensiero dello storico oratoriano.
1. Galileo venne a Roma nel 1587 per incontrare i professori del Collegio Romano[4], fondato nel 1551 e presto divenuto la più importante università cattolica d’Europa guidata da Gesuiti. I libri di testo adottati dai docenti e gli appunti delle loro lezioni dimostrano quanto le questioni “scientifiche” vi fossero regolarmente affrontate, e quanto la matematica, che caratterizza il modo galileiano di fare scienza, fosse fortemente presente nel piano di studi. Figura eminente e principale artefice del programma di matematica era il tedesco Christophorus Clavius[5], che rimase molto impressionato da un lavoro di Galileo sul centro di gravità dei solidi, e per questo collaborò con il protettore di Galileo, il marchese Guidobaldo del Monte, per assicurare al giovane matematico un posto di insegnante in una università[6]. Secondo William A. Wallace, lo stesso «Galileo si dedicò a proseguire il programma di Clavius, nell’applicare la matematica allo studio della natura e nel generare una fisica matematica che potesse fornire valide spiegazioni causali sia per i fenomeni astronomici sia per quelli fisici»[7]. In questa fucina di studi che spaziavano in tutti gli ambiti del sapere, Cesare Baronio[8] contava numerosi contatti[9].
Nel 1576 Gregorio XIII volle nel Collegio Romano l’istituzione di una cattedra di Controversie, ed il generale dei gesuiti, p. Claudio Acquaviva (1543 – 1615), grande estimatore del Baronio, chiamò a Roma dal Belgio per svolgervi le lezioni Roberto Bellarmino[10], il quale vi insegnò fino al 1587[11] ed ebbe intensi rapporti di collaborazione e di amicizia con il Baronio lungo il corso dell’intera vita[12].
All’epoca della permanenza di Galileo a Roma, Cesare Baronio, bibliotecario della Vallicelliana dal 1584, era prossimo alla pubblicazione del primo volume degli Annales Eccesiastici (1588), molto attesi dopo l’edizione del Martyrologium Romanum (1584) – alla cui revisione si era dedicato con severi studi dal 1580 – e la pubblicazione del grosso volume in folio delle “Note” (1586) che avevano notevolmente contribuito a farlo conoscere nel mondo della cultura e a diffonderne la fama di studioso[13].
Incontri di Galileo con il Baronio sono assai probabili, ed è plausibile pensare che questa sia stata l’occasione in cui si impresse in Galileo il ricordo della lealtà intellettuale e della chiara intelligenza di fede contenuta nella citazione – che un autore definisce «la scarnificata coerenza del cardinale Baronio»[14] – riportata nella Lettera.
Altra occasione di incontro potrebbe essere stata la visita del Baronio, già cardinale, e del Bellarmino, teologo di fiducia del Papa, a Venezia e a Padova, mentre si trovavano a Ferrara nel 1598 – al seguito di Clemente VIII – ed interruppero il lungo soggiorno ferrarese per una vacanza: si presentarono a Padova in incognito ad un insigne letterato, corrispondente del Baronio, Vincenzo Pinelli, il quale, fingendo di non riconoscerli, mostrò nella sua quadreria al Bellarmino il ritratto del Baronio e al Baronio quello del Bellarmino[15]. La presenza a Padova dei ritratti dei due personaggi è chiaro indizio della loro fama. Qui[16] alcuni collocano l’incontro di Galileo con il Baronio[17].
2. La questione biblica, in relazione alle opinioni di Copernico, già era stata posta da Lutero nel 1539 – prima ancora della pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium (1543)[18] – con una netta condanna dell’astronomo definito «il pazzo [che] vuole sconvolgere l’arte dell’astronomia», mentre «come dimostra la Sacra Scrittura, Giosuè disse al sole di fermarsi e non alla terra»[19].
Da parte cattolica, la questione della compatibilità con la Scrittura emerse più seriamente quando l’ipotesi copernicana cominciò a prendere contorni più reali. Le posizioni della Chiesa e dei diversi ordini religiosi furono quanto mai diversificate: l’ordine domenicano – una parte di esso, almeno – aveva da subito guardato con sospetto alla battaglia copernicana di Galileo; altri ordini religiosi, e altri illustri uomini di Chiesa, erano invece meno legati all’aristotelismo tomistico, e più vicini alla tradizione agostiniana: tra questi spiccavano gli oratoriani con il Baronio, le cui posizioni aprivano la strada ad un’analisi della Scrittura che andasse oltre il significato letterale; i gesuiti, pur interessati alle scoperte di Galileo e alla ricerca di soluzioni nuove, consapevoli della crisi del modello aristotelico, mantenevano un atteggiamento di cautela, maggiormente favorevoli al modello di Tycho Brahe[20], che, rispetto a quello tolemaico, consentiva migliori calcoli astronomici e permetteva di “salvare”, in conformità con il dettato scritturistico, l’immobilità della Terra, la sua centralità e il movimento del Sole.
Merita ancora ricordare, in ambito cattolico, la posizione di due grandi teologi spagnoli – Melchiorre Cano e Diego De Zuñica[21] – che svilupparono i criteri esegetici espressi da s. Agostino e s. Tommaso e li applicarono alla interpretazione delle espressioni bibliche invocate dai protestanti contro il moto della terra, spiegandole appunto come forme correnti del comune linguaggio umano e quindi non tali da poter fornire argomenti contro la teoria copernicana.
Nel commento al libro della Genesi, infatti, s. Agostino aveva affermato la necessità di tenere distinte nella Scrittura le verità di ordine religioso che, garantite dalla rivelazione divina, sono oggetto di fede e sono strettamente connesse alla salvezza dell’anima, dalle nozioni d’ordine naturale, che sono oggetto di ricerca razionale ed entrano nei limiti delle possibilità umane; e aveva insegnato che quando si trattasse di questioni particolarmente difficili e quando, soprattutto, si entrasse in questioni astronomiche, non si deve mai impegnare l’autorità della Scrittura[22]. In modo ancor più esplicito nello scritto contro Felice aveva insistito sul principio che la Scrittura ha solo il compito di insegnarci la via della salvezza e non intende affatto sostituirsi a trattati scientifici: «Non leggiamo nel Vangelo che il Signore abbia detto: vi manderò il Paraclito ad ammaestrarvi sul corso del sole e della luna; voleva infatti creare dei cristiani e non dei matematici»[23]. Sulla base di questi principi, anche s. Tommaso d’Aquino escludeva che si dovesse invocare l’autorità della Scrittura quando si trattasse di questioni relative a fenomeni naturali[24].
18/ Il pellegrinaggi alle sette chiese
La Visita alle Sette Chiese: il percorso originario proposto da San Filippo Neri (dal sito della Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella)
Avevano cominciato a ritrovarsi lì, sul sagrato della Chiesa di San Girolamo della Carità, a pochi passi da piazza Farnese (in seguito presso Santa Maria in Vallicella, la "Chiesa Nuova"). E non sarà passato inosservato alla curiosità dei romani quell'insolito ritrovo quotidiano, proprio nell'ora della passeggiata pomeridiana. Erano gli amici di Padre Filippo Neri, il fiorentino.
Tutto era cominciato in quel maggio 1551, quando Filippo, novello sacerdote, aveva preso dimora presso San Girolamo. S'intrattenevano con lui nella chiesa, poi uscivano per una passeggiata. Spesso, imboccato il ponte Sant'Angelo, dopo una sosta all'Arcispedale di Santo Spirito in Sassia, puntavano dritti a San Pietro, per una visita alla tomba dell'Apostolo, oppure se ne andavano verso l'Esquilino, a Santa Maria Maggiore.
La domenica o nei giorni di bel tempo e di festa, Filippo attendeva i suoi figlioli sul sagrato per una scampagnata. Allora il cammino si faceva più lungo. Le mete erano le Tre Fontane, la basilica di San Paolo; si andava poi sull'Appia, alla catacombe di San Sebastiano e dopo aver consumato un pasto all'ombra di qualche vigna, si faceva ritorno passando per San Giovanni in Laterano e Santa Croce in Gerusalemme. Filippo e i suoi (quei primi che diventeranno il nucleo della Congregazione dell'Oratorio) le chiamavano familiarmente "visite". Proprio come andare a far visita alla casa di un amico, con l'unica differenza che le "case" visitate erano i luoghi cari alla memoria cristiana di Roma. E' nato così, con questa spontaneità, il pellegrinaggio più famoso di Roma: la visita alle Sette Chiese.
Il pellegrinaggio alle sette basiliche [...] ebbe un tale successo che da poche decine di partecipanti (all'inizio erano addirittura cinque o sei) arrivò in pochi anni, con il crescere della popolarità di Filippo, a coinvolgere centinaia di persone, fino a raggiungere, sotto il pontificato di Pio IV (1560-1565), seimila partecipanti. Senza volerlo, senza quasi accorgersene, Filippo aveva coinvolto tutta Roma.
La visita ai più importanti luoghi di culto dell'Urbe non è tuttavia invenzione di san Filippo Neri. Filippo non fa che riprendere l'antichissima tradizione medioevale dei pellegrini romei alla tombe di Pietro e Paolo. Tradizione che nel corso dei secoli, soprattutto con il primo grande Giubileo istituito nell'anno 1300 da Bonifacio VIIII (1294-1303) aveva indicato le tappe che il devoto viaggiatore doveva compiere una volta giunto nella Città santa degli apostoli e dei martiri.
Anche Filippo, appena diciannovenne, era arrivato a Roma nel 1534 come pellegrino. E come pellegrino, nei primi anni della sua permanenza romana, si recherà frequentemente ai luoghi santi. "Era solito" - racconta Antonio Gallonio, amico del Santo e autore della sua prima biografia - "andarsene solitario alle Sette Chiese, o ad alcuna d'esse, massime a quelle fuori della città" e quelle visite "non furono per lui senza grandissima consolazione e senza profitto di virtù e di doni".
Bisogna tuttavia arrivare al 1552 perché il pellegrinaggio diventi una pratica stabile e organizzata. Con il crescere del numero dei partecipanti, Filippo decise infatti di dedicare al pellegrinaggio un giorno fisso dell'anno: il giovedì grasso. Così, il primo pellegrinaggio ufficiale alle Sette Chiese ebbe inizio il 25 febbraio 1552.
Il percorso, lungo sedici miglia, fu diviso in due giornate, con la partenza, la sera del mercoledì, dalla chiesa di San Girolamo della Carità. Attraversato ponte San'Angelo si faceva visita ai malati dell'ospedale di Santo Spirito. Quindi il corteo si raccoglieva presso la basilica di San Pietro, prima tappa della visita.
La mattina seguente, di buon'ora, l'appuntamento era nella basilica di San Paolo, da dove si percorreva la via che prese poi il nome delle Sette Chiese e si giungeva a San Sebastiano per partecipare alla Messa. Nei periodi di maggiore affluenza la celebrazione eucaristica ebbe luogo a Santo Stefano Rotondo sul Celio.
Seguiva l'omelia di Filippo, o di altri religiosi, quindi la refezione. Nei primi anni si fermavano alla vigna Savelli, nei pressi della Caffarella. Col tempo divenne abituale la fermata al giardino Mattei, in quella che oggi si chiama Villa Celimontana. Poi si dirigevano verso la Scala Santa e San Giovanni in Laterano e proseguivano per Santa Croce in Gerusalemme. Attraverso Porta Maggiore il corteo usciva di nuovo dalla cinta muraria arrivando all'Agro Verano, dov'è la basilica di San Lorenzo.
Rientrando infine in città il corteo volgeva all'ultima tappa dell'itinerario: Santa Maria Maggiore. Qui, dopo un ultimo raccoglimento, i partecipanti si congedavano intonando la Salve Regina.
I doni dello Spirito, i vizi e le virtù, nel pellegrinaggio alle sette chiese di San Filippo Neri: indicazioni per un cammino verso la Cresima. Breve nota di Andrea Lonardo (da www.gliscritti.it)
Nel pellegrinaggio alle sette chiese San Filippo Neri utilizzava gli antichi settenari dei doni dello Spirito Santo, dei vizi e delle virtù per la catechesi che si svolgeva durante l’itinerario. Questi settenari sono stati ripresi con sapienza oggi nello stesso itinerario (si vedano, ad esempi, gli itinerari guidati da d. Fabio Rosini e da p. Maurizio Botta dell’Oratorio di San Filippo). Ne forniamo alcuni tratti, perché possono essere utili anche per strutturare il cammino di catechesi in preparazione alla Cresima.
1/ Dalla Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella) a San Pietro. Il timor di Dio, la gola e l’astinenza
L’astinenza è la capacità di porsi dei confini. Senza confini, in realtà, non sei libero. Una nazione è libera solo quando sa difendere i propri confini. L’aver paura di uscire dai limiti è una cosa sana. Esiste, cioè , una valenza positiva della paura. Così la gola è l’incapacità di porsi dei confini, mentre l’astinenza è la capacità di essere liberi, sapendoli porre.
Soprattutto è da sottolineare che chi era veramente dotato del timor di Dio era Cristo. Cristo aveva il timore di non fare la volontà di Dio. Perciò nella sua vita sapeva godere delle cose, ma anche rinunciare ad esse, a seconda della volontà di Dio.
2/ Verso San Paolo fuori le Mura. La pietà, l’ira e la pazienza
Il vizio è tutto nostro. Nell’ira bestemmiamo ciò che ci manca. Ci sono persone che si lamentano sempre. La virtù della pazienza, invece, è la capacità di benedire l’esistente, attendendo la pienezza che Dio darà. La virtù della pazienza è un nostro reale desiderio e nessuna cultura approva, in realtà, l’ira.
Cristo ha il dono della pietà, ha una vita intrisa di pietà, benedice tutto ciò che esiste. Lo vediamo, per esempio, nella moltiplicazione dei pani. Non si adira, bensì pazientemente trasforma ciò che esiste in bene. Così la pietà corrobora la virtù della pazienza.
3/ Verso San Sebastiano. La scienza, la lussuria e la castità
Il dono della scienza è la capacità di conoscere e guardare l’altro come Cristo lo guarda.
Nella lussuria noi facciamo dell’altro un oggetto, una nostra proiezione.
Nella castità, invece, lo amiamo realmente. Comprendiamo il valore della castità non appena diventiamo padri di una ragazza: un padre non può tollerare che sua figlia sia solo un oggetto da ciucciare da parte di qualcuno. L’amore guarda l’altro così come lo guarda Dio. La scienza, così, corrobora la virtù e ci insegna a guardare le donne e gli uomini così come Cristo li guardava.
4/ Verso San Giovanni in Laterano. Il Consiglio, l’avarizia e la prodigalità
Dinanzi ad un bivio serve un consiglio per decidersi. Chi ha avuto questo dono del consiglio? Cristo a Cafarnao, quando gli dicono di tornare in città, risponde che bisogna andare a predicare altrove. Egli ha il dono del consiglio che guida le decisioni.
Noi siamo spesso nell’avarizia: non prendiamo una decisione, perché prenderla vuol dire rinunciare a qualcosa. Nel momento vocazionale, molti sono paralizzati dalla rinuncia.
Invece la prodigalità è la virtù del saper rinunciare a qualcosa, quando si è stati ben consigliati, quando si è compreso che qualcosa è la volontà di Dio.
5/ Verso Santa Croce in Gerusalemme. La fortezza, l’accidia e il fervore
Cristo ha il dono della fortezza. Ha il dono di essere “quercia”, di reggere il colpo.
Il vizio dell’accidia si manifesta nelle disavventure: quando arrivano, non gioco più, mi ritiro dal gioco.
Il fervore è un desiderio, ma a volte viene a mancare, se non ci viene fatto da Cristo il dono della fortezza.
6/ Verso San Lorenzo fuori le Mura. L’intelletto, l’invidia e la carità fraterna
Il dono dell’intelletto consiste nell’accorgermi della presenza dell’altro, nel saper vedere che egli c’è.
Nell’invidia lo vedo sempre come un nemico.
Nell’amore fraterno riesco, invece, a vederlo come fratello.
Cristo ha il dono dell’intelletto e ci dona di amarci gli uni gli altri. “Come io vi ho amati”.
7/ Verso Santa Maria Maggiore. La sapienza, la superbia e l’umiltà
Cristo è la sapienza: «Imparate da me che sono umile e mite di cuore». Cristo è umile.
Noi, invece, siamo superbi. Ed è il nostro desiderio sconfiggere la superbia: non appena uno ha una venatura di superbia ci appare repellente.
L’umiltà è già teologica, ma il dono della sapienza la porta a compimento.
Sintesi
In sintesi, ogni tappa sottolinea, da un lato, che il nostro cuore è inclinato al vizio – si potrebbe quasi dire che noi “siamo” il vizio.
Ma, dall’altro, si sottolinea ogni volta che noi abbiamo un desiderio di virtù. Tutti, senza esclusione, desiderano la virtù – si potrebbe dire che noi “siamo” questo desiderio di virtù.
Cristo è colui che possiede il dono dello Spirito di cui ci fa poi dono.
Nel riferimento del vizio alla virtù e della virtù al dono dello Spirito, emerge con più evidenza il significato di ognuno di essi.
- cfr. su www.gliscritti.it La catechesi a Firenze al tempo della programmazione iconografica degli affreschi della cupola brunelleschiana. Rilievi e confronti, di Gilberto Aranci
19/ La riforma di Roma, senza mai parlare di riforma!
Filippo Neri prete romano, di Antonio Cistellini, da Memorie Oratoriane del dicembre 2000, n. 20, pp. 17-22
Il messaggio pontificio gratifica ancora padre Filippo del prestigioso titolo di «riformatore di Roma». Quanti lo hanno accostato con chiarezza d’idee e buona informazione hanno sempre escluso che nel suo programma (ammesso che un vero e proprio programma egli avesse mai formulato delle sue attività), ci fosse alcun proposito di riforma. Altri, e molti, in quel tempo perseguivano quell’ideale di restaurazione. Giusto nell’età di Filippo si sta realizzando nella chiesa una decisa azione di riforma, le cui tappe e momenti salienti sono noti: dall’elezione di Paolo III Farnese, al Consilium de emendanda ecclesia, al rinnovato collegio cardinalizio dove brilleranno uomini davvero degni e insigni, e soprattutto al concilio di Trento che sta come spartiacque dalla metà del secolo XVI.
Giova osservare che proprio incerti momenti di rilievo della vita di Filippo coincidono con i tre periodi conciliari e le loro solenni intraprese di riforma in capite et in membris, in cui s’iscriverà pure la sua mirabile operosità apostolica.
Nel novero dei grandi riformatori del suo tempo egli è unanimemente riconosciuto. «Filippo Neri - asseriva, ad esempio, il grande storico della spiritualità cattolica E. Brémond - fu il riformatore di Roma, il più grande forse, non avendo nessun altro, sembra, lavorato con maggior successo a cambiare la faccia della città eterna durante il periodo disperatamente critico che va dal sacco di Roma all’assoluzione di Enrico IV, dal Carafa ai due Borromeo. Quando Filippo giunse a Roma da Firenze nel 1534, la riforma della curia sembrava impossibile; quando egli morì, nel 1595, essa era un fatto compiuto».
Val la pena, tuttavia, di rilevare che alla Vallicella, né da parte di Filippo né di altri, si parla mai di riforma. Sarà verso la fine del secolo, intensificandosi le premure per l'avviato processo di canonizzazione, che uno dei più animosi soggetti della prima ora, il p. Antonio Talpa, prese a delineare la figura di Filippo in veste di riformatore, di Roma prima, per un’azione riformatrice di tutta la chiesa. «Stimolato dallo zelo ch'avea de la riforma de la chiesa, fu ispirato dal Signore d’incamminar in Roma, sotto la sua disciplina ne la vita spirituale, un numero di suoi devoti, ch’avea per mezzo de la confessione generati nello spirito, a promuoverli a lo stato clericale, e, a poco a poco con questo mezzo, la disciplina ecclesiastica e conseguentemente la riforma, con speranza che da Roma poi (questa) si avesse a diffondere per tutto».
Ma, come s’è detto, la sua azione di riforma non pare affiancarsi esplicitamente alla dichiarata attività riformistica che la chiesa ha seriamente avviato, soprattutto mediante il concilio. Di questo fra i padri e nel mondo oratoriano sembra che non si faccia mai parola; nessun documento (lettere, disposizioni, ecc.) ne fa cenno. Di quel gran movimento di idee, di propositi, di opinioni di quegli anni, che vanno appunto dall’esordio sacerdotale di padre Filippo: di quell’andirivieni di uomini di svariate condizioni (prelati, principi, politici) fra Roma e Trento, durante i tre periodi del concilio non sembra esserci sentore o interesse nel mondo filippino (peraltro appena abbozzato). L’orizzonte di Filippo e dei suoi è soltanto quello di Roma, e questo è il campo che essi si sentono impegnati a coltivare, consapevoli che i frutti ridonderanno in vantaggio della chiesa universale.
Ignazio di Loyola e Filippo Neri, di Hugo Rahner S.J. (dal sito www.oratoriosanfilippo.org )
Sono stati canonizzati insieme il 12 marzo 1622 eppure quando vivevano erano tanto differenti (e felicemente differenti) che si è sempre di nuovo tentati di misurare, facendo appunto il confronto di questi due uomini di Dio, lo spazio grandiosamente vasto nel quale può realizzarsi l’unico comune ideale della santità cristiana(1).
Il fondatore dell’Ordine dei Gesuiti ed il fondatore dell’Oratorio di Roma: ad un primo sguardo sono di nature talmente opposte e gli ideali delle loro istituzioni, o, per meglio dire, le loro realizzazioni nella storia della Chiesa sono tanto lontane fra loro, che un confronto, di primo acchito, può sembrare quasi artificioso o risuscitare qualcosa di quei malumori politico-curiali che negli anni dei preparativi della canonizzazione regnavano fra la casa professa del Gesù e l’Oratorio della Vallicella (2) e che ancora fremevano, quando, nell’epoca barocca, si discuteva con serietà erudita la questione, se, di fatto, Ignazio avesse un giorno sollecitato Pippo Buono ad entrare nella Compagnia di Gesù, ed avesse dovuto subire da lui un allegro rifiuto, o se, invece, la cosa non si fosse svolta così, che Filippo avesse pregato d’essere ammesso, ed Ignazio cortesemente ma seriamente avesse detto di no(3).
E quando si sa questo, ci si può immaginare che Ignazio e Filippo, col sorriso che, sulla terra, era proprio di ambedue, guardassero giù verso quella Roma tanto poco illuminata, l’allegro Filippo ed Ignazio “il piccolo spagnolo che zoppicava un poco ed ha occhi tanto lieti” (4). Ed appunto immaginando questo incominciamo a comprendere che questi due santi, nonostante tutti i contrasti, formano gruppo fin dalla loro vita ed esistenza terrena e si rassomigliano in una comune profondità.
S’incontrarono a Roma, sicuramente, già in quel terribile inverno di fame 1538-1539, quando i compagni d’Ignazio raccoglievano gli infermi ed i poveri nella casa Frangipani e li distribuivano poi fra i vari ospedali della città (5). Allora Filippo conobbe Ignazio e Francisco de Xavier ed ancora parecchi anni dopo, nelle sue serate spirituali presso San Girolamo della Carità, dalle quali ebbe origine l’Oratorio, egli leggeva ad alta voce, con ardente entusiasmo, le lettere del Saverio dall’India (6).
Per tutti gli anni (1537-1556) trascorsi da Ignazio a Roma, Filippo (il quale, dal 1534 al 1595, per 60 anni del suo lavoro nella cura delle anime, ha benedetto quello stesso suolo di Roma) si mantiene legato di rispettoso amore col Magister spagnolo di Santa Maria della Strada ed ha spesso professato d’aver veramente imparato da Ignazio a conoscere la preghiera interiore (7) e di aver veduto sul volto di lui uno splendore misterioso; anzi, più tardi ha giudicato che nessuna pittura potesse rendere tale splendore.(8)
[...] Consoliamoci con quanto scrisse, dopo un incontro con Filippo, il p. Oliver Manare, che ancora Ignazio aveva accolto alla propria scuola: “Il venerabile don Filippo Neri, il preposito dell’Oratorio, mi disse d’aver visto, un giorno, il volto del beato padre Ignazio inondato di splendore soprannaturale e che perciò egli era del parere che nessuna opera di pittura possa rappresentarlo così, come egli era in realtà” (110).
20/ Le stanze di San Filippo Neri alla Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella) (dal sito dell'Oratorio di San Filippo Neri)
Introduzione
Vi diamo il benvenuto a questa visita guidata alle stanze di S. Filippo Neri. Esse da un lato custodiscono quanto rimasto, dopo l’incendio del 1620, delle originarie stanze del santo situate nel primo vecchio convento della Congregazione e qui ricostruite con amore. Dall’altro, col passare del tempo, sono diventate luogo della memoria dove sono state conservate tantissime reliquie del santo, oggetti a lui appartenuti e doni della devozione popolare nei secoli.
La visita ci permette di avvicinarci a S. Filippo nella sua umanità fatta di cose semplici di tutti i giorni, ma anche nella sua santità fatta d’instancabile cura delle anime, continua ed assidua preghiera ed alti momenti d’estasi mistica.
Dopo quattro secoli, la devozione dei fedeli ha arricchito questi ambienti di cose preziose forse nascondendo un poco quella che era la semplicità e la povertà delle originarie stanze. Ma basta guardare bene agli oggetti che gli sono appartenuti, al mobilio, alle pareti, ai soffitti ed al pavimento delle parti originali per veder bene quale era il vero modello di semplicità e povertà evangelica che ha ispirato tutta la vita di S. Filippo.
Ci sono oggetti semplici che parlano della sua vita e degli atti del quotidiano vivere (il suo lettuccio, i suoi occhiali, i suoi vestiti, le sue scarpe, ecc.).
Ma ci sono oggetti che parlano della sua preghiera instancabile, del suo amore infinito per l’Eucaristia, delle sue estasi mistiche, e del tempo passato nella cura delle anime (il crocefisso a lui cosi caro, il calice che porta i segni dell’estasi vissute nella S. Messa, il piccolo confessionale). Ci sono quadri ed immagini sacre a lui appartenute che hanno ispirato e accompagnato i suoi momenti di meditazione e preghiera.
Ma c’è anche il segno e la testimonianza della devozione dei suoi fedeli che hanno voluto donare oggetti d’arte e testimonianze del loro affetto e della stima e venerazione dei Papi del suo tempo Ci sono oggetti che ci parlano della cura con la quale i Padri dell’Oratorio attraverso i secoli ne hanno protetto le sue spoglie mortali. [...]
La storia delle stanze di Filippo alla Chiesa Nuova
Il 22 novembre 1583, giorno di S. Cecilia, chi fosse passato per questa zona avrebbe assistito ad una singolare processione: un gruppo di preti che portano povere suppellettili e mobilio da S. Girolamo a Chiesa Nuova con in testa Filippo con una grande padella in mano. I romani del rione, compresi alcuni carcerati dalle finestre delle loro celle di Via Giulia, certo non mancarono di cogliere l’occasione per ridere alle spalle e farsi beffe di questo strano gruppo.
Non c‘era in Filippo il desiderio di farsi notare per le sue bizzarrie, quanto quello di umiliarsi di fronte a tutti, anche a costo di passare per uno non troppo sano di mente Questo suo comportamento si potrà riscontrare in tantissime occasioni nel corso della sua vita. Nel convento Filippo si sceglie una zona appartata: due stanzette in alto, accessibili attraverso una ripida e buia scala che ha per corrimano una cordicella.
Due “stantiole”, come lui stesso le chiama, una per dormire e ricevere la gente ed una cappelletta privata per la celebrazione della S. Messa in privato. Le stanze sono disadorne ed il mobilio molto semplice e spartano.
Più in alto, si fa realizzare anche una loggetta per pregare in solitudine. Da lì può vedere il cielo di Roma, i tetti, le cupole ed il suo Gianicolo. Quante volte è andato da solo, o ha portato i ragazzi a passare liete ore piene di svaghi e della sua cura amorevole lassù a S. Onofrio, vicino alla quercia che lui ama tanto.
Filippo vuole stare in alto, più vicino al cielo per pregare più intensamente per la salvezza di tanti uomini. Forse cerca di perpetuare quello che lui ha vissuto per tanti anni a S. Girolamo. Certo ha 68 anni, la salute certo non l’aiuta, quante volte sembra sul punto di morire ma si riprende per la protezione di Maria S.ma e di Gesù. Qui mangia da solo le poche cose che si concede: una zuppa, un poco di pane, due uova ed un poco d’insalata, acqua e pochissimo vino annacquato. Scende in chiesa solo per celebrare e confessare. Ma la sua stanza è sempre aperta per chiunque abbia bisogno della sua guida spirituale, anche fino a tarda notte; lui dorme pochissimo.
Celebra la S. Messa nel suo piccolo oratorio, e qui, egli vive esperienze mistiche di altissima intensità. L’Eucaristia può durare diverse ore: al “Domine non sum dignus”, prima di comunicarsi al Corpo ed al Sangue di Cristo, fa spegnere le candele dell’altare e chiudere la finestra. Rimane così da solo, per ore, in adorazione, alla luce fioca di una candela. Per proteggere questi momenti, un cartello viene affisso sulla porticina con la scritta: ”Silenzio! Il padre dice messa”.
In queste occasioni, ma anche in pubblico, molti fedeli (vedi le numerose testimonianze registrate nel Processo di Canonizzazione) hanno visto Filippo sospeso in aria per rapimento estatico. Alti prelati, povera gente, nobili, fratelli dell’Oratorio salgono e scendono con fatica quelle scalette, ma a nulla al mondo rinuncerebbero ad un incontro con padre Filippo.
Filippo vive a Chiesa Nuova in queste stanze per 12 anni ed esse vedono la sua nascita al cielo il 26 maggio 1595. Subito dopo la sua morte, la camera, trasformata in cappella, diventa meta di visite continue di fedeli. Ancor prima della canonizzazione del santo, viene data l’autorizzazione ai sacerdoti di celebrare la S. Messa in questa cappella.
Purtroppo, nel 1620, un fuoco d’artificio lanciato da Castel S. Angelo, durante una festa, entra dalla finestra e produce un grave incendio. Nessuno se ne accorge in tempo e questo devasta le stanze. Si cerca di salvare il salvabile: una parte delle suppellettili non toccate dell’incendio sono portate in un luogo sicuro. Ma l’incendio ha ormai gravemente danneggiato la struttura delle mura, del pavimento e dei soffitti.
Intorno al 1634, sotto le crescenti esigenze della vita dell’Oratorio e della chiesa, la Congregazione da incarico al Borromini di sviluppare un articolato progetto d’espansione sul lato verso Monte Giordano. Il progetto elaborato prevede, tra l’altro, l’abbattimento delle vecchie costruzioni che hanno servito da convento fino a quel momento. Così si pone il problema di cosa fare per salvare la memoria delle stanze di s. Filippo, ormai bruciate.
Dopo un lungo dibattito sul destino di quest’antica parte del convento, la Congregazione decide di abbattere la parte vecchia ma di salvaguardare quello che era rimasto delle stanze, spostandolo nella nuova costruzione.
Per la nuova collocazione, sono individuati alcuni ambienti sul lato sinistro dell’abside proprio a fianco e sopra la Cappella del Santo. Al primo piano si decide di spostare e ricostruire il piccolo oratorio del santo; al pianterreno si porta una parte del muro della sua stanza. Per completare ed integrare questi luoghi di devozione si creano due anticamere. Il pianterreno ed il primo piano poi sono raccordati da una scala a chiocciola; due nuovi corridoi permettono di accedere, al coperto, a questi ambienti.
Con questi lavori il nuovo assetto delle stanze di S. Filippo è completato cosi come lo possiamo vedere oggi.
Le stanze di S. Filippo oggi
Sul grande e luminoso corridoio che dalla Sagrestia va al Giardino degli Aranci, si apre l’accesso alle Camere private di S. Filippo. Come abbiamo detto, queste stanze sono situate su due piani distinti raccordati tra loro da un’elegante scala a chiocciola progettata da Francesco Borromini.
Le stanze al piano terreno
Il corridoio d’accesso
Al piano terra, prendiamo a sinistra il corridoio decorato da prospettive architettoniche affrescate da ignoto del XVIII secolo che ci porta alla Camera Rossa e alla Cappella Interna. Questo corridoio fu costruito nel 1638 da Borromini per creare un passaggio coperto tra la zona della Sagrestia e la nuova ala. Dalle finestre nel piccolo cortile, si vedono le cupolette delle cappelle del Santo. Sulla porta d’ingresso è posta l'iscrizione "Introite In Atria Eius", Entrate nei suoi atri (dal Salmo 96,8).
La "Sala rossa"
Il primo ambiente che incontriamo è la "Sala Rossa". Oggi, questa stanza è un piccolo museo dove sono raccolte preziose reliquie e ricordi legati alla vita del Santo che serve anche come anticamera per la cappella interna del santo. Il colore rosso della tappezzeria è motivato dal fatto che, sin dai primi tempi, l’ambiente venne utilizzato come luogo dove i papi in visita si potevano cambiare e vestire dei paramenti sacri quando venivano a celebrare alla Chiesa Nuova. L’attuale rivestimento è stato rinnovato nel 1945, a spese dell’allora Mons. Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, in occasione della propria Messa d’Argento.
Gli affreschi
Sulla volta, inseriti in una ricca trabeazione architettonica adorna di cariatidi e putti, vediamo una serie di affreschi con scene della vita di s. Filippo Neri, realizzate in gran parte da Niccolò Tornioli da Siena, nel 1643 e solo in parte completati nel 1652 da allievi di Pietro da Cortona. Al centro della volta è l’affresco che narra l’Apparizione della Madonna a s. Filippo malato.
Dentro un medaglione ovale inquadrato da corone di alloro, è rappresentata la visione che S. Filippo ebbe di Maria S.ma nell'aprile 1594, durante una delle sue più gravi ricadute, che lo aveva portato sul punto di morte. Nella sua stanza, Filippo è a letto, separato da una tenda dai suoi e da alcuni medici che lo vegliano. All’improvviso i presenti lo sentono gridare: «Ah, Madonna benedetta! Madonna mia santissima! O Vergine santa! Chi sono io per avere una Vostra Visita?». I discepoli allarmati accostano le cortine e vedono Filippo sollevato in aria con le mani verso l’alto e il volto trasfigurato.
Al tentativo dei suoi di soccorrerlo, egli dice: “Lasciatemi stare, non volete che io abbracci la Madonna che mi viene a visitare”. E passata l’estasi, dice: “Ora non ho più bisogno di voi, la Madonna mi ha guarito”. In effetti, egli si alza dal letto e riprende le sue occupazioni normali tra lo sbalordimento dei presenti.
Nei medaglioni ai lati, dipinti a chiaroscuro monocromatico, troviamo narrati quattro episodi della Vita del santo: Filippo vede la Madonna sorreggere la trave della chiesa in costruzione; S. Filippo esorcizza una donna; S. Filippo appare ad una monaca predicendone la morte; La Pentecoste di Filippo nelle catacombe di S. Sebastiano, eseguita da allievi di Pietro da Cortona.
I ritratti dei pontefici nella Sala rossa
San Filippo nel corso di circa sessanta anni della sua presenza a Roma (1535-1595) ha visto passare sul soglio pontificio ben 12 papi. Altri quattro Papi, dopo la morte di Filippo, si sono certamente occupati della sua canonizzazione avvenuta nel 1622. Altri pontefici nei secoli successivi hanno avuto particolare devozione per il nostro Santo.
Non è questo certo il luogo in cui approfondire il vasto tema delle relazioni di Filippo con i Pontefici del suo tempo. Quello che possiamo dire brevemente è che alcuni di questi hanno avuto con lui un rapporto di grande venerazione, stima e rispetto; altri hanno avuto un poco difficoltà a comprendere il valore veramente innovativo del suo apostolato e non ne hanno favorito l’operato. Ad alcuni, egli ha addirittura profetizzato l’elezione al soglio. Altri lo hanno aiutato e sostenuto nella nascita della Congregazione e nel suo sviluppo o hanno contribuito alla sua canonizzazione.
Con tutti, dato il suo carattere, Filippo ha avuto sempre rapporti molto diretti e sinceri e questo emerge sia dalle sue biografie sia da alcuni cimeli epistolari qui conservati. In questa stanza, sono conservati parecchi ritratti di papi, alcuni dei quali, conosciuti in vita, altri che ne sono stati devoti e fedeli ammiratori. Sopra la porta d'ingresso: Clemente IX, (1667-1669). Sulla parete di fronte: Paolo V (1605-1621) e Gregorio XV (1621-1623), due papi che hanno operato per la sua canonizzazione.
Sulla parete destra: Gregorio XIII (1572-1585), il papa che ha approvato la Congregazione ed ha affidato S. Maria in Vallicella alla stessa; Benedetto XIII (1724-1730), il papa che ha reso festa di precetto il giorno di S. Filippo e Sisto V Peretti; (1585-1590). Sotto la finestra ovale: Leone XI (1605), il già Cardinale Alessandro de’Medici , discepolo e ammiratore di S.Filippo, che regnò solo 26 giorni uno dei più brevi pontificati della storia. Sopra la teca-armadio: Innocenzo X Pamphili (1644-1655) in un quadro che ricorda il più famoso ritratto del Velazquez, oggi conservato alla Galleria Doria Pamphilj. Con alcuni Papi, Filippo ha avuto rapporti di tale dimestichezza e familiarità, da sorprendere.
Un esempio: la lettera scritta da Filippo a papa Clemente VIII esposta sopra una delle vetrine. Filippo si rivolge al Papa rimproverandolo di non essere mai venuto alla Chiesa Nuova a trovarlo, lui che invece ha visite frequenti di Gesù stesso nell’Eucaristia e di molti alti prelati. E con fare deciso, gli comanda di fare ammettere una giovane, figlia di un suo fedele, in un convento di Roma. Il Papa di suo pugno gli risponde sulla stessa lettera, facendogli notare che Filippo gli sembra un poco troppo pieno di sé, vantando queste amicizie. Il papa ritiene di non doverlo venire a trovare, avendo Filippo, più volte, rifiutato la sua nomina a cardinale e, per la giovane, consiglia il nostro di rivolgersi alla superiora. Dopo questa curiosa schermaglia, il papa però con tono molto serio chiede a Filippo di pregare per lui e per la Chiesa.
L’iscrizione
Sulla parete di fronte all’ingresso, un’iscrizione marmorea ricorda l'introduzione della festa di precetto nella diocesi di Roma, il 26 maggio, giorno di s. Filippo Neri, stabilito da Benedetto XIII nel 1725. Sul sarcofago ligneo è collocato il busto in argento del Neri, eseguito dall'orefice bolognese Pietro Zagnoni (1689).
Le reliquie
Varie reliquie ed oggetti appartenuti a S. Filippo, sono conservate nella nicchia e nelle teche della stanza. La nicchia contornata da una ricca mostra marmorea e chiusa da un’elegante imposta di legno traforata e dorata, contiene tre ripiani con diverse lettere ed autografi di Filippo.
Sulla parete verso l’ingresso troviamo un grande armadio a vetri del XIX secolo che, su tre piani, racchiude preziosi oggetti e reliquie. Sul primo ripiano, al centro, troviamo una maschera in cera del volto del Santo realizzata dopo la sua morte.
A sinistra, la giubba bianca donata da S. Pio V a Filippo. Da notare che questo papa, provenendo dall’ordine domenicano, mantenne durante il suo pontificato il saio bianco dell’ordine, come vestito ordinario, iniziando cosi una consuetudine, che vede ancora oggi il bianco come il colore dei vestiti dei Pontefici. Filippo quando portava questi abiti spesso l’indossava in maniera stravagante proprio per allontanare da se ogni possibile vanagloria per doni cosi importanti.
Sul ripiano di mezzo sono conservati indumenti ed oggetti d’uso quotidiano del Santo. Filippo si vestiva in modo molto semplice, spesso con abiti, non certo, nuovi ma sempre puliti ed ordinati. L’esperienza mistica della Pentecoste del 1544 aveva infiammato letteralmente, non solo il suo Spirito, ma anche il suo corpo.
Un calore insopprimibile veniva dal suo corpo, ed anche d’inverno, si poteva vedere girare Filippo vestito solo di una leggera camiciola. Considerate le ore che egli passava nel confessionale, egli dovette chiedere al Papa di essere dispensato dal portare la cotta, prevista dalle norme ecclesiastiche di allora, per non soffocare dal caldo. Il papa, conoscendo bene cosa passasse nel corpo di Filippo, concesse in via eccezionale quanto Filippo chiedeva.
Sul ripiano in basso, a sinistra, vediamo un tabernacolo in alabastro, con il volto di s. Giovanni Battista. Quest’oggetto è un particolarissimo trofeo di guerra preso da un marinaio veneziano, durante la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), ad una galera turca, e successivamente donato alla Congregazione dei Filippini. La presenza dell’immagine di S. Giovanni in una nave musulmana non deve sorprendere in quanto l’Islam considera il Battista, insieme a Gesù, uno dei profeti inviati da Dio prima di Maometto.
In basso al centro, la cassa di velluto rosso che ha protetto le sue spoglie mortali nei primi tre secoli (vedi quanto si dirà al capitolo successivo). In basso a destra un prezioso reliquiario. Nelle altre teche più piccole della stanza, troviamo un armadio ed una cassapanca provenienti da S. Girolamo della Carità. Sopra le teche e sopra il sarcofago sono esposte toccanti reliquie del santo, tra cui alcuni fazzoletti intrisi dal suo sangue. La panca esposta è quella da dove, S. Filippo predicava i suoi sermoni ai primi discepoli dell’Oratorio nelle stanze di S. Girolamo.
Lo stendardo
Sulla parete di sinistra, entrando, si può ammirare il grande stendardo con l’immagine di Filippo utilizzato il giorno della sua canonizzazione (12 marzo 1622). In basso a sinistra, un’iscrizione, apposta successivamente, ricorda la miracolosa guarigione di un uomo che toccando lo stendardo di ritorno dalle celebrazioni nella Basilica di S. Pietro, riacquistò la vista. Ancora di particolare rilievo in questa stanza sono il ritratto del cardinale Cesare Baronio, eseguito da Francesco Vanni (1605) ed il pavimento in cotto bicolore a scacchi romboidali attribuito al Borromini.
Le sepolture di S. Filippo
Nella Stanza Rossa sono conservate diversi sarcofagi che hanno contenuto le sacre spoglie di S. Filippo Neri, per periodi più o meno lunghi. Per inquadrare meglio tali memorie vale la pena fare un poco di cronistoria. S. Filippo muore il 26 maggio 1595 nelle prime ore del mattino. In mattinata egli viene esposto in chiesa e per tre giorni un fiume di fedeli gli rende omaggio. Quindi egli viene sepolto nella cripta comune destinata ai fratelli dell’Oratorio. Due cardinali, Alessandro Medici e Federico Borromeo, intervengono sulla Congregazione per far spostare il corpo di Filippo in un luogo più in vista ed aperto.
Cosi come emerge dai resoconti del Processo di canonizzazione, s’individua rapidamente a tal scopo un piccolo ambiente al termine della navata di destra, sopra la cappella dell’Assunzione ,che viene adattato a sepolcro. Il luogo, dal 1595 al 1602, diventa meta della devozione dei fedeli. Coperto di drappi, alle sue pareti sono appesi i primi ex voto. Il popolo non ha dubbi sulla santità di Filippo ancora prima della canonizzazione.
Nel 1599, Nero dei Neri, ricco fiorentino a Roma, offre di finanziare una cappella per ospitare in maniera degna il corpo di S. Filippo. Sin dall’inizio si prevede un progetto di grande ricchezza e nobiltà. Nella prospettiva dello spostamento del Santo nella nuova cappella, la Congregazione decide una ricognizione del corpo. Questa avviene dal 7 al 13 marzo 1599.
Ci si accorge subito che la fretta con cui è avvenuta la prima sepoltura, ha arrecato parecchi danni. La cassa di noce è rotta e l’umidità è penetrata in profondità distruggendo quasi completamente gli abiti. Sorprendentemente il corpo è trovato in buone condizioni, quasi che non fossero già passati quattro anni.
Filippo allora è vestito con nuovi abiti sacerdotali ed una maschera d’argento viene posta sul suo viso. Premurosamente è così deposto dentro una nuova “cassa di cipresso ornata tutta di velluto cremisino“. Il luogo della sepoltura viene bonificato e la cassa di velluto protetta da un’altra cassa di pioppo grezzo, è lì riposta, in attesa del completamento dei lavori della nuova Cappella.
I lavori iniziano nel 1600 e terminano dopo due anni. S. Filippo viene portato nella nuova cappella con una solenne e commovente liturgia. La cassa di cipresso è posta in una cassa di noce foderata di broccato argento ed oro. Una cancellata di bronzo protegge la sepoltura sotto l’altare Cosi, il corpo del Santo riposa dal 1602 al 1635 sotto l’altare della cappella. La cassa di noce foderata di broccato argento ed oro oggi si può intravedere all’interno del prezioso sarcofago ligneo con le stelle realizzato su disegno del Borromini al 1635, che ha contenuto e protetto per alcuni anni le due casse suddette.
Intorno al 1638 si registra il tentativo da parte di devoti d’altri parti d’Italia, in particolare di Napoli, di avere una parte del corpo del Santo. Personaggi illustri ed influenti riescono a convincere il papa stesso a favore di questa richiesta. Tuttavia il popolo romano dei fedeli di S. Filippo insorge e riesce ad evitare che il corpo di Filippo venga diviso. Dopo questo episodio tuttavia, anche per evitare vandalismi o dissuadere ulteriori tentativi di divisione del corpo, la cassa di cipresso ornata tutta di velluto cremisino viene messa in un sarcofago di legno rivestito di lamine di ferro e ricoperto d’argento sotto l’altare della Cappella e qui rimane per 280 anni fino al 1922.
Nel 1922, in occasione del quarto centenario della canonizzazione del Santo, fatta una ulteriore ricognizione che ancora una volta sorprende tutti per l’eccezionale stato del corpo del Santo, si decide che il corpo di S. Filippo Neri possa rivedere la luce ed essere esposto, cosi come è, ai fedeli.
Viene preparata una preziosa teca di cristallo e bronzo. Il santo, posto nella sua nuova dimora, è portato tra ali di folla in processione per le vie del centro di Roma, fatto di per sè inimmaginabile in una città che, dalla presa di Roma del 1870 in poi, ha visto il Papa ed il mondo cattolico in un duro confronto con il nuovo stato italiano. In questa teca oggi riposa S. Filippo Neri.
La cappella interna di San Filippo
Attraverso un’elegante mostra d'accesso in marmo nero e venature bianche (attribuita al Borromini), entriamo nella Cappella Interna. Questa, di fatto, è il prolungamento naturale della Cappella Esterna del Santo che si trova nella chiesa. Il piccolo sacello aveva, in origine, dimensioni più anguste: proprio per rispondere alle nuove esigenze dei Padri, Borromini l’ingrandisce e ne modifica i preesistenti collegamenti con la Cappella esterna. Giulio Donati, un facoltoso avvocato della Curia romana nel 1641 si offre di decorarla.
Sulla parete di sinistra entrando, protetta da una sottile maglia di ferro, troviamo parte della muratura della camera del Neri, di cui abbiamo già parlato. Lo ricorda in alto una scritta in latino che dice “Ex fragmentis cubiculi S. Philippi Nerii”.
Sulla parete di fronte all’ingresso, una nicchia decorata a stucco accoglie la sedia a braccioli preferita dal santo protetta oggi da una struttura di legno intagliato che aprendosi lascia intravedere il delicato cimelio. L'altare, decorato da colonne è sovrastato da una elegante volta che s’innalza fino alla piccola cupola. Sotto l'altare, due ante apribili consentono la visione del corpo di s. Filippo sotto l’altare della Cappella Esterna.
Sull’altare, un’intensa Visione di s. Filippo Neri (1643) in preghiera, attribuita al Guercino. Sopra, una piccola immagine della Vergine di Cesare Gennai. Sulle pareti laterali sono le due epigrafi dedicatorie della famiglia Donati, benefattrice.
Le stanze superiori
La scala a chiocciola
Una scala a chiocciola ci porta al piano superiore. Dalle finestre s’intravedono il cortiletto interno, i tetti delle cappelle. nonché sui muri del cortile, lapidi funerarie d’antiche sepolture della Chiesa Nuova.
Queste scale sono legate ad un particolare episodio accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale: un gruppo d’ebrei romani fu messo in salvo dai Filippini, che li nascosero in uno dei passaggi che si aprono su queste scale (la cereria), murando la porta d’ingresso per sviare le ricerche dei Nazisti. Di notte, attraverso un’inferriata, fissata in maniera approssimativa alla finestra, essi potevano scendere, con l’aiuto di una scala a pioli nel cortiletto e nel corridoio sottostante per prender aria e sgranchirsi le gambe. Qui rimasero per diverso tempo finché non fu passato il pericolo.
Il corridoio d’accesso
Al piano superiore uno stretto corridoio decorato da finte prospettive architettoniche e dalle figure allegoriche della Fortezza e della Carità, opera di Giuseppe Silvestri conduce all'anticamera e alla cappellina privata del santo. Sopra il primo arco è posto il busto dell'oratoriano Beato Giovanni Giovenale Ancina.
Si accede all'anticamera attraverso una porta, sormontata dal busto di san Filippo e dall’iscrizione “Sacellum Sancti Philippi“.
L’anticamera della stanza del santo
Il primo ambiente è l’anticamera della stanza del santo. Essa con il suo altare al centro è, di fatto, una cappella ma conserva ricordi e reliquie del santo. La volta dell'anticamera è affrescata con l'Estasi di san Filippo, dipinta da Pietro da Cortona nel 1636. Da notare la presenza, sulla sinistra, di un chierico con la barba ed un chierichetto che contravvenendo agli ordini di Filippo, aprono la porticina del piccolo oratorio per assistere all’estasi mistica di S. Filippo durante la celebrazione privata dell’Eucaristia.
Sull'altare è collocato il notissimo dipinto, realizzato da Guido Reni nel 1615, che ritrae San Filippo in contemplazione della Vergine, spostato nel 1774 dalla cappella del santo in chiesa.
Su un lato della stanza si può ammirare una sagoma lignea a colori di san Filippo che veniva esposta nel giardino di Villa Mattei in occasione della refezione della visita alle Sette Chiese per ricordarne sempre l'ideatore in sua assenza o dopo la morte.
Ai lati dell'altare, entro custodie vetrate, sono il letto e il confessionale di Filippo. Si noti la semplicità del lettuccio smontabile fatto da due panche che sostenevano quattro assi di legno ed un grezzo materasso.
Su un lato della Stanza, troviamo un antico pulpito proveniente da s. Giovanni dei Fiorentini. Le pareti di questa stanza sono tappezzate da quadri e arazzi donati dai devoti del santo. Tra le opere di maggior rilievo un San Lorenzo; un San Michele e angeli con i simboli della Passione, bozzetto del dipinto da Pietro da Cortona nella sagrestia; un arazzo dei primi del sec. XVII sul tema della Assunzione della Vergine; un San Giovannino.
La cappella del santo
A sinistra della porta è la croce di san Filippo: stringendola tra le mani, il Santo è passato al Padre.
Attraverso un portale marmoreo, sopra il quale è inserita l'iscrizione commemorativa della traslazione della cappella, si entra nell’oratorio del Santo. Proprio all’interno del vano della porta è inserita la "porticella" originale della cappella di san Filippo, che possiamo vedere raffigurata nel dipinto della volta.
La cappellina privata di Filippo viene ricostruita pietra su pietra qui nel 1635; utilizzando tutti materiali originali preservati dall’incendio e mantenendo fedelmente l'orientamento, la grandezza e la disposizione della stanza originaria. Sull'altare è collocata una copia cinquecentesca della Madonna di S. Maria del Popolo.
Un tabernacolo del sec. XVII, in alabastro, argento e pietre dure, contiene alcune preziose reliquie del santo. Tra queste segnaliamo, il calice usato dal Santo (il cui bordo è segnato dall’impronta dei suoi denti a causa dell’intensità delle sue esperienze mistiche), gli occhiali e il rosario.
Sulle pareti sono allineati, senza un preciso ordine, quadri od oggetti artistici appartenuti al Santo o donati successivamente alla sua morte. Tra gli oggetti di maggior rilievo: un’antica maschera di cera tratta dal calco del volto di san Filippo; alcune riproduzioni di lettere autografe del santo; un bassorilievo con Madonna con Bambino, di scuola fiorentina, già attribuito a Donatello; un trittico bizantino; un rilievo marmoreo raffigurante il Sacrificio di Isacco, del sec. XVII; alcuni ritratti di S. Filippo e di S. Carlo Borromeo; un rame raffigurante San Filippo nelle catacombe; la Madonna con Bambino e santa Martina.
Vicino all’ingresso, si trova il campanello con la cordicella, utilizzato dal santo per dire messa. Tra gli altri oggetti particolari: la cazzuola e il martello in argento e avorio donati, in occasione della costruzione della Reggia di Caserta, dal re Carlo III di Borbone a Luigi Vanvitelli nel 1752, e da quest'ultimo offerti ai padri dell'Oratorio. Ritornando nell’anticamera, una porticina conduce in un piccolo ambiente, già sacrestia, oggi adibito a reliquiario.
Tra le cose da ricordare, un dipinto ex-voto di Pier Leone Ghezzi raffigurante il cardinal Orsini, poi papa Benedetto XIII, quando, travolto da un terremoto a Benevento, è salvato da una preghiera a san Filippo, due piccole cassapanche appartenute a san Filippo, i cappelli dei cardinali Baronio e Tarugi.
La cappella dove era originariamente
la Deposizione di Caravaggio (foto Bruno Brunelli)
Volta della Chiesa di Santa Maria in Vallicella
(foto Paolo Cerino)