Spiegare il Nuovo Testamento passeggiando per il Palatino ed i Fori imperiali. File audio di un itinerario guidato da Andrea Lonardo con i seminaristi del seminario di Genova e le postulanti alcantarine
I file audio che seguono sono le registrazioni delle meditazioni tenute da Andrea Lonardo per i seminaristi del Seminario di Genova e le postulanti alcantarine in una due giorni itinerante tenutasi il 29 e 30 gennaio 2013. Per approfondimenti, vedi la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (17/3/2013)
I giorno
Piazza Navona, l'antico stadio di Domiziano e l'Apocalisse di San Giovanni apostolo. L'agnello che apre i sette sigilli in Sant'Ivo alla Sapienza
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La Chiesa Nuova ed i "misteri" di Cristo: nota metodologica. San Pietro, il Colle Vaticano e la tomba di Pietro
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Parlare di Adamo ed Eva e del Dio creatore all'Orto Botanico. I collaboratori di Paolo presso l'antica Sinagoga del vicolo dell'Atleta a Trastevere
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II giorno
Visita del Palatino e dei Fori Romani: il Nuovo testamento e Roma, Pilato, Erode il grade, Erode Antipa ai Fori. L'altare al Dio ignoto del Palatino e la più antica rappresentazione del crocifisso, ma sotto forma di asino
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La zona portuale dove forse sbarcarono San Pietro e poi Sant'Ignazio d'Antiochia e la Via Sacra. L'Arco di Tito e la lettera agli Ebrei indirizzata a Roma. La Curia del Senato dove Erode il grande divenne re. San Paolo in Campidoglio dinanzi al Tempio della triade capitolina, immagine dell'idolatria
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Santa Maria Antiqua e Cola di Rienzo. Il vangelo di Marco, scritto forse a Roma. San Paolo, San Pietro ed il Carcere Mamertino. I Fori imperiali. Il Colosseo ed il martirio di Ignazio di Antiochia. San Clemente
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Questa l'antologia di testi commentata durante l'itinerario:
Indice
- I giorno
- 1/ Apocalisse (in piazza Navona)
- 2/ L'agnello dell'Apocalisse nel cortile di San’Ivo alla Sapienza
- 3/ Raccontare la storia della Chiesa e presentare i "misteri" di Cristo in catechesi: Filippo Neri, Cesare Baronio e la Chiesa nuova
- 4/ In piazza San Pietro (l'itinerario comprende anche la visita agli scavi sotto la basilica con guida autorizzata dall'Ufficio scavi)
- 5/ Trastevere, presso l'antica sinagoga in vicolo dell'Atleta
- II giorno
- Cronologia
- 1/ Il debito in Romani (vicino al Circo del Palatino)
- 2/ Il vangelo di Augusto e il vangelo di Gesù Cristo (dinanzi alla Domus Augustana)
- 3/ Dinanzi all'altare al Dio ignoto nel Museo Palatino, poi dinanzi al graffito del crocifisso in forma di asino
- 4/ Dinanzi al Tempio di Apollo
- 5/ Tiberio, Pilato e la croce (dinanzi alla Domus Tiberiana)
- 6/ La lettera agli Ebrei, dinanzi all'Arco di Tito
- 7/ Erode il Grande, dinanzi alla Curia del Senato
- 8/ Rm e il peccato originale, al Campidoglio, dalla terrazza sui Fori
- 9/ Il Vangelo di Marco, presso la basilica di San Marco
- 10/ La sofferenza di Pietro e Paolo, presso il Carcere Mamertino
- 11/ Traiano ed Ignazio d’Antiochia, presso il Colosseo
- 13/ Clemente di Roma, presso la Basilica di San Clemente
- 14/ Arco di Costantino
- 15/ San Paolo fuori le Mura (non c'è stato tempo di fare questa parte)
I giorno
1/ Apocalisse (in piazza Navona)
G.Biguzzi, Gli splendori di Patmos. Commento breve all’Apocalisse, Paoline, Milano, 2007
da G.Biguzzi, Il tempio e la statua che provocarono la composizione dell’Apocalisse, da www.gliscritti.it
Apoc 13 narra la visione della bestia che emerge dal mare (vv. 1-10) e poi quella della bestia che invece emerge dalla terra (vv. 11-18), la quale organizza un vero e proprio culto della prima bestia. Leggiamo: “... Operava grandi prodigi, fino a far scendere fuoco sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi che le era permesso di compiere in presenza della (prima) bestia, sedusse gli abitanti della terra dicendo di erigere una statua alla bestia ecc. Le fu anche concesso di animare la statua della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia” (Apoc 13,13-15).
Dal momento che Giovanni dice di avere visto le sue visioni a Patmos (Apoc 1,9), dove era al soggiorno obbligato, il mare da cui sorge la prima bestia è evidentemente il Mediterraneo, quello che i Romani chiamavano “mare nostrum”, mentre la terra altro non può essere che l’Asia Minore, l’attuale Turchia, là dove si trovavano le sette città alle quali l’Apocalisse è diretta. Per questo e per altri motivi la grande maggioranza dei commentatori ritiene che la prima bestia sia l’imperatore romano, adorato come dio soprattutto in Asia Minore, e che la seconda bestia sia l’organismo politico-religioso incaricato di promuovere le varie manifestazioni di quel culto.[...]
Il terzo tempio imperiale della provincia romana di Asia fu edificato a Efeso, dopo che il primo era stato edificato a Pergamo nel 29 a.C. e il secondo a Smirne, 50 anni dopo. Ebbene, di quel tempio efesino sono stati portati alla luce dagli archeologi la grande piattaforma su cui sorgeva, l’altare che era collocato di fronte alla scalinata di accesso, e infine la statua, o una delle statue cultuali.
Tredici iscrizioni dedicatorie che sono giunte fino a noi consentono di collocare l’anno di inaugurazione del tempio intorno all’anno 90 d.C., e cioè sotto l’imperatore Domiziano, il quale dedicò il tempio al padre Vespasiano e al fratello Tito oltre che a se stesso. In altre parole il tempio era consacrato al culto degli imperatori della famiglia flavia, la stessa che a Roma pochi anni prima aveva eretto il Colosseo, o anfiteatro flavio. [...]
Finita la visita alle imponenti rovine della Efeso antica, di solito si fa visita al museo di Selçuk, - come si chiama il villaggio turco che sorge a qualche distanza dalla zona archeologica. In quel museo c’è una statua i cui resti sono venuti alla luce a due riprese, nel 1930 e nel 1969-70. Era una statua colossale, che misurava 7 metri di altezza e rappresentava probabilmente non lo stesso Domiziano, come spesso si trova scritto, ma suo fratello, l’imperatore Tito. La statua era parte in marmo (la testa, le braccia, le gambe: praticamente le parti conservate ed esposte al museo) e parte in legno. Il fatto che il torso dell’imperatore fosse in legno dice che la statua non era fatta per stare esposta alle intemperie, e che, quindi, ospitata all’interno del tempio, era la statua o una delle statue fatte oggetto di culto da parte degli efesini e degli abitanti della regione.
Se il tempio efesino, il suo altare e la sua statua furono inaugurati nel 90 d.C., e se l’Apocalisse fu scritta, come sembra, nel 96 d.C., allora è legittimo, oltre che suggestivo, fare visita a Efeso e sentirsi davanti a quel tempio e a quella statua contro cui tutta l’Apocalisse sembra concepita e scritta. [...]
L’autore dice di chiamarsi Giovanni (Ap1, 1; 1, 4; 1, 9; 22, 8). Si ipotizza una figura della “scuola” di Giovanni; qualcuno lo chiama “Giovanni di Patmos” (G.Biguzzi). Ancora una volta si torna alla questione dell’ “origine apostolica” (secondo l’espressione della Dei Verbum)
Efeso (tempio della dea Artemide, una delle 7 meraviglie del mondo antico), città con forse mezzo milione di abitanti, Pergamo (con l’altare di Zeus ora al Pergamon Museum di Berlino e l’Asclepeion dove insegnò medicina Galeno), Le altre 5 città (Smirne, sedicente patria di Omero, Sardi, capitale del proverbiale re Mida, Tiatira, Filadelfia e Laodicea)
Sullo sfondo Roma: “Babilonia, la grande, la madre delle meretrici... e vidi la donna ebbra del sangue dei santi e del sangue dei testimoni di Gesù”, Ap 17,5-6; “Qui ci vuole una mente che abbia saggezza. Le sette teste sono i sette colli sui quali è seduta”, Ap 17, 9
“Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei”, Ap 13,18
Una ipotesi: NRWN QSR: n=50+r=200+w=6+n=50+q=100+s=60+r=200: totale 666, ma quello che è certo è che è un nome d’uomo (non è Dio!) ed è un numero dimezzato, cioè fallimentare
Persecuzione locale (da Smirne carcerati, a Pergamo Antipa ucciso, a Filadelfia persecuzione imminente nella quale sarà custodita)
Idolatria degli idoli
Idolatria del culto imperiale (un uomo si fa Dio!)
Aspetti importanti
-Rapporto AT-NT (in 404 versetti, l’AT è citato forse 500 volte; cfr., solo per un esempio, l’albero della vita al termine dell’Ap); Ap conosce l’ebraico (Abaddon, Armaghedon), ma anche l’ambiente ellenistico
-Il simbolismo
-Settenari, nei quali l’importanza non sta sul settimo elemento, ma sulla completezza
Gesù Cristo e la storia, secondo l'Apocalisse di San Giovanni di Heinrich Schlier
Per l'uomo del nostro tempo è indispensabile riflettere continuamente sull'essenza della storia. Poiché è la sua storia, e sembra sfuggirgli. Lo sguardo dello storico, rivolto all'indietro, penetra per un raggio sempre più vasto in sempre maggiori profondità dei millenni sepolti, ma non riesce con tutto questo a scoprire quale sia l'essenza della storia. Nemmeno le sempre più violente esperienze della nostra storia più recente ci sono di aiuto. Anche i problemi di cui essa ci grava vengono già intercettati dalle affascinanti scoperte della natura, delle sue energie e dei suoi spazi. Già denominiamo la nostra epoca secondo tali scoperte e non più secondo personaggi e avvenimenti storici. Ma se non ci lasciamo più porre problemi dalla storia, diventiamo noi stessi senza storia e perdiamo così la nostra umanità.
Poiché l'uomo è un essere storico. Volendo esaminare ciò che è la storia, possiamo consultare diverse tradizioni della storia. Questa consultazione non è inutile. Un dialogo tra uomini chiarisce sempre molte cose che riguardano l'uomo. Resta solo dubbio se per tale via non abbiamo a ricevere suggerimenti che ci siamo già dati da noi stessi per principio. La storia che noi in tal caso interroghiamo non si comprende da se stessa. Essa non sta mai al di fuori del suo divenire e sente così sempre solo la propria parola. Sia che l'ascoltiamo da vicino seriamente partecipi di essa, sia che la consideriamo da distanza storica, nel qual caso, come dice Musil, «di cento fatti novantacinque sono andati perduti, per cui quelli rimasti si lasciano ordinare come si vuole», la storia dice, come storiografia, questo o quel fatto 'accaduto', ma ci tace la sua essenza.
Andrej Tarkovski (in G.Ravasi, Apocalisse non apocalittica, Il Sole-24 Ore – Domenica, 19 agosto 2007, p.34
L’Apocalisse è forse la più grande creazione poetica che sia mai esistita sulla terra. È un racconto del nostro destino. È sbagliato pensare che contenga solo l’idea della punizione. La cosa più importante che essa custodisce è la speranza.
Spe salvi 43-44
La fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell'immortalità dell'amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l'uomo sia fatto per l'eternità; ma solo in collegamento con l'impossibilità che l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita.
44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un'immagine di spavento? Io direi: è un'immagine che chiama in causa la responsabilità.
2/ L'agnello dell'Apocalisse nel cortile di San’Ivo alla Sapienza
dalla Prefazione di Davide Rondoni ad un volume sulla Pala di Gand di Jan e Hubert Van Eyck, curato da André Pinet
Come se avessero compreso che anche la loro storia oscura, il loro primario tradimento e il loro ritrovamento non fossero niente se non l'annuncio e il presentimento che doveva accadere qualcosa di più forte ancora.
Di più che un tradimento e un ravvedimento. Qualcosa di più radicale. Di più misterioso che non la sola conoscenza del male e del bene. Come se sapessero che doveva accadere qualcosa di più oscuro. E guardano in quella direzione. Maggiormente scandaloso che non la nudità della loro presa di coscienza del bene e del male.
Doveva accadere che male e bene si incontrassero fino al punto più alto della loro forza contraddittoria. Fino al punto più alto e profondo del loro combattimento. Fino alla figura e alla vicenda che non lascia nemmeno spazio tra il bene e il male, perché li assume insieme, contemporaneamente. In una figura sola, in una agonia. Che è dell'innocente sull'altare.
Il punto in cui il bene non si accontenta di succedere al male. Non si accontenta di tenergli testa. Di vincere. Come se non bastasse nemmeno quel superamento. Quel mettere in fila, e nella successione giusta, l'esperienza del male e quella del bene. Come se si dovessero addirittura abbracciare. E, scandalosamente, baciare. Cosa è infatti l'innocente che muore se non l'atto imprevedibile dove il male è usato dal bene? Dove non si cancella il male superandolo, lasciandoselo alle spalle come l'albero spogliato. Ma il male diviene attore del bene.
Mistero dei misteri. Figura unica adombrata da sempre sotto ogni latitudine e usanza: il sacrificio dell'innocente.
Ma qui c'è ancora da stupire. Da trasalire. Perché non basta che il male sia usato dal bene. Che il sangue coli per un bene. Non basta andare oltre la sola dinamica colpa e punizione. Perché l'agnello, e il sacrificio stavolta è Dio stesso. Non è colui che attende perduto nei reami celesti. No, è lui a belare, a farsi embrione, vecchio da spostare sul letto, bambini uccisi a colazione, donna che supplica in video, ragazzetto morto di fame, lui è l'essere indifeso che poggia la testa e offre la giugulare.
È Dio stesso che lascia i cieli e posa la testa sulla pietra. E bela come un abbandonato. O pittore, di due nomi, due cuori e due o quante mani che hai voluto fissare per i secoli questo momento che non passa. Dio che mette se stesso sull'altare. E il suo belato fa tremare la storia intera.
cfr. Le cronache di Narnia, Il viaggio del veliero e Zurbaran, Agnus Dei
da Ruperto di Deutz
Ruperto di Deutz, teologo vissuto a cavallo fra l’XI ed il XII secolo, si chiede come mai, dopo che Dio ci ha promesso nella Genesi (Gen 49, profezia su Giuda) un leone, ora sul trono ci viene mostrato un agnello! Pensate alla differenza che intercorre tra questa immagine e la simbolica araldica imperiale che si avvale della figura dell’aquila o del leone. Di solito viene messo l’animale forte a simboleggiare il potere del re.
3/ Raccontare la storia della Chiesa e presentare i "misteri" di Cristo in catechesi: Filippo Neri, Cesare Baronio e la Chiesa nuova
Cesare Baronio e la storia vista dall'Oratorio. È Filippo Neri il padre degli "Annales", di Edoardo Aldo Cerrato
Che cosa indusse san Filippo Neri a orientare allo studio della storia della Chiesa il giovane sorano Cesare Baronio, giunto a Roma da Napoli nell'ottobre del 1577 per continuare gli studi di Legge?
Nella deposizione al processo di canonizzazione di padre Filippo, richiamando gli inizi della sua esperienza all'Oratorio, il Baronio attesta: "Mi comandò ch'io parlassi dell'istoria ecclesiastica; replicando io che non era secondo il mio gusto, ma che ero più presto a trattare cose dello spirito (...) agramente mi insisté; il che mi ha dato a pensare che il Padre, illuminato dallo Spirito Santo, volesse che tal fatica, alla Chiesa di Dio utile, si facesse (...) e facendomi parlare di questo per trent'anni nell'Oratorio, senza per così dire avvedermene, mi trovo aver fatta questa fatica".
La "fatica" è, ovviamente, la composizione degli Annales Ecclesiastici che nascono dalla trentennale esposizione nell'Oratorio della storia della Chiesa: lavoro fondato sull'amore filiale per la Chiesa, ma nutrito, mano a mano che l'impegno avanzava, dalla ricerca severa e dallo studio dei documenti, in perfetta sintonia con la scuola di Filippo, ardente di pietà devota, ma per nulla incline a fantasie e illusioni.
La trattazione della storia rappresentava senza dubbio una felice novità, quando l'esposizione di argomento storico non rientrava - né in forma sistematica, né saltuariamente - nel programma di formazione spirituale di nessuna delle antiche come delle recenti istituzioni dedite all'apostolato.
La scelta di Filippo Neri ha radice, certamente, nella sua impostazione di uomo pratico, attento a privilegiare i fatti e la concretezza, invece che le teorie e le astratte argomentazioni. Ma non si può prescindere, nel valutarla, anche dalla speciale capacità che egli mostra, in vari ambiti, di intuire i bisogni del tempo e di cercare per essi concrete soluzioni.
Filippo Neri ebbe "antenne" speciali. Egli che, senza mai parlare di riforma, cambiò attraverso il suo ministero il volto dell'Urbe, sentì forse, e in modo più chiaro di altri, l'esigenza di introdurre i discepoli, attraverso la storia della Chiesa - non soltanto mediante le vite dei santi (che tanto spazio avevano nell'Oratorio) - nella viva esperienza di fede che aveva percorso i secoli; segnata, senza dubbio, da zone d'ombra, ma concreta vicenda storica in cui si attua l'opera della salvezza. Non è già comprensibile a questa luce la predilezione di Filippo per le catacombe, memoria storica dei martiri, e la rinnovata proposta di visita alle Sette Chiese, come incontro vivo e concreto con la grande testimonianza della tradizione cristiana?
È lecito chiedersi, tuttavia, se padre Filippo non abbia anche percepito l'importanza che l'argomentazione storica rivestiva nel dibattito acceso dalla Riforma protestante. Si sarebbe presto diffuso in Europa il forte attacco critico, condotto su base storica, contro la Chiesa cattolica dalle Centurie di Magdeburgo, con le quali Matthias Vlacich (Flacio Illirico) si proponeva, con un piano prettamente teologico, di scardinare la legittimità storica del cattolicesimo romano dimostrando la degenerazione della Chiesa di Roma rispetto alle origini.
La pubblicazione dei primi tre tomi della Ecclesiastica historia integram Ecclesiae Christi ideam (...) secundum singulas centurias vedeva la luce a Basilea nel 1559, ma già nel 1554, in una Consultatio de conscribenda accurata historia ecclesiae, parlando della futura pubblicazione delle Centurie, Flacio Illirico non nascondeva la decisiva spinta polemica antiromana; e nel 1556, aveva pubblicato a Basilea una serie di testimonianze antipapali che costituiranno l'ossatura delle Centurie: il Catalogus testium veritatis qui ante nostram ætatem Pontifici Romano eiusque erroribus reclamaverunt.
L'incarico conferito da padre Filippo a Baronio si situa pochi mesi avanti l'edizione del primo volume delle Centurie, ma erano passati quattro anni dalla pubblicazione della Consultatio e due anni da quella del Catalogus. Non è azzardato pensare - come suggerisce anche Hubert Jedin - che a Roma, dove con facilità confluivano le notizie, egli ne fosse al corrente.
Si è dibattuto sull'ampiezza e la profondità della cultura di san Filippo Neri, della quale molti contemporanei hanno testimoniato l'eccellenza: quel che è certo è che egli possedeva la vivace intelligenza che consente di captare - anche in ambito culturale - i fermenti più significativi.
A fronte della sfida protestante, la Chiesa cattolica presentava se stessa come la forma attuale, ma fedele, della Chiesa apostolica. La prima risposta cattolica alle Centurie di Magdeburgo sarebbe giunta nel 1573 con l'Adversus Magdeburgenses Centuriatores del gesuita Francisco Turriano, che pone in evidenza lo scarso rigore degli autori delle Centurie o addirittura l'ignoranza di ogni buona regola storiografica; ma in campo cattolico si diffondeva la consapevolezza che la forza d'urto delle Centurie di Flacio stava nel fatto di proporre la ricostruzione globale della vita della Chiesa; e che occorreva pertanto rispondere con un'opera paradigmatica che si ponesse allo stesso livello.
Tentarono l'impresa Onofrio Panvinio e Pietro Canisio, ma i loro scritti, pur validi, si rivelarono insufficienti. E a nulla approdò anche la commissione cardinalizia istituita da Pio V per confutare i centuriatori. Nel dicembre del 1578 Gregorio XIII affidò a Carlo Sigonio l'incarico di comporre una Historia ecclesiastica: lo storico la concepirà nel rispetto dei principi enunciati dal cardinale Gabriele Paleotti, ma l'opera rimase incompiuta.
Cesare Baronio, che per dieci anni aveva elaborato e approfondito il materiale raccolto fin dall'inizio del suo incarico, era ormai pronto a rispondere all'impegno e poteva iniziare nel 1588 la pubblicazione degli Annales Ecclesiastici che avrebbero raggiunto, l'anno della sua morte, il numero di dodici volumi in folio illustrando la storia della Chiesa dalle origini al 1198.
Pensò a quest'opera padre Filippo quando indusse Baronio allo studio della storia per i sermoni dell'Oratorio?
Nel "Ringraziamento" a Neri, posto a capo del IX volume (1598), quando ormai il padre era morto da tre anni e il suo processo di canonizzazione era iniziato, Cesare Baronio lo afferma; come pure farà nella seconda deposizione al processo canonico, rilasciata nel 1607, quando citerà il sogno in cui aveva visto il santo conferirgli esplicitamente l'incarico di scribere Annales.
Il distaccato atteggiamento del santo verso la traduzione in scrittura delle fatiche baroniane è tuttavia un fatto, ampiamente documentato: non da ascriversi, certo, a mancanza di interesse, ma piuttosto alla comprovata manifestazione del carattere di Filippo e alla costante preoccupazione per la crescita dei discepoli nell'umiltà; senza dimenticare che non mancava la realistica preoccupazione delle priorità incombenti sulla giovane Congregazione.
È di Filippo la paternità degli Annales: certamente della finalità di essi, se non dei tomi - alcuni editi, tuttavia, da una tipografia appositamente allestita dalla congregazione, vivente il padre - che diedero fama universale al discepolo già famoso per la pubblicazione del Martyrologium Romanum e delle Adnotationes che lo accompagnavano. Fu padre Filippo, infatti, a introdurre il Baronio nella attività che gli avrebbe consentito di rispondere con solidi argomenti all'attacco con cui il mondo protestante cercava di minare, su base storica, la dottrina della Chiesa Romana.
da Joseph Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004
C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza il rispetto di ciò che è sacro. Essa comporta l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi.
cfr. contro San Francesco unico santo! Perché San Francesco d’Assisi è stato un cristiano e non Gesù Cristo un francescano: una questione importante per orientarsi nella fede cristiana, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it)
dalla "Introduzione alla vita devota" di san Francesco di Sales, vescovo, parte 1, Cap. 3
Nella creazione Dio comandò alle piante di produrre i loro frutti, ognuna "secondo la propria specie" (Gn 1, 11). Lo stesso comando rivolge ai cristiani, che sono le piante vive della sua Chiesa, perché producano frutti di devozione, ognuno secondo il suo stato e la sua condizione. La devozione deve essere praticata in modo diverso dal gentiluomo, dall'artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dalla donna non sposata e da quella coniugata. Ciò non basta; bisogna anche accordare la pratica della devozione alle forze, agli impegni e ai doveri di ogni persona. Dimmi, Filotea, sarebbe conveniente se il vescovo volesse vivere in una solitudine simile a quella dei certosini? E se le donne sposate non volessero possedere nulla come i cappuccini? Se l'artigiano passasse tutto il giorno in chiesa come il religioso e il religioso si esponesse a qualsiasi incontro per servire il prossimo come è dovere del vescovo? Questa devozione non sarebbe ridicola, disordinata e inammissibile? Questo errore si verifica tuttavia molto spesso. No, Filotea, la devozione non distrugge nulla quando è sincera, ma anzi perfeziona tutto e, quando contrasta con gli impegni di qualcuno, è senza dubbio falsa. L'ape trae il miele dai fiori senza sciuparli, lasciandoli intatti e freschi come li ha trovati. La vera devozione fa ancora meglio, perché non solo non reca pregiudizio ad alcun tipo di vocazione o di occupazione, ma al contrario vi aggiunge bellezza e prestigio. Tutte le pietre preziose, gettate nel miele, diventano più splendenti, ognuna secondo il proprio colore, così ogni persona si perfeziona nella sua vocazione, se l'unisce alla devozione. La cura della famiglia è resa più leggera, l'amore fra marito e moglie più sincero, il servizio del principe più fedele, e tutte le altre occupazioni più soavi e amabili. E' un errore, anzi un'eresia, voler escludere l'esercizio della devozione dall'ambiente militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalle case dei coniugati. E' vero, Filotea, che la devozione puramente contemplativa, monastica e religiosa può essere vissuta solo in questi stati, ma oltre a questi tre tipi di devozione, ve ne sono molti altri capaci di rendere perfetti coloro che vivono in condizioni secolari. Perciò dovunque ci troviamo, possiamo e dobbiamo aspirare alla vita perfetta.
- hanno smontato il giocattolo ed ora non sanno ricostruirlo! l’arte obbliga a rappresentare in unità il mistero!
CCC 512 Il Simbolo della fede, a proposito della vita di Cristo, non parla che dei misteri dell'incarnazione (concezione e nascita) e della pasqua (passione, crocifissione, morte, sepoltura, discesa agli inferi, risurrezione, ascensione). Non dice nulla, in modo esplicito, dei misteri della vita nascosta e della vita pubblica di Gesù, ma gli articoli della fede concernenti l'incarnazione e la pasqua di Gesù illuminano tutta la vita terrena di Cristo. «Tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui [...] fu assunto in cielo» (At 1,1-2) deve essere visto alla luce dei misteri del natale e della pasqua.
CCC 513 La catechesi, secondo le circostanze, svilupperà tutta la ricchezza dei misteri di Gesù. Qui basta indicare alcuni elementi comuni a tutti i misteri della vita di Cristo (I), per accennare poi ai principali misteri della vita nascosta (II) e pubblica (III) di Gesù.
Introduzione a R. Cantalamessa, I misteri di Cristo nella vita della Chiesa, Ancora, Milano 1991, pp. 5-13
«Nell’accezione storica, misteri sono gli eventi stessi, prima prefigurati nell’Antico Testamento e poi realizzati da Cristo nel Nuovo, in quanto sono carichi di un significato salvifico che trascende lo spazio e il tempo. Indicano dunque il fatto, più il significatodel fatto. «Discese dal cielo per la nostra salvezza», «morì per i nostri peccati», «risorse per la nostra giustificazione»: queste frasi ed altre analoghe - formate da un verbo che indica l’evento e da un complemento che indica il significato dell’evento - entrarono ben presto a far parte dei simboli di fede. Esse designano quello che si intende, anche in questo libro, per «misteri della vita di Cristo». Nell’accezione sacramentale, la parola «misteri» (mysteria) indica invece i riti sacri o i segni, attraverso i quali quegli avvenimenti storici vengono rappresentati e attualizzati nella liturgia della Chiesa. [...] Si tratta, evidentemente, di accentuazioni diverse e complementari, perché è chiaro che il mistero cristiano, completo e integrale, comprende l’una e l’altra cosa insieme. [...] Nel medioevo, la meditazione dei misteri di Cristo era orientata quasi esclusivamente alla devozione privata. Ora, come si è accennato, essa sta tornando a essere orientata anche alla catechesi, alla teologia, alla predicazione e, in genere, all'edificazione e all’approfondimento della fede, proprio come era all’inizio, quando le narrazioni evangeliche presero «forma» nella Chiesa, e all’epoca dei Padri, quando non esisteva ancora una distinzione così marcata tra teologia, esegesi e spiritualità». La stessa prospettiva emerge ogni volta che si utilizza in catechesi la storia dell’arte, ricorrendo all’iconografia: ci si accorge immediatamente che gli artisti non rappresentano quasi mai i dettagli di un singolo vangelo, bensì ricostruiscono il “mistero” in sé a partire dall’evangelo quadriforme. I due volumi di J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007 e LEV, Città del Vaticano 2011, si pongono nella stessa prospettiva.
4/ In piazza San Pietro (l'itinerario comprende anche la visita agli scavi sotto la basilica con guida autorizzata dall'Ufficio scavi)
Tacito riporta i fatti dell’anno 64 (Annali, 15, 44, 2-5):
Né per umani sforzi, né per elargizioni del principe, né per cerimonie propiziatrici dei numi, perdeva credito l’infamante accusa per cui si credeva che l’incendio fosse stato comandato. Perciò, per tagliar corto alle pubbliche voci, Nerone inventò i colpevoli. Sottopose a raffinatissime pene quelli che il popolo chiamava crestiani. Essi venivano invisi per le loro nefandezze. Il loro nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condotto al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente sopita, questa perniciosa superstizione proruppe di nuovo non solo in Giudea, luogo di origine di quel flagello, ma anche in Roma, dove tutto ciò che è vergognoso ed abominevole viene a confluire e trova la sua consacrazione. Per primi furono arrestati coloro che facevano aperta confessione di tale credenza, poi, su denuncia di questi, ne fu arrestata una gran moltitudine non tanto perché accusati di aver provocato l’incendio, ma perché si ritenevano accesi d’odio contro il genere umano. Quelli che andavano a morire erano anche esposti alle beffe: coperti di pelli ferine, morivano dilaniati dai cani, oppure erano crocifissi, o arsi vivi a mo’ di torce che servivano ad illuminare le tenebre quando il sole era tramontato. Nerone aveva offerto i suoi giardini per godere di tale spettacolo, mentre egli bandiva i giochi nel circo ed in veste di auriga si mescolava al popolo, o stava ritto sul cocchio. Perciò, per quanto quei supplizi fossero contro gente colpevole e che meritava tali originali tormenti, pure si generava verso di loro un senso di pietà, perché erano sacrificati non al comune vantaggio, ma alla crudeltà di un principe.
W. Trilling, Commento al vangelo di Matteo, Città Nuova:
Le espressioni “legare e sciogliere” derivano dal linguaggio rabbinico, e significano che uno ha l’autorità di dichiarare giusta o falsa una dottrina. Un secondo significato riguarda l’autorità di escludere qualcuno dalla comunità… o di accoglierlo in essa.
da Joseph Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.9-31
Dobbiamo tener conto del fatto che la comunità dei discepoli di Gesù non è un gruppo amorfo. In mezzo a loro c'è il nucleo compatto dei Dodici, accanto al quale, secondo Luca (10,1-20), si colloca altresì la cerchia dei settanta o settantadue discepoli. Va tenuto presente che solo dopo la risurrezione i Dodici ricevono il titolo di «apostoli». Prima di allora sono chiamati semplicemente «i Dodici». Questo numero, che fa di loro una comunità chiaramente circoscritta, è così importante che, dopo il tradimento di Giuda, viene nuovamente integrato (At1,15-26). Marco descrive espressamente la loro vocazione con le parole: «e Gesù ne costituì Dodici » (3,14). Il loro primo compito è quello di formare insieme i Dodici; a ciò si aggiungono poi due funzioni: «che stessero con lui e potesse inviarli a predicare» (Mc3,14). Il simbolismo dei Dodici è perciò di decisiva importanza: è il numero dei figli di Giacobbe, il numero delle tribù d'Israele. Con la formazione del gruppo dei Dodici Gesù si presenta come il capostipite di un nuovo Israele; a sua origine e fondamento sono prescelti dodici discepoli. Non poteva essere espressa con maggiore chiarezza la nascita di un popolo che ora si forma non più per discendenza fisica, bensì attraverso il dono di «essere con» Gesù, ricevuto dai Dodici che da lui vengono inviati a trasmetterlo.
dalla nota della Bibbia di Gerusalemme a Mt 16, 18 (BJ Mt 16, 18+)
Né la parola greca petros, e nemmeno, sembra, il suo corrispondente aramaico kefa (“roccia”) erano usati come nomi di persona prima che Gesù avesse chiamato così il capo degli apostoli per simboleggiare il suo compito nella fondazione della chiesa.
in tutti gli “autori” del NT c’è Cefa/Pietro, anche in chi lo contesta!
da Prima che venga notte, di Marina Corradi, Marietti, 2008, pp. 63-64
È dall’alto che si vede bene. Bisogna salire le scale della cupola fino all’anello interno e sovrastante la Basilica – quello che porta incisa la scritta “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo aecclesiam meam”. Da lì, dove si affacciano i turisti senza fiato su San Pietro sotto di loro spalancata, si vede con nettezza come la verticale del vertice della cupola precipiti con rigorosa geometria sull’altare centrale; questo a sua volta eretto esattamente sopra il luogo in cui furono sepolti i resti di Pietro. Come uno squarcio, un taglio, una ferita fra il cielo e la terra di Roma. Fra la gran cupola rosata dominante la distesa dei tetti, e il buio antico delle Grotte vaticane e del passato. Super hanc petram. Questa pietra, questa e non un’altra, qui e non altrove. Perché qui fu sepolto il primo apostolo, il prescelto, il fondatore. Super hanc petram aedificabo, promessa non metaforica, ma assolutamente materiale. Qui la tomba, qui la Chiesa è sorta. Esattamente in quel luogo, e nemmeno un poco più in là. Straordinaria carnalità della Chiesa, ansia di incarnarsi perché gli uomini possano vedere, e toccare. Basterebbe osservare la verticale su cui ruota l’asse della Basilica vaticana per capire quanto è lontana dal cristianesimo la parola utopia, tanto cara ai sognatori e agli sciocchi (ou tòpos, non luogo, senza luogo). La Chiesa che nasce ha fin da subito il suo luogo, edificata sopra quella pietra. Dopo duemila anni, è qui, ancora. Caduti tutti gli imperi, morti e dimenticati re e sovrani e tiranni, cancellati dal tempo i loro nomi sulle tombe orgogliose. San Pietro è qui, immensa e immobile in fondo alla piazza in un’alba di giugno. Larga, imponente in ogni colonna del colonnato, come piantata per restare per sempre. Ma è in alto che occorre andare, per vedere quell’invisibile verticale dalla cupola alla profondità della terra, quella vertigine che coniuga un sepolcro e il cielo. Il centro del mondo, l’alfa e l’omega, è una pietra nel buio qui sotto. Non è una metafora, è la parola data da un costruttore: Super hanc petram aedificabo. La promessa è lì, geometricamente, vertiginosamente innalzata.
da Joseph Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo: saggi di cristologia e liturgia, Jaca Book, Milano, 1996, pp. 39-47
La situazione di fede e teologia è oggi in Europa contrassegnata ampiamente da senso di stanchezza nei confronti della Chiesa. La contrapposizione «Gesù sì, Chiesa no» sembra essere tipica del pensiero di una intera generazione. Non giova molto, di contro a questa affermazione, voler poi mettere in luce anche gli aspetti positivi della Chiesa e la sua inseparabilità da Gesù. Per comprendere il reale bisogno di fede del nostro tempo bisogna andare più a fondo.
Infatti dietro l'ampiamente diffusa contrapposizione tra Gesù e la Chiesasi nasconde ultimamente un problema cristologico. La vera e propria contrapposizione a cui ci dobbiamo opporre non viene espressa dalla formula «Gesù sì, Chiesa no»; dovrebbe piuttosto venir descritta con la frase «Gesù sì, Cristo no» oppure «Gesù sì, Figlio di Dio no».
C'è oggi una vera e propria moda di Gesù con le più diverse accentuazioni: Gesù nei film, Gesù nelle opere rock, Gesù come parola-chiave di opzioni politiche contestatrici. Tutti questi fenomeni esprimono forme di entusiasmo e passione religiosa, che vorrebbero appoggiarsi alla misteriosa e affascinante figura di Gesù e alla sua forza interiore, ma allo stesso tempo non vogliono sapere nulla di ciò che di Gesù dice la fede della Chiesa e, a suo fondamento, la fede degli evangelisti.
Gesù appare come uno degli «uomini determinanti», come ha detto Karl Jaspers. Ciò che di lui colpisce è la sua dimensione umana. La confessione di fede per cui egli è il Figlio unigenito di Dio sembra solo allontanarlo da noi, collocarlo in ambiti inavvicinabili e irreali, e sottoporlo allo stesso tempo all'amministrazione da parte del potere ecclesiastico.
La separazione tra Gesù e Cristo è allo stesso tempo la separazione tra Gesù e la Chiesa. Cristo lo si lascia alla Chiesa, sembra opera sua. Mentre lo si spinge da parte, si spera così di guadagnare Gesù e con ciò una nuova forma di libertà, di «redenzione».
Se dunque la vera e propria crisi sta nella cristologia e non nella ecclesiologia, bisogna allora chiederci: Perché è così? Quali sono le radici di questa separazione tra Gesù e Cristo, di cui del resto tratta approfonditamente già la prima lettera di Giovanni, che parla più volte di coloro che dicono che Gesù non è il Cristo (2,22; 4,3), ove la lettera mette alla pari i titoli «Cristo» e «Figlio di Dio» (2,22 e 23; 4,15 e 5,1)?
Giovanni chiama poi coloro che negano che Gesù sia Cristo «anticristi». Forse è questa, in fondo, l'origine del termine «anticristo»: essere contrari a Gesù come Cristo, non attribuirgli più il titolo di Cristo.
dalla lettera di Romano Guardini a mons. G.B. Montini, del 29 marzo 1952
Il riconoscimento della Chiesa è stato la convinzione determinante della mia vita. Quando ero ancora studente di scienze politiche ho capito che la vera e propria scelta cristiana non ha luogo davanti al concetto di Dio e neppure di fronte alla figura di Cristo, ma davanti alla Chiesa. Ciò mi ha fatto capire che una vera efficacia è possibile solo nell'unità con essa.
da J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 2003 (originale del 1968), pp. 235-236
Per noi uomini di oggi lo scandalo fondamentale dell’essere-cristiano è rappresentato innanzitutto dall’esteriorità in cui l’esperienza religiosa sembra finita. Ci scandalizza il fatto che Dio debba esser comunicato mediante apparati esteriori: tramite la chiesa, i sacramenti, il dogma, o anche solo tramite la predicazione (kerygma), dietro la quale ci si ripara volentieri per attenuare lo scandalo, ma che resta egualmente qualcosa di esterno. Di fronte a tutto ciò, ci si chiede: Dio abita proprio nelle istituzioni, negli eventi o nelle parole? L’Eterno non tocca forse ciascuno di noi interiormente? Orbene, a questo interrogativo bisogna rispondere subito e con semplicità in maniera affermativa e aggiungere: se esistesse soltanto Dio e una somma di singoli, il cristianesimo non sarebbe necessario. [...] Per la salvezza del singolo semplicemente non ci sarebbe stato bisogno né di una chiesa, né di una storia della salvezza, né di una incarnazione e passione di Dio nel mondo. [...] Proprio a questo punto va aggiunta l’affermazione successiva: la fede cristiana non proviene dal singolo atomizzato, ma scaturisce dalla consapevolezza che il singolo semplicemente non esiste, che l’uomo, piuttosto, è tale solo nella connessione col tutto: inserito nell’umanità, nella storia, nel cosmo, come a lui, in quanto ‘spirito in un corpo’, si addice ed è essenziale. Il principio ‘corpo’ e ‘corporeità’, sotto il quale l’uomo sta, significa due cose: da un lato, il corpo separa gli uomini uno dall’altro, rendendoli impenetrabili gli uni per gli altri. Il corpo, in quanto figura estesa nello spazio e delimitante, rende impossibile che uno sia totalmente nell’altro; esso traccia una linea divisoria, che segna una distanza e un limite, ci allontana gli uni dagli altri ed è in questo modo un principio dissociativo. Al tempo stesso, però, l’essere nella corporeità include necessariamente anche la storia e la vita comunitaria, giacché, se il puro spirito può essere pensato come rigorosamente a sé stante, la corporeità attesta il derivare da altri: gli uomini vivono l’uno dell’altro, in un senso quanto mai reale e al contempo pluristratificato»[4].
IL MISTERO DELLA CHIESA
LG1 Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa.
da Joseph Ratzinger, Perché sono ancora nella Chiesa, in H.U. von Balthasar-Joseph Ratzinger, Due saggi. Perché sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Queriniana, Brescia, 1972, pp. 51-71
Proprio per questo [la luna] simboleggia la Chiesa, la quale pure risplende, anche se di per sé è buia; non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero sole, Gesù Cristo, cosicché, pur essendo soltanto terra (anche la luna non è che un'altra terra), è ugualmente in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - «la luna narra il mistero di Cristo» (Ambrogio, Exameron IV 8,23). [...] La sonda lunare e l'astronauta scoprono la luna soltanto come landa rocciosa e desertica, come montagne e come sabbia, non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto deserto, sabbia e rocce. E tuttavia, per merito di altri ed in funzione di altri ancora, essa è pure luce e tale rimane anche nell'epoca dei voli spaziali. È dunque ciò, che in se stessa non è. Pur appartenendo ad altri, questa realtà è anche sua. Esiste una verità fisica ed una simbolico-poetica, una non elimina l'altra. Ciò non è forse un'immagine esatta della Chiesa? Chi la esplora e la scava con la sonda spaziale scopre soltanto deserto, sabbia e terra, le debolezze dell'uomo, la polvere, i deserti e le altezze della sua storia. Tutto ciò è suo, ma non rappresenta ancora la sua realtà specifica. Il fatto decisivo è che essa, pur essendo soltanto sabbia e sassi, è anche luce in forza di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è veramente suo e la qualifica più di qualsiasi altra cosa, anzi la sua caratteristica è proprio quella di non valere per se stessa, ma solo per ciò che in essa non è suo.
da G. Rossé, L’ecclesiologia di Matteo. Interpretazione di Mt 18,20, Città nuova, Roma, 1987, pp. 105-106
Matteo ha saputo integrare la teologia dell’alleanza nella sua ecclesiologia [4]: Gesù ormai realizza la presenza di Dio in mezzo al suo popolo; egli è il Dio-con-noi della comunità dei discepoli, chiamata però ad estendersi a tutte le nazioni (cfr. Mt 28,19ss).
Come nella storia di Dio con Israele, la presenza dell’Emmanuele, fondamento dell’alleanza, è primordialmente una storia di relazione tra Cristo e la sua Chiesa. La presenza del Signore è costitutiva per l’esistenza stessa della comunità; essa fa la Chiesa come adunanza attorno a Gesù, realtà che Matteo descrive anche plasticamente in Mt 8,23-27; 21,14-16. Dunque “la permanente presenza di Gesù (cfr. 28,20; 18,20) presso la comunità è costitutiva per essa, come lo era la vicinanza di JHWH per il popolo dell’alleanza veterotestamentaria”.
da C.S. Lewis, Le lettere di Berlicche, Jaca, Milano, 1999, pp. 9-12
Mio caro Malacoda,
ho notato con profondo dispiacere che il tuo paziente s'è fatto cristiano. Non nutrire speranza alcuna di sfuggire alle punizioni che si sogliano infliggere in simili casi. Sono certo del resto che, nei tuoi momenti migliori, neppure tu lo desidereresti. Nel frattempo è necessario ricavare il meglio possibile da una tale situazione. Non bisogna disperarsi. Centinaia di codesti convertiti adulti sono stati recuperati dopo un breve soggiorno nel campo del Nemico ed ora sono con noi. Tutte le abitudini del paziente, tanto le mentali quanto le spirituali, ci sono ancora favorevoli.
Uno dei nostri grandi alleati, al presente, è la stessa chiesa. Cerca di non fraintendermi. Non intendo alludere alla chiesa come la si vede espandersi attraverso il tempo e lo spazio, e gettar le radici nell'eternità, terribile come un esercito a bandiere spiegate. Confesso che questo è uno spettacolo che rende nervosi i nostri più ardimentosi tentatori. Ma fortunatamente essa è del tutto invisibile a codesti esseri umani. Tutto ciò che il tuo paziente vede è quel palazzo, finito solo a metà, di stile gotico spurio, che si erge su quel nuovo terreno. Quando entra, vi trova il droghiere locale, con un'espressione untuosa sul volto, che si dà da fare per offrirgli un librino lustro lustro che contiene una liturgia che nessuno di loro due capisce, e un altro libriccino frusto, che contiene testi corrotti di un certo numero di liriche religiose, la maggior parte orrende, e stampate a caratteri fittissimi. Entra nel banco, e, guardandosi intorno, s'incontra proprio con quella cernita di quei suoi vicini che finora aveva cercato di evitare. Devi far leva più che puoi su quei vicini. Fa' in modo che la sua mente svolazzi qua e là fra un'espressione quale «il corpo di Cristo» e le facce che gli si presentano nel banco accanto. Importa pochissimo, naturalmente, la razza di gente che in realtà s'è messa nel banco vicino. Tu puoi sapere magari che uno di loro è un grande combattente dalla parte del Nemico. Non importa. Il tuo paziente, grazie al Nostro Padre Laggiù, è uno sciocco. Se uno qualsiasi di questi vicini canta con voce stonata, se ha le scarpe che gli scricchiolano, o la pappagorgia, o se porta vestiti strani, il paziente crederà con la massima facilità che perciò la loro religione dev'essere qualcosa di ridicolo. Vedi, nella fase in cui si trova al presente, egli ha in mente una certa idea dei «cristiani», che crede sia spirituale, ma che, di fatto, è per molta parte pittoresca. Ha la mente piena di toghe, di sandali, di corazze e di gambe nude, e il solo fatto che l'altra gente in chiesa porta vestiti moderni è per lui una seria difficoltà, quantunque, naturalmente, inconscia. Non permettere mai che venga alla superficie; non permettere che si domandi a che cosa s'aspettava che fossero uguali. Fa' in modo che ogni cosa rimanga ora nebulosa nella sua mente, e avrai a disposizione tutta l'eternità per divertirti a produrre in lui quella speciale chiarezza che l'Inferno offre.
Lavora indefessamente, dunque, sulla disillusione e il disappunto che sorprenderà senza dubbio il tuo paziente nelle primissime settimane che si recherà in chiesa. II Nemico permette che un disappunto di tal genere si presenti sulla soglia di ogni sforzo umano. Esso sorge quando un ragazzo, che da fanciullo s'era acceso d'entusiasmo per i racconti dell'Odissea, si mette seriamente a studiare il greco. Sorge quando i fidanzati si sono sposati e cominciano il compito serio di imparare a vivere insieme. In ogni settore della vita esso segna il passaggio dalla sognante aspirazione alla fatica del fare. Il Nemico si prende questo rischio perché nutre il curioso ghiribizzo di fare di tutti codesti disgustosi vermiciattoli umani, altrettanti, come dice Lui, suoi «liberi» amanti e servitori, e «figli» è la parola che adopera, secondo l'inveterato gusto che ha di degradare tutto il mondo spirituale per mezzo di legami innaturali con gli animali di due gambe. Volendo la loro libertà, Egli si rifiuta di portarli di peso, facendo uso soltanto delle loro affezioni e delle loro abitudini, al raggiungimento di quegli scopi che pone loro innanzi, ma lascia che «li raggiungano essi stessi». Ed è in questo che ci si offre un vantaggio. Ma anche, ricordalo, un pericolo. Se per caso riescono a superare con successo quest'aridità iniziale, la loro dipendenza dall'emozione diventa molto minore, ed è perciò più difficile tentarli.
Quanto sono venuto esponendo finora vale nella ipotesi che la gente del banco vicino non offra alcun motivo ragionevole di disillusione. È chiaro che se invece lo offrono - se il paziente sa che quella donna con quel cappellino assurdo è una fanatica giocatrice di bridge, che quel signore con le scarpe scricchiolanti è un avaro e uno strozzino - allora il compito ti sarà molto più facile. Si ridurrà a tenergli lontano dalla mente questa domanda: «Se io, essendo ciò che sono, posso in qualche senso ritenermi cristiano, per quale motivo i vizi diversi di quella gente che sta lì in quel banco dovrebbero essere una prova che la loro religione non è che ipocrisia e convenzione?». Forse mi chiederai se è possibile tener lontano perfino dalla mente umana un pensiero così evidente. Sì, Malacoda, sì, è possibile! Trattalo come deve essere trattato, e vedrai che non gli passerà neppure per l'anticamera del cervello. Non è ancora stato a sufficienza con il Nemico per possedere già una vera umiltà. Le parole che ripete, anche in ginocchio, sui suoi numerosi peccati, le ripete pappagallescamente. In fondo crede ancora che lasciandosi convertire, ha fatto salire di molto un saldo attivo in suo favore nel libro mastro del Nemico, e crede di dimostrare grande umiltà e degnazione solo andando in chiesa con codesti «compiaciuti» vicini, gente comune. Mantienigli la mente in questo stato il più a lungo possibile.
Tuo affezionatissimo zio
Berlicche
Benedetto XVI al Convegno di Verona
Dobbiamo essere sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci domandi ragione (logos) della nostra speranza, come ci invita a fare la prima Lettera di San Pietro (3, 15), che avete scelto assai opportunamente quale guida biblica per il cammino di questo Convegno. Dobbiamo rispondere "con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza" (3, 15-16), con quella forza mite che viene dall'unione con Cristo. Dobbiamo farlo a tutto campo, sul piano del pensiero e dell'azione, dei comportamenti personali e della testimonianza pubblica. La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l'evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l'evangelizzazione dell'Italia e del mondo di oggi.
dal Nuovo rituale per l’elezione del papa
Beatissimo Padre,
la Chiesa che è in Roma
gioisce mentre sali per la prima volta
alla tua Cattedra, che è la Cattedra romana di Pietro,
sul quale è fondata la Chiesa.
Come il vignaiolo che sorveglia dall’alto la vigna
sei posto in posizione elevata
per governare e custodire il popolo che ti è affidato.
Ricorda che occupi la Cattedra del pastore
per dedicarti al gregge di Cristo.
Il tuo onore è l’onore di tutta la Chiesa
ed è valido e sicuro sostegno per i tuoi fratelli nell’episcopato:
tu sarai veramente onorato
quando a ciascuno è riconosciuto l’onore che gli spetta.
Tu sei “Servo dei servi di Dio”.
da Giovanni Paolo II, enciclica Ut unum sint, 20
Così credeva nell'unità della Chiesa Papa Giovanni XXIII e così egli guardava all'unità di tutti i cristiani. Riferendosi agli altri cristiani, alla grande famiglia cristiana, egli constatava: "È molto più forte quanto ci unisce di quanto ci divide".
da Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Simposio internazionale su "Ivanov e la cultura del suo tempo", tenuto il 28 maggio 1983
La divisione storica delle Chiese è una ferita sempre aperta. Confessando, nella basilica di San Pietro di Roma, il 17 marzo 1926, il Credo cattolico, Ivanov aveva coscienza, come scrisse a Charles du Bos, di “sentirmi per la prima volta ortodosso nella pienezza dell’accezione di questa parola, in pieno possesso del tesoro sacro, che era mio dal battesimo, e il cui godimento non era stato da anni libero da un sentimento di malessere, divenuto a poco a poco sofferenza, per essere staccato dall’altra metà di questo tesoro vivo di santità e di grazia, e di respirare, per così dire, come un tisico, che con un solo polmone” (V. Ivanov, Lettre à Charles Du Bos, 1930, dans V. Ivanov et M. Gerschenson, Correspondance d’un coin à l’autre, Lausanne, Ed. L’âge d’homme, 1979, p. 90). È la stessa cosa che dicevo anch’io a Parigi ai rappresentanti delle comunità cristiane non cattoliche, il 31 maggio 1980, ricordando la mia visita fraterna al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli: “Non si può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone; bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale” (Giovanni Paolo II, Allocutio Lutetiae Parisiorum ad Christianos fratres a Sede Apostolica seiunctos habita, 31 maggio 1980: AAS 72 [1980] 704).
da J. Ratzinger, Conferenza per la celebrazione del 75° anno di attività della cattolica Unione per la protezione della giovane - ora Associazione per il lavoro sociale delle giovani – tenuta il 25.04.1970 a Monaco di Baviera, in Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, pp.200-212
Noi oggi sperimentiamo una riscoperta del principio della chiesa locale. Si sta di nuovo prendendo coscienza del fatto che una chiesa si forma in un luogo e qui trova la sua più diretta e concreta realizzazione. Nello stesso tempo vengono riscoperti e sperimentati i livelli intermedi della realizzazione ecclesiale, cioè le conferenze episcopali e gli organismi ecclesiali con esse coordinati, e questo in primo luogo a partire dall'introduzione nella liturgia della lingua popolare, che va sviluppandosi a vista d'occhio. Anche questo ha la sua importanza come vivificazione della struttura ecclesiale e come possibilità dell'inserimento delle molteplici e specifiche possibilità dei singoli popoli nella chiesa universale. Ambedue i movimenti però possono assumere un risvolto negativo là, dove una comunità si chiude in se stessa e si ritiene autosufficiente; lì appunto dove dei singoli gruppi nazionali percorrono indipendentemente la loro strada e dimenticano di essere chiesa soltanto nella totalità e nella tensione ad essa. Se dieci anni fa si doveva ricordare ancora che una comunità (una parrocchia) non è un distretto amministrativo, ma è anche chiesa, adesso è necessario ricordare che la chiesa universale non rappresenta soltanto una copertura organizzativa, ma è veramente la chiesa stessa e che la comunità rimane chiesa soltanto se è nell'universalità. Non si può, infatti, possedere solo per sé il Cristo incarnato, che è la vera vita della chiesa e che dimora in pienezza tra noi in ogni assemblea ecclesiale; questo Cristo, che vuol rendere chiesa completa ogni assemblea che si riunisce in suo nome. Egli è tutto nel singolo ed è uno soltanto nella totalità. Perciò non lo si può possedere senza la universalità men che meno contro la universalità. Il vivere nell'universalità è quindi il criterio basilare per decidere se una comunità si raduna nel suo nome ed è quindi chiesa. La regola fondamentale per essa è la sua non-chiusura, la sua non-autonomia, la sua apertura verso il tutto della chiesa. Il suo criterio è la volontà di non essere qualcosa di particolare, ma di incorporare in questo luogo l'unica chiesa, che è dappertutto identica e soltanto così è se stessa.
Che implicanza ha tutto questo per la nostra questione? Vuol dire che i fondatori dell'Unione per la protezione della giovane, e tutti coloro che hanno portato avanti finora la loro opera, realizzarono a loro modo questo modello della chiesa aperta. Nella semplicità e nel realismo di una fede che non pone molte domande, ma vive con tanta maggior intensità ed afferra con tanta maggior sicurezza la realtà, essi si sono adoperati - a fatti, non con belle teorie - affinché il modello della chiesa antica, nella sua concatenazione tra comunità locale e apertura universale, offrisse una risposta diretta alla società di oggi, caratterizzata dalla mobilità e dalla concentrazione; e si riesce soltanto se si tenta di rivivere questo antico modello e di accoglierlo con tutte le sue conseguenze. Nella ingarbugliata disputa sulla chiesa del futuro, sulla chiesa nell'epoca della tecnopoli è stata presa qui una decisione provvisoria che è esemplare e che noi abbiamo compreso appena a sufficienza proprio nella sua attualità e modernità. Questo mi sembra vero in due maniere. Anzitutto la fondazione di quest'Unione significa che la chiesa locale non si chiude in una speciale forma di esistenza comunitaria, articolata a mo' di chiesa particolare o in qualche altra forma, ma si conosce e vive come chiesa della stazione, ad esempio, (ma anche come chiesa di tutti gli altri settori dell'Unione), proprio come chiesa aperta degli uomini non integrati. In mezzo all'anonimità, che deriva dalla mobilità, comprende se stessa come l'unica chiesa che abbraccia tutti gli spazi della mobilità umana e si offre ovunque come l'unica istituzione che è patria in ogni regione straniera.
da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia della Costituzione Lumen Gentium, in La Comunione nella Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, pp. 129-161
Nella Chiesa non vi sono stranieri: ognuno è ovunque a casa sua e non solo ospite. E' sempre l'unica Chiesa, l'unica e la medesima. Chi è battezzato a Berlino, è nella Chiesa a Roma o a New York o a Kinshasa o a Bangalore o in qualunque altro posto, altrettanto a casa sua come nella Chiesa in cui è stato battezzato. Non deve registrarsi di nuovo, è l'unica Chiesa. Il battesimo viene da essa e genera a essa. Chi parla del battesimo parla, tratta di per se stesso anche della parola di Dio, che perla Chiesa intera è solo una e continuamente la precede in tutti i luoghi, la convoca e la edifica. Questa parola è soprala Chiesa, e nondimeno è in essa, affidata a essa come soggetto vivo. La parola di Dio ha bisogno, per essere presente in modo efficace nella storia, di questo soggetto, ma questo soggetto da parte sua non sussiste senza la forza vivificante della parola, che innanzitutto la rende soggetto. Quando parliamo della parola di Dio, intendiamo anche il Credo, che sta al centro dell'evento battesimale; esso è la modalità, con cuila Chiesa accoglie la parola e la fa propria, in qualche modo parola e risposta allo stesso tempo. Anche qui è presentela Chiesa universale, l'unica Chiesa in modo assai concreto e percepibile.
da G.K. Chesterton, L’uomo eterno, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 265-266; 307.
Cristo fondò la Chiesa con due grandi metafore nelle parole finali agli Apostoli che ricevettero l’autorità di fondarla. La prima fu la frase su Pietro sul quale la Chiesasarebbe stata edificata come su di una pietra; la seconda fu il simbolo delle chiavi. Circa il significato della prima, non c’è naturalmente alcun dubbio; ma essa non riguarda direttamente l’argomento, qui, salvo in due altri aspetti secondari. È infatti uno dei tanti esempi di quelle frasi evangeliche che avrebbero potuto pienamente espandersi e spiegarsi più tardi, anche molto più tardi. Ed è un altro esempio di quelle frasi che sono l’opposto dell’evidenza, anche nella lettera, in quanto poneva la similitudine di un uomo ad una roccia, mentre quest’uomo aveva piuttosto l’apparenza di una fragile canna.
Ma l’altra immagine delle chiavi ha un’esattezza che non è stata forse esattamente notata. Le chiavi hanno avuto una parte cospicua nell’arte e nell’araldica del Cristianesimo: ma non tutti hanno notato la peculiare precisione dell’allegoria. Arrivati a questo punto della nostra storia, bisognerà dire qualche cosa del primo apparire e della attività della Chiesa nell’Impero romano: e per un breve accenno in proposito nulla potrebbe meglio servire di quell’antica metafora.
Il cristiano primitivo era né più né meno che una persona con una chiave, o che diceva di avere una chiave. Tutto il movimento cristiano consistette nel proclamare di possedere tale chiave. Non era solamente un vago movimento in avanti, che avrebbe potuto esser meglio rappresentato dal battere un tamburo. Non era qualche cosa che spazzava via tutto davanti a sé, come un moderno movimento sociale. Come vedremo fra poco, si rifiutava piuttosto di far questo. Esso asseriva in modo assoluto che c’era una chiave e che possedeva tale chiave e che nessun’altra chiave era eguale a quella; era in un certo senso, diciamo pure, ristretto. Soltanto avveniva che quella era la chiave che poteva aprire la prigione del mondo intero, e far vedere la bianca aurora della salvezza.
Il credo era come una chiave per tre aspetti che potrebbero convenientemente riunirsi sotto questo simbolo. Primo, una chiave è anzitutto una cosa che ha una forma; ed è una cosa che dipende interamente dal conservare la sua forma. Il credo cristiano è soprattutto la filosofia della forma ed è nemico delle cose informi. Ecco dove differisce da tutte le altre infinite filosofie – manicheismo, Buddismo – che formano una specie di lago notturno nell’oscuro cuore dell’Asia: l’ideale della non creazione. Qui è dove esso differisce anche dalla analoga incertezza del mero evoluzionismo: l’idea di una costante trasformazione delle creature. Uno a cui si dicesse che il suo speciale lucchetto si fonderà con un milione di altri consimili in una buddistica unità, l’avrebbe a noia. Ma uno a cui si dicesse che la sua chiave gradatamente crescerà e germoglierà nella sua tasca e ramificherà in nuovi ingegni o complicazioni, non sarebbe meno insoddisfatto.
Secondo, la forma della chiave è per se stessa una forma piuttosto fantastica. Un selvaggio il quale non sapesse che è una chiave, avrebbe le maggiori difficoltà a indovinare che cosa potesse essere. Ed è fantastica perché è arbitraria. Una chiave non è materia di astrazioni: nel senso che una chiave non è materia di ragionamento. Essa o è adatta alla serratura, oppure non è. È inutile per gli uomini disputarvi attorno, considerata la cosa in se stessa; o ricostruirla sui puri principi della geometria o dell’arte decorativa. È una sciocchezza per un uomo dire che preferirebbe una chiave più semplice; sarebbe assai più sensato se facesse del suo meglio con un grimaldello.
In terzo luogo, poiché la chiave è necessariamente una cosa fatta secondo un disegno, questa aveva un disegno piuttosto elaborato. Quando la gente si lamenta che la religione si è troppo presto immischiata di teologia e roba simile, dimentica che il mondo non solo era entrato in un cul-de-sac, ma era penetrato addirittura in un labirinto di vie senza uscita. Il problema era un problema complicato; il quale, nel senso ordinario, non involveva unicamente delle cose semplici come il peccato. Era anche pieno di segreti, di inganni inesplorati e inesplorabili, di inconsce follie, di pericoli in tutte le direzioni. Se la fede si fosse posta davanti al mondo solo con delle banalità intorno alla pace e alla semplicità, sarebbe stata il rifugio di alcuni moralisti; non avrebbe avuto il più debole effetto sul lussurioso e labirintiaco manicomio. Quel che fece, noi cercheremo all’ingrosso di descrivere: basti dire qui che nella chiave c’erano senza dubbio molte cose che parevano complicate: c’era soltanto una cosa che era semplice. Apriva la porta. [...] Io non tento alcuna apologia sul motivo per cui il credo debba essere accettato. Ma in risposta al problema storico del perché fu accettato, ed è accettato, io do per altri milioni di persone questa risposta: perché corrisponde alla serratura; perché è come la vita. È una delle tante storie; con questo di più, che è una storia vera. È una fra le tante filosofie; con questo di più, che è la verità. Noi l’accettiamo; e il terreno è solido sotto i nostri piedi, e la strada è aperta davanti a noi. Esso non c’imprigiona in un sogno fatalistico o nella coscienza di una universale illusione. Esso apre a noi non soltanto incredibili cieli, ma una terra (può sembrare) egualmente incredibile, e la fa credibile. Questa è la verità che è duro spiegare perché è un fatto, ma è un fatto di cui noi siamo testimoni. Siamo cristiani e cattolici non perché adoriamo una chiave, ma perché abbiamo varcato una porta; e abbiamo sentito lo squillo di tromba della libertà passare sopra la terra dei viventi.
5/ Trastevere, presso l'antica sinagoga in vicolo dell'Atleta
dal Discorso del papa Giovanni Paolo II, nella sinagoga di Roma il 13 aprile 1986
Siamo tutti consapevoli che, tra le molte ricchezze di questo numero 4 della dichiarazione Nostra Aetate, tre punti sono specialmente rilevanti...
Il primo è che la Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’ebraismo “scrutando il suo proprio mistero”. La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun altra religione: Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori.
Il secondo punto rilevato dal concilio è che agli ebrei come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettive, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. E’ quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno “secondo le sue opere”, gli ebrei come i cristiani.
Il terzo punto che vorrei sottolineare nella dichiarazione conciliare è la conseguenza del secondo; non è lecito dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, che gli ebrei sono “reprobi o maledetti”, come se ciò fosse insegnato o potesse venire dedotto dalle Sacre Scritture, dell’Antico come del Nuovo Testamento. Anzi, aveva detto prima il concilio, in questo stesso brano della Nostra Aetate, ma anche nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, citando san Paolo nella lettera ai Romani, che gli ebrei “rimangono carissimi a Dio”, che li ha chiamati con una “vocazione irrevocabile”.
-da Giulio Cesare, religio licita
“Vedi come si amano”. Romani 16 e le conoscenze di Paolo a Roma, di Andrea Lonardo
Il fenomeno Facebook – il gesuita Spadaro in un recente articolo pubblicato sulla Civiltà cattolica afferma che l’8,5 per cento della popolazione italiana ha un profilo Facebook – manifesta insieme il desiderio di relazioni che sempre caratterizza l’essere umano e l’utopia che esse possano realizzarsi semplicemente nella virtualità del flusso telematico.
Il capitolo finale della lettera ai Romani, il famosissimo capitolo 16, presenta Paolo che, 2000 anni fa, conosce realmente fra le cento e le centocinquanta persone abitanti in una città che non ha ancora mai visitato. Sono, infatti, nominati diciassette nomi di uomini, sette nomi di donne, più due delle quali non compare il nome, più cinque gruppi di persone che si riuniscono nelle case di alcuni di loro.
Afferma il prof. Penna, nell’ultimo volume appena uscito del suo commentario alla lettera ai Romani, che le lettere dell’antichità contenevano ovviamente spesso saluti a terze persone, ma il numero massimo di esse attestato è nella lettera papiracea di una certa Diodora che, scrivendo ad un certo Valerio Massimo, lo prega di dare i suoi saluti a sei persone. La lettera ai Romani è così la lettera che contiene il maggior numero di persone da salutare in tutta l’antichità classica, superando di gran lunga il numero di sei.
Delle persone nominate Paolo sottolinea innanzitutto la loro attività evangelizzatrice. Febe, probabilmente la latrice della lettera ai Romani, la prima ad essere nominata, è definita “diacono della chiesa di Cencre” (Rm 16,1), dove “diacono” è da intendersi nella sua forza espressiva di servitrice. Paolo chiede ora ai romani di assistere Febe, come lei “ha protetto molti ed anche me stesso” (Rm 16,2).
Si parla poi di Maria “che ha faticato molto per voi” (Rm 16,6). Poi di Andronico e Giunia, “apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me” (Rm 16,7). Qui Paolo mostra di conoscere un ulteriore significato del termine “apostolo”: se egli sa bene che il ruolo dei Dodici è unico (cfr. ad esempio, 1 Cor 15,5), tuttavia utilizza il termine anche per altri missionari della prima generazione, forse appartenenti ai settantadue di cui parla l’evangelista Luca o agli “stranieri di Roma” presenti il giorno di Pentecoste. Andronico e Giunia potrebbero, forse, essere stati i primi evangelizzatori della comunità romana.
Si accenna poi ad Urbano, “nostro collaboratore in Cristo” (Rm 16,9), a Trifena e Trifosa che “hanno lavorato per il Signore” (Rm 16,12), poi a Perside che ha, anch’essa, “lavorato per il Signore” (Rm 16,12). Si ripetono i verbi che indicano il collaborare, il lavorare, l’affaticarsi per il vangelo e la sua diffusione, per il servizio dei fratelli. Se, nel capitolo 16, il numero degli uomini citati è maggiore, si sottolinea maggiormente il ruolo evangelizzatrice delle donne: sette donne e cinque uomini sono detti faticare nel Signore. Anche la persecuzione è stata motivo di fatica: Aquila e Priscilla “hanno messo in gioco il loro collo per la mia vita” (Rm 16,4), con riferimento alla possibilità della decapitazione che era riservata ai cittadini romani, mentre Apelle “ha dato buona prova in Cristo” (Rm 16,10).
Si sottolinea di alcuni l’essere punto di riferimento, anche per aver messo a disposizione la propria casa come luogo delle riunioni liturgiche e catechetiche. Sono citati subito dopo Febe, all’inizio del capitolo, Aquila e Priscilla “miei collaboratori in Cristo Gesù” (Rm 16,3) e “la comunità che si riunisce nella loro casa” (Rm 16,5), così quelli della casa di Narciso “che sono nel Signore” (Rm 16,11), Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma “e i fratelli che sono con loro” (Rm 16,14), Filogolo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpias “e tutti i credenti che stanno con loro” (Rm 16,15).
Soprattutto, emerge la fraternità che lega i cristiani di Roma e Paolo. La fede cristiana genera un nuovo tipo di relazioni. Non esiste più solo l’amore sponsale o amicale (vedi Aquila e Priscilla o i “diletti” Ampliato e Perside), ma viene esaltato pure il legame che unisce i fratelli in Cristo. Febe è definita “nostra sorella” (Rm 16,1), “fratelli” vengono chiamati coloro che sono con Asincrito e gli altri (Rm 16,14), “credenti” coloro che sono con Filogolo e gli altri (Rm 16,15). Tutti insieme sono “santi” (Rm 1,7) e “chiamati” (Rm 1,6) da Gesù Cristo (chiesa, ekklesia, deriva dal termine greco che indica l’essere chiamati da Dio, l’essere kletoi).
Questa fraternità si esprime in un tipico gesto che caratterizzerà da allora la fraternità nelle comunità cristiane: “salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo” (Rm 16,16). Lo scambio della pace, attraverso quel bacio santo, sarà il segno di una relazione di amore nata in Cristo che tutti abbraccia. La fraternità ecclesiale si pone come realtà che contraddistingue i credenti in Cristo. Essa viene offerto al mondo come segno che invita alla fede. Come ricorda Tertulliano, questa era l’espressione di stupore che sorgeva nei pagani che per la prima volta venivano in contatto con i cristiani: “Vedi come si amano fra loro e sono pronti a morire l’uno per l’altro” (Apologetico, XXXIX,7).
N.B. Per l’appartenenza di Rm 16 alla lettera ai Romani, contro la tesi che propone di considerarlo un biglietto inviato alla chiesa di Efeso, cfr. su questo stesso sito Paolo ed i cristiani di Roma: Rm 16 appartiene alla lettera ai Romani, di Romano Penna. Per un approfondimento sulla presenza delle donne in Rm 16, cfr. su questo stesso sito Paolo apostolo e le donne nella Chiesa. Febe (Rm 16,1-2) e Lidia (At 16,11-15.40), di Pino Pulcinelli.
I collaboratori di San Paolo apostolo, di Luigi Walt (da www.gliscritti.it )
Paolo non fu certamente un predicatore solitario: si avvalse anzi di una fittissima rete di rapporti, che andavano da collaboratori stretti e fidati a semplici amici e conoscenti. La sua intricata “rete sociale” è parzialmente ricostruibile, attraverso un confronto critico fra gli accenni sparsi nelle lettere e il quadro biografico offerto dagli Atti degli apostoli.
Meno sicure sono le informazioni provenienti dalla letteratura apocrifa (ad es. dagli Atti di Paolo e Tecla, della fine del II secolo), dato che questa integra spesso in maniera leggendaria e fantasiosa le lacune lasciate dalle fonti più antiche, adattandole a un contesto sociale e culturale diverso: ciò non toglie che un esame approfondito di esse potrebbe far emergere dettagli non privi di una qualche attendibilità (è quanto ha cercato di dimostrare, fra gli altri, D.R. MacDonald, The Legend and the Apostle. The Battle for Paul in Story and Canon, Philadelphia 1983).
L’elenco che segue prende in considerazione soltanto i nomi presenti nelle lettere di Paolo incluse nel canone, integrandone i dati – qualora possibile – con la testimonianza degli Atti degli apostoli (e talora anche di altre fonti). Alcuni personaggi, pertanto, sono stati esclusi dall’elenco: Agabo, Anania di Damasco, Damaris di Atene, Dionigi l’areopagita, Giuda detto Barsabba, Lidia di Tiatira, Mnàsone di Cipro, Secondo di Tessalonica e il figlio senza nome della sorella di Paolo, in quanto menzionati solo dagli Atti; e Giacomo “fratello del Signore” perché, pur essendo nominato da Paolo nelle lettere, svolse un ruolo indipendente dalle sue missioni. In corsivo sono indicati i nomi dei personaggi che compaiono in entrambe le fonti.
Acaico. Viene nominato nei saluti che concludono la Prima lettera ai Corinzi, accanto a →Stefana e →Fortunato, «i quali hanno supplito alla vostra mancanza, hanno allietato il mio spirito e allieteranno anche il vostro» (1Cor 16,17-18). Al momento in cui Paolo scrive, costoro si trovano tutti ad Efeso, in compagnia dell’apostolo.
Alessandro il ramaio. Secondo 2Tim 4,14-15, procurò a Paolo «molti mali», e ne avversò le parole: per questo l’apostolo mette in guardia Timoteo dal frequentarlo, e gli preannuncia un castigo da parte di Dio («Il Signore gli renderà secondo le sue opere»: citazione da Sal 62,13). Può essere identificato con l’Alessandro di cui si parla in 1Tim 1,19-20, che Paolo aveva provveduto a far espellere dalla comunità (probabilmente Efeso) assieme a un certo →Imeneo. Ad entrambi sarebbe stata imputata la colpa di «aver fatto naufragio nella fede»: e questo ne avrebbe resa necessaria la «consegna a Satana», ossia l’espulsione temporanea dal gruppo, affinché imparassero «a non bestemmiare» (1Tim 1,20).
Ampliato. È presente nella lunga lista di persone che Paolo saluta al termine della sua lettera alle comunità di Roma (Rm 16,8). Viene definito «diletto (carissimo) mio nel Signore».
Andronico e Giunia. Probabilmente si trattò di una coppia di sposi (a lungo si è discusso del carattere femminile o maschile dell’accusativo Iouniân presente in Rm 16,7, anche perché in età medievale e moderna si ritenne inverosimile – a torto – che Paolo potesse fregiare una donna del titolo di apóstolos). Il loro ingresso nel movimento dei seguaci di Gesù dovette precedere cronologicamente quello di Paolo, dato ch’egli stesso li qualifica come «insigni (epísmoi) fra gli apostoli», e afferma che «si sono uniti a Cristo prima di me» (Rm 16,7). Paolo li definisce pure come suoi «consanguinei e compagni di prigionia». Al momento della stesura della Lettera ai Romani risiedevano nell’Urbe.
Apelle. Presente nella lista dei saluti che Paolo indirizza alle comunità romane, viene definito «provetto (dókimon) in Cristo» (Rm 16,10), ma il motivo ci è ignoto.
Apollo. Stando alle notizie che possiamo desumere dagli Atti (18,24 – 19,1), Apollo era un «giudeo proveniente da Alessandria», un «uomo eloquente» (anér lógios, espressione greca che corrisponde al latino vir dicendi peritus), «versato nelle Scritture», «ben istruito sulla via di Dio» e in grado di «insegnare accuratamente le cose riguardanti Gesù». Apollo si sarebbe distinto soprattutto per la sua capacità di confutare pubblicamente i “Giudei”, «dimostrando attraverso le Scritture che Gesù era il Cristo». Eppure, notano sempre gli Atti, egli «conosceva soltanto il battesimo di Giovanni [Battista]». Il testo afferma che si rese pertanto necessario «prenderlo in disparte», per esporgli con «maggiore accuratezza» ciò che riguardava la «via del Signore»: e della cosa si sarebbero occupati due collaboratori di Paolo, →Prisca e →Aquila. Diventò una figura di primo piano nella comunità di Corinto, date le frequenti menzioni che di lui si fanno in 1Cor (1,12; 3,4.5.6.22; 4,6; 16,12). Anche la Prima lettera di Clemente Romano ai Corinzi, verso la fine del I secolo, lo ricorda come «un uomo stimato dagli apostoli» (1Clem 47,3,2). Forse è a lui che si riferisce il fugace accenno della Lettera a Tito (3,13), dov’è affiancato a →Zena.
Appia. La «sorella» Appia viene menzionata al v. 2 del breve biglietto indirizzato a →Filemone: il suo nome compare immediatamente dopo quello del destinatario principale della lettera, del quale possiamo supporre che fosse moglie (nello stesso versetto, infatti, Paolo fa riferimento alla ekklesía che si raduna nell’oikos, vale a dire nella “casa”, dello stesso →Filemone). L’→Archippo nominato assieme a lei, a questo punto, potrebbe essere suo figlio.
Aquila. Vd. →Prisca (o Priscilla) e Aquila.
Archippo. È il destinatario di un avvertimento speciale in Col 4,17: «Dite ad Archippo: bada di portare a compimento l’incarico (diakonían) che hai ricevuto nel Signore». Da Fm 2 ricaviamo che potrebbe trattarsi di un figlio di →Filemone e →Appia.
Aristarco. Compare tra i collaboratori che affiancano Paolo in Fm 24, assieme a →Marco, →Dema e →Luca. Stando ai saluti finali di Col 4,10, fu «compagno di prigionia» (synaichmalōtos) di Paolo. L’apostolo ne segnala pure l’appartenenza a «quelli (che vengono) dalla circoncisione» (Col 4,11). Gli Atti lo presentano come un macedone, al fianco dell’apostolo nel corso del suo terzo viaggio missionario in Asia (At 20,4) e nel viaggio da Gerusalemme a Roma (At 27,2). Il testo di Luca riferisce anche di un tentativo di linciaggio subito da Aristarco, assieme a →Gaio di Macedonia, durante la predicazione ad Efeso (At 19,29).
Aristobulo (quelli di). Parte del suo oikos viene salutato dall’apostolo in Rm 16,11. Verosimilmente, come si deduce dalla particolare espressione greca del testo originale, si trattava di un gruppo di (ex?) schiavi che lavorarono alle dipendenze del liberto Aristobulo, nipote di Erode il Grande, morto a Roma alla fine degli anni 40 del I secolo. In seguito costoro sarebbero passati a far parte di un’altra familia, mantenendo la loro denominazione primeva.
Artema. Il suo nome, abbreviazione di Artemidoro, ci è noto grazie a Tit 3,13, dove si chiede a →Tito di inviare lui o →Tichico a sorvegliare la comunità di Creta. Asìncrito. Dai saluti di Paolo in Rm 16,14, pare che facesse parte di una piccola comunità domestica di Roma, che comprendeva →Flegonte, →Ermete (o Erme), →Pàtroba, →Erma e «i fratelli che sono con loro». Secondo P. Lampe, tutti questi nomi (eccetto quello di Ermete) tradiscono una provenienza dalle zone orientali dell’Impero, e risultano tipici di liberti o di individui di status servile.
Barnaba (Giuseppe, detto). Presentato dagli Atti come un «levita, originario di Cipro» (At 4,36-37), fu tra i membri più influenti della comunità di Antiochia (At 13,1-2), all’interno della quale volle accogliere e incorporare il giovane Paolo (At 9,27; 11,22-26). Con lui affronterà una delicata missione in soccorso dei poveri della Giudea (At 11,28-30; 12,25) e un viaggio missionario nella nativa Cipro e in Anatolia (At 13,1-14,28). Si separerà da Paolo (At 15,36-39) dopo un incontro decisivo con le “colonne” di Gerusalemme (cf. Gal 2,1-10 e At 15,2-39) e il cosiddetto “incidente di Antiochia” (Gal 2,11-14), dirigendosi alla volta di Cipro, dove secondo la tradizione avrebbe poi subito il martirio per lapidazione e rogo. Il suo nome, a conferma dell’enorme prestigio apostolico di cui godette, compare anche in 1Cor 9,6. Gli venne attribuito uno scritto a carattere omiletico, la cosiddetta Lettera di Barnaba, datata dai moderni tra la fine del I secolo e gli inizi del II secolo.
Caio (o Gaio). Vd. →Gaio.
Carpo. Stando a 2Tim 4,13, l’apostolo avrebbe lasciato presso di lui, a Troade, alcuni effetti personali: un mantello, alcuni libri e delle pergamene. Non possediamo altre informazioni sulla sua identità.
Cefa. A partire da una notizia di Clemente Alessandrino riferita da Eusebio (Hist. Eccl. I,12,2), si è messo in dubbio che il nome di Cefa presente in alcuni passi paolini possa alludere a Simon Pietro, ma la congettura appare insostenibile. Le più antiche attestazioni di Kephas (grecizzazione dell’aramaico kepha’, “pietra”), soprannome di Simon Pietro, compaiono proprio nelle lettere di Paolo (1Cor 1,12; 9,5; 15,5; Gal 1,18; 2,9-14) e in un passaggio del vangelo di Giovanni (1,42). Fonti più tarde, come il cosiddetto Index graeco-syrus o la lista degli apostoli e dei discepoli attribuita a Epifanio di Salamina, annoverano il Cefa di cui Paolo parla in 1Cor 1,12; 3,22 e in Gal 2,11-14 fra i «settanta discepoli del Signore» (vd. Lc 10,1): più tardi, egli sarebbe divenuto vescovo di Iconio. Ma la notizia dell’Index è esplicitamente derivata da Eusebio, e la maggioranza degli esegeti non la ritiene degna di credito, anche per il fatto che l’apostolo nomina Cefa, alludendo verosimilmente a Pietro, in altri punti di 1Cor: al v. 9,5, assieme ai «fratelli del Signore» e a Barnaba; e al v. 15,5, in qualità di primo testimone della risurrezione di Gesù. Potrebbe allora la doppia menzione di 1Cor 1,12 e 3,22 riferirsi a un omonimo? Piuttosto, è più corretto immaginare che il ruolo e la figura di Cefa/Pietro fossero ben noti alle comunità paoline, anche grazie alla predicazione dello stesso Paolo.
Claudia. È nominata nella lista di quanti salutano Timoteo, in 2Tim 4,21, assieme a →Eubulo, →Pudente, →Lino e «i fratelli tutti».
Clemente. Scrivendo ai Filippesi, Paolo lo nomina fra i «collaboratori» che hanno combattuto con lui per la diffusione del Vangelo, «i cui nomi sono scritti nel libro della vita» (Fil 4,2-3). Non può essere in alcun modo identificato col Clemente che divenne vescovo di Roma alla fine del I secolo (88 – 97), e del quale ci è giunta una lettera indirizzata alla comunità di Corinto (1Clem).
Cloe. Fu probabilmente alla guida di una delle varie assemblee domestiche di Corinto. In 1Cor 1,11 Paolo fa riferimento ad informazioni ricevute oralmente da parte di «quelli di Cloe», forse suoi schiavi.
Crescente (o Crescenzio). Il suo nome ricorre soltanto in 2Tim 4,10: l’apostolo, nella solitudine delle sue catene, segnala la defezione di →Dema e la partenza di →Tito e Crescente. Quest’ultimo, di cui non sappiamo nient’altro, sarebbe partito in particolare per la regione galata.
Crispo. Assieme a →Gaio, fu tra le poche persone che Paolo battezzò personalmente a Corinto (1Cor 1,14). Gli Atti riferiscono di un archisinágōgos («guida sinagogale») di Corinto, di nome Crispo, che si convertì con tutta la sua famiglia alla fede in Cristo (At 18,8). Il compito dell’archisinagogo era quello di gestire i locali del luogo di culto, curando il corretto svolgimento della liturgia e selezionandone i partecipanti con funzioni speciali.
Dema. Viene citato nei saluti che concludono il breve biglietto a Filemone (24), accanto a →Marco e ad →Aristarco, e la Lettera ai Colossesi (4,14), accanto a →Luca. La composizione di questi due scritti viene generalmente collocata durante un periodo di detenzione subito dall’apostolo ad Efeso: ciò spiegherebbe la ricorrenza di alcuni nomi (cf. Fm 23-24 e Col 4,10-14) e la fuga dello schiavo →Onesimo dalla relativamente vicina Colossi (cf. Fm 10 e Col 4,9). In 2Tim 4,10 si parla di un successivo tradimento da parte di Dema, che avrebbe abbandonato l’apostolo in catene, «preferendo il secolo presente» e fuggendo a Tessalonica. La sua figura verrà messa in rilievo negativamente dalle narrazioni apocrife, in coppia con →Ermogene.
Epafra. È un altro dei nomi che risultano comuni alla lettera a Filemone (23) e a quella ai Colossesi (1,7-8; 4,12-13). Nel primo testo è presentato come «compagno di prigionia (synaichmalōtos) in Cristo Gesù», nel secondo come «diletto compagno di servizio (syndoulos) e fedele ministro (diákonos) di Cristo in vece nostra» e infine come «servo (doûlos) di Cristo Gesù»: tutti titoli che dimostrano l’enorme stima che Paolo dovette nutrire nei suoi confronti. L’apostolo ne ricorda parimenti la fondamentale opera missionaria a Colossi, Laodicea e Gerapoli (Col 4,12-13).
Epafrodito. Da non confondersi con →Epafra (che pure è abbreviazione di Epafrodito), questo personaggio si mosse da Filippi, sua comunità d’origine, alla volta di Roma, per prestare assistenza a Paolo prigioniero (Fil 4,18). Scrivendo ai Filippesi, l’apostolo ne parla come di un «fratello (adelphós), collaboratore (synergós) e compagno di lotta (systratiōtēs)». La sua storia è narrata con viva commozione in Fil 2,25-30: avendo rischiata la morte per raggiungere Paolo, ed essendo caduto malato a causa del lungo viaggio, l’apostolo decise di rimandarlo a Filippi, perché i suoi concittadini, vedendolo tornare, si rallegrassero di nuovo e lo accogliessero «nel Signore, con grande festa».
Epèneto. Per esplicita ammissione di Paolo (Rm 16,5), fu tra i primi convertiti nella provincia romana dell’Asia (questo il senso dell’espressione presente nel testo: «che rappresenta le primizie dell’Asia offerte a Cristo»). L’apostolo lo ricorda come a lui «carissimo».
Erasto. Era il «tesoriere» (oikonómos) di Corinto, secondo quanto emerge dai saluti in Rm 16,23. La notizia potrebbe trovare conferma in un’iscrizione dell’epoca, proveniente proprio da Corinto, che parla di un Erasto «responsabile dei lavori pubblici». Secondo la narrazione degli Atti degli apostoli (19,21), un Erasto venne inviato da Efeso in Macedonia, assieme a →Timoteo. La Seconda lettera a Timoteo lo descrive nuovamente a Corinto, negli ultimi anni di vita dell’apostolo (2Tim 4,20).
Erma. Vd. →Asìncrito. Del tutto improbabile l’identificazione, avanzata già da Origene e da Eusebio di Cesarea, con l’Erma autore del Pastore (opera databile tra il 100 e il 160).
Ermete (o Erme). Vd. →Asìncrito.
Ermogene. È tra i collaboratori dell’Asia che abbandonarono Paolo durante la (prima?) detenzione romana, secondo 2Tim 1,15. Di un «ramaio» di nome Ermogene, compagno di →Dema, possediamo un ritratto a tinte fosche grazie agli Atti di Paolo e Tecla (III,1.4.12-14).
Erodione. Viene salutato da Paolo in Rm 16,11, con la qualifica di «consanguineo», «della stessa stirpe» (syggenēs), che l’apostolo riserva nel contesto della lettera soltanto ad altri cinque personaggi: →Lucio, →Giasone, →Sosipatro, →Andronico e →Giunia. Questo indica che la stragrande maggioranza dei personaggi menzionati tra i saluti di Rm 16 non fosse di origine ebraica (del resto, ben 19 dei 26 nomi presenti nel capitolo non risultano attestati in ambiente ebraico, all’epoca di Paolo). Il nome greco Herodion, variante di Herodian e del latino Herodianus, tradisce un’origine servile, e non è attestato altrove prima del IV secolo.
Eubulo. Il suo nome apre l’elenco delle persone (→ Pudente, → Lino, → Claudia e «i fratelli tutti») che salutano Timoteo, in 2Tim 4,21. Null’altro sappiamo.
Evodia e Sintiche. Queste due donne di Filippi, benemerite nella lotta per la diffusione del Vangelo, furono al centro di un contrasto i cui motivi vengono taciuti. L’apostolo le esortò a «riconciliarsi (to autò phroneîn) nel Signore», e pregò qualcuno (→Epafrodito o →Sizigo) di aiutarle a ritrovare la concordia perduta (Fil 4,2-3).
Febe. È indicata come «diaconessa» della comunità di Cencre, città portuale dell’istmo di Corinto, in Rm 16,1. A questa stimata «sorella», che fu già di grande aiuto per Paolo e per molti altri, l’apostolo affida il compito di consegnare la Lettera ai Romani, raccomandando ai destinatari di accoglierla «nel nome del Signore, in maniera degna dei santi» (Rm 16,2). L’appellativo diákonos, peraltro declinato al maschile nel testo, non indica ancora un incarico ministeriale definito (vd. ad es. Rm 13,4), ma è comunque indice di grande responsabilità, e implica attività di predicazione e di insegnamento. Il nome di Febe e le sue stesse credenziali fanno pensare a una donna di condizione agiata.
Figelo. Viene menzionato fra «quelli che sono dell’Asia», probabilmente immigrati efesini residenti a Roma, che abbandonarono Paolo durante la sua prigionia (2Tim 1,15). Il suo nome è affiancato a quello di →Ermogene: la perdita dell’uno e dell’altro, evidentemente, dovette suonare particolarmente amara.
Filemone. Si tratta del destinatario della più breve (ma non per questo meno significativa) fra le lettere di Paolo. Nativo di Colossi, e verosimilmente personaggio influente nella vita di questa città, viene indicato dall’apostolo come suo «collaboratore» (synergos). Dall’intestazione della lettera (Fm 1-2) possiamo ricavare il nome della sua probabile moglie, →Appia, e forse di uno dei suoi figli (→Archippo). Tra i suoi schiavi figurava →Onesimo, la cui fuga improvvisa diede origine al toccante biglietto di Paolo.
Filologo e Giulia. I nomi di questa coppia compaiono tra i destinatari dei saluti in Rm 16,15. Furono probabilmente a capo di una piccola comunità domestica di Roma, che comprendeva oltre a loro →Nèreo e sua sorella (forse i figli), →Olimpa e «tutti i santi che sono con loro» (quest’ultima frase si riferisce con ogni probabilità anche alla domus ecclesiae del v. 14, di cui faceva parte →Asìncrito).
Flegonte. Vd. →Asìncrito. Fortunato. L’apostolo afferma di godere della sua presenza a Efeso, accanto a quella di →Stefana e di →Acaico (1Cor 16,17-18). Se ne ignorano le generalità, ma si può supporre che facesse parte della «casa» di →Stefana.
Gaio (o Caio). Fu tra le poche persone che Paolo battezzò personalmente a Corinto, assieme a →Crispo (1Cor 1,14). Nella Lettera ai Romani, inviata probabilmente da Corinto, l’apostolo ne parla come di un «ospite (xénos) suo e di tutta la comunità» (Rm 16,23): pertanto potrebbe essere identificato con il →Gaio di Macedonia nominato dagli Atti degli apostoli (19,20). Non va confuso con quel Gaio, lodato per la sua fede e la sua carità esemplari, che appare come destinatario della Terza lettera di Giovanni inclusa nel canone del Nuovo Testamento (3Gv 1,1).
Gaio di Derbe. Il suo nome compare in At 20,4, all’interno di un elenco di persone che affiancano Paolo per un tratto del suo terzo viaggio missionario. Se la definizione «oriundi dell’Asia», che conclude il versetto di At, comprende anche lui, lo si può identificare con →Gaio di Macedonia.
Gaio di Macedonia. Viene nominato dagli Atti accanto ad →Aristarco, come compagno di viaggio di Paolo in Asia e vittima di un tentativo di linciaggio ad Efeso (At 19,29). Problematica, ma non impossibile, l’identificazione con il →Gaio di Derbe menzionato poco oltre dallo stesso testo; più sicura quella con il →Gaio di cui l’apostolo parla in 1Cor 1,14 e in Rm 16,23.
Gesù, detto Giusto. Viene menzionato nei saluti finali della Lettera ai Colossesi (4,11), accanto ai nomi di →Aristarco e di →Marco, cugino di Barnaba: «Di quelli che vengono dalla circoncisione – spiega Paolo – questi sono i soli che collaborano con me per il regno di Dio». In un’occasione imprecisata, forse agli inizi della predicazione, furono loro «l’unico conforto» dell’apostolo.
Giasone. Indicato come «consanguineo», «parente» di Paolo nei saluti di Rm 16,21, può essere identificato col Giasone di Tessalonica di cui parlano gli Atti (17,5-9), influente patrono di una locale comunità domestica.
Giovanni, detto Marco. Vd. →Marco.
Giulia. Vd. →Filologo.
Giunia. Vd. →Andronico e Giunia.
Giuseppe, detto Barnaba. Vd. →Barnaba.
Giusto. Vd. →Gesù, detto Giusto.
Lino. È nominato nella lista di coloro che salutano Timoteo, in 2Tim 4,21, assieme a →Eubulo, →Pudente, →Claudia e «i fratelli tutti». Viene tradizionalmente identificato con l’immediato successore di Simon Pietro sulla cattedra romana (Ireneo, Adv. Haer. III, 3,3; Eusebio, Hist. Eccl. III, 2.48).
Luca. Secondo una venerabile tradizione, riportata fra gli altri da Ireneo (Adv. Haer. III,1,1; 10,1; 14,1; 15,39; 16,8) e da Tertulliano (Adv. Marc. IV,2,4-5), sarebbe stato «l’evangelista» (nel senso attuale del termine) di Paolo, da identificare dunque con l’autore del dittico formato nel Nuovo Testamento dal terzo vangelo e dagli Atti degli apostoli. Gli accenni a un Luca nelle lettere, tuttavia, sono pochi e vaghi: il suo nome compare tra i «collaboratori» che affiancano l’apostolo durante la stesura del biglietto a Filemone (Fm 24), mentre in Col 4,14 se ne parla come del «caro medico». Stando a 2Tim 4,11, sarebbe stato l’unico a non abbandonare Paolo durante la prigionia romana. Alcuni suppongono che il →Lucio nominato in Rm 16,21 possa essere lui. Se lo identifichiamo con l’autore degli Atti, la sua presenza accanto a Paolo è desumibile dal riscontro e dall’analisi delle cosiddette Wir-stücken, le sezioni alla prima persona plurale che puntellano il testo, e che fanno pensare immediatamente a un testimone oculare degli avvenimenti. Se così fosse, l’autore degli Atti avrebbe incontrato l’apostolo a Troade (At 16,10) e lo avrebbe affiancato fino al suo arrivo a Filippi (16,40), accompagnandolo successivamente dalla Macedonia a Gerusalemme (20,5-18) e da Cesarea Marittima a Roma (27,1 – 28,16). Secondo una fortunatissima e affascinante ipotesi che risale al Lietzmann, sarebbe stato Luca il «fratello» senza nome «che ha lode in tutte le chiese a motivo del Vangelo», che Paolo inviò assieme a Tito e ad altri per raccogliere i fondi da recare a Gerusalemme (2Cor 8,18-19.22). Il termine «vangelo», all’epoca in cui Paolo scrive, non indica comunque un testo scritto: per quel che ne sappiamo, quindi, la sua enigmatica raccomandazione poteva alludere a uno qualunque dei tanti predicatori che lo affiancavano nell’attività evangelizzatrice. Fra le molte notizie leggendarie riguardanti Luca, c’è quella riportata dagli Atti apocrifi, che lo descrivono missionario nelle «Gallie» prima della morte di Paolo, e vicino a lui al momento della condanna a morte.
Lucio. Viene menzionato assieme a →Giasone e →Sosipatro, in Rm 16,21, come «della stessa stirpe» (syggeneîs) di Paolo. Alcuni propongono di identificarlo con →Luca, il «caro medico»: quest’ultimo nome potrebbe essere infatti valutato come un’abbreviazione di Loukios. At 13,1 lo indica come originario di Cirene, con un ruolo di spicco nella comunità antiochena.
Marco. Paolo lo presenta come suo «collaboratore» (Fm 24), «cugino di →Barnaba», del numero di «quelli (che vengono) dalla circoncisione» (Col 4,10-11). Può essere agevolmente identificato col →Giovanni Marco di cui parlano a più riprese gli Atti degli apostoli, originario di Gerusalemme. Nella casa di sua madre, una certa Maria, solevano radunarsi in molti per la preghiera (At 12,12.25). Sempre secondo gli Atti, fu lui ad accompagnare →Barnaba e il giovane Paolo nel loro primo viaggio missionario a Cipro e in Anatolia (At 12,25). Dopo il ritorno alla base antiochena, si racconta, →Barnaba volle prenderlo nuovamente con sé, ma «Paolo giudicava che non fosse opportuno portarselo dietro, perché li aveva abbandonati in Panfilia e non aveva condiviso la loro opera (di evangelizzazione). Vi fu una grossa lite, cosicché si separarono: →Barnaba prese con sé Marco e salpò alla volta di Cipro, Paolo invece scelse →Sila e partì, raccomandato alla grazia del Signore dai fratelli» (At 15,37-40). Lo ritroveremo ad Efeso, accanto a Paolo prigioniero, come dimostrano i passi citati all’inizio. Secondo 2Tim 4,11, l’apostolo avrebbe chiesto infine a →Timoteo di portarlo via con sé, definendolo «utile per il ministero» (euchrēstos eis diakonían). La tradizione lo vuole autore di uno dei quattro vangeli canonici, discepolo di Pietro (cf. 1Pt 5,13) e attivo a Roma e ad Alessandria d’Egitto: tutti dati storicamente problematici, ma non per questo trascurabili.
Maria. Il suo nome compare tra i saluti in Rm 16,6. Questa donna, dice Paolo, «ha molto lavorato» per le comunità di Roma, e forse rientra fra le sue conoscenze non personali.
Narcisso (quelli di). Alcuni membri dell’oikos di un certo Narcisso risultano destinatari di saluti in Rm 16,10: «quelli (della casa) di Narcisso che sono nel Signore». Che si tratti di schiavi di un non credente lo si desume proprio dall’indicazione del versetto, che specifica il saluto escludendo il loro padrone. Il cognomen Narcissus è frequentemente attestato nelle iscrizioni romane del tempo: nel nostro caso, potrebbe trattarsi del potente liberto dell’imperatore Claudio, fatto uccidere da Agrippina madre di Nerone, che conosciamo grazie alle indicazioni fornite da Svetonio (Claudius 28), Tacito (Ann. 31,1) e Dione Cassio (Hist. Rom. 60,34).
Nèreo e sua sorella. Vd. →Filologo e Giulia.
Ninfa. Compare tra i destinatari dei saluti nella Lettera ai Colossesi, assieme alla comunità che si radunava nella sua casa di Laodicea (Col 4,15). L’accusativo del testo originale, scritto senza accentazione nei codici più antichi, potrebbe nascondere un nome maschile (Nymphâs) o femminile (Nympha), ma generalmente si propende per quest’ultima ipotesi.
Olimpa. Vd. →Filologo e Giulia. A scanso di equivoci, Olympas era un nome maschile, assai diffuso fra schiavi e liberti.
Onesiforo. La sua «casa» fu oggetto di una speciale benedizione da parte di Paolo, secondo quanto si legge in 2Tim 1,16-18: «Il Signore usi misericordia alla casa di Onesiforo, perché spesso egli mi ravvivò, e non arrossì delle mie catene: anzi, una volta giunto a Roma, si mise sulle mie tracce con grande premura, finché non m’ebbe trovato. Il Signore gli conceda di trovare misericordia presso di Lui, in quel giorno: tutti i servizi che ha reso in Efeso, li conosci meglio di me». La sua famiglia è nominata nuovamente fra i saluti della stessa lettera (2Tim 4,19): questo particolare, unito al tono delle righe riportate più sopra, fa pensare che Onesiforo fosse già morto al momento in cui 2Tim venne composta. Gli Atti di Paolo e Tecla riportano i nomi della moglie e dei figli di un Onesiforo di Iconio (III,2).
Onesimo. Schiavo di →Filemone, fuggito da Colossi per ragioni che non appaiono chiare, raggiunse Paolo prigioniero ad Efeso. L’apostolo intercedette per lui, chiedendo all’amico padrone di riprenderlo «non più come schiavo, ma più che schiavo, fratello a me carissimo e, a maggior ragione, a te secondo il mondo e secondo il Signore» (Fm 16). La supplica di Paolo, che pure avrebbe potuto pretendere obbedienza «in Cristo» da parte di Filemone (8), viene fatta «in nome dell’amore», per questo «figlio generato nelle catene… che un tempo non ti fu utile, e oggi invece è utile a te e a me… accoglilo come fossi io stesso» (10-11; 17). Dopo una tale raccomandazione, non stupisce il fatto di ritrovarlo, già attivo nell’evangelizzazione, tra gli inviati di Paolo a Colossi (Col 4,9). Il vescovo Ignazio di Antiochia, che avrà modo di conoscerlo personalmente, lo ricorderà come uomo di «indescrivibile carità» (Eph. 1,3).
Pàtroba. Dai saluti di Paolo in Rm 16,14, pare facesse parte di una piccola chiesa domestica di Roma, che comprendeva →Asìncrito, →Flegonte, →Erme, →Erma e «i fratelli che sono con loro». Pèrside. Paolo la saluta in Rm 16,12, definendola «carissima» e precisando che «faticò molto per il Signore». Qualche commentatore la identifica con la madre di →Rufo. Il nome è tipicamente orientale.
Prisca (o Priscilla) e Aquila. Secondo gli Atti degli apostoli, questa coppia di sposi trovò rifugio a Corinto in seguito a un editto dell’imperatore Claudio che avrebbe espulso i “Giudei” da Roma. In quella città i due conobbero Paolo, offrendogli ospitalità e lavoro. L’apostolo li ebbe come amici e collaboratori fidatissimi, nella conduzione della comunità di Efeso e nella gestione dell’affaire →Apollo (vd. 1Cor 16,19 e At 18,2-26). Paolo indirizza loro dei saluti in due occasioni, in Rm 16,3-4 (dunque mentre si trovano a Roma) e in 2Tim 4,19 (in uno scenario efesino?). Nella Lettera ai Romani, in particolare, emerge tutta la riconoscenza di Paolo nei confronti di questi suoi amati collaboratori: «essi, per salvare la mia vita, hanno rischiato la testa: non li ringrazio soltanto io, ma tutte le chiese dei Gentili» (Rm 16,4). La loro presenza a Roma, come nota J. Murphy O’Connor, «fa pensare a un’attenta pianificazione anticipata. Questa coppia, come s’è visto, aveva offerto a Paolo una base a Corinto e aveva preparato il terreno per il suo ministero a Efeso. Se ora compare a Roma, la deduzione logica è che vi fosse stata inviata da Paolo per anticiparne l’arrivo». Altri (ad es. J.D.G. Dunn) suppongono diversamente, e imputano il loro ritorno temporaneo a Roma ad esigenze collegate alla loro attività commerciale. Altri ancora (P. Lampe), più correttamente, ipotizzano che il loro ritorno abbia coinciso con la scomparsa di Claudio (autunno 54), che fu responsabile del loro esilio. La singolare menzione di Prisca prima del marito Aquila, a segnalarne la maggiore importanza, ricorre in Rm 16,3; 2Tim 4,19 e At 18,18.26; l’ordine inverso si trova invece in 1Cor 16,19 (cf. At 18,2).
Pudente. È nominato nella lista di coloro che salutano Timoteo, in 2Tim 4,21, assieme a →Eubulo, →Lino, →Claudia e «i fratelli tutti».
Quarto. Il suo nome conclude la breve lista delle persone vicine a Paolo al momento in cui scrive ai Romani (Rm 16,23). Viene definito semplicemente «fratello». Dato che compare dopo →Timoteo (che apre la lista), →Lucio, →Giasone e →Sosipatro (che sono detti «consanguinei» dell’apostolo), →Terzo (che ha scritto la lettera), →Caio (ospite di Paolo) ed →Erasto (economo della comunità), possiamo immaginare che Quarto ricoprisse un ruolo minore ma noto, o fosse un membro di recente acquisizione, forse proprio per questo chiamato a chiudere simbolicamente l’elenco dei saluti.
Rufo e sua madre. Salutandolo assieme alla madre, «sua e anche mia», Paolo lo definisce con una formula che non ricorre altrove nell’epistolario, in riferimento a una singola persona: «l’eletto (eklektós) del Signore» (Rm 16,13). Questo indica un rapporto di particolare predilezione, o quantomeno di grande riconoscenza. Ed è ciò che farebbe pensare anche l’espressione «sua e pure mia», riferita alla madre: molto probabilmente Paolo allude a una maternità “spirituale”, forse a un aiuto concreto che questi due personaggi, ma in modo particolare la madre di Rufo, per l’appunto, potrebbero avergli fornito in una circostanza a noi ignota. Il vangelo di Marco cita un Rufo figlio di Simone di Cirene (Mc 15,21), ma l’enorme diffusione del nome e l’improbabilità delle implicazioni che l’identificazione comporterebbe (Paolo fratello di Rufo, e dunque figlio del Cireneo?) invitano a tenere ben distinti i due dati.
Silvano (o Sila). Fu tra i collaboratori di Paolo della prima ora, al fianco dell’apostolo nei suoi viaggi missionari in Grecia (2Cor 1,19; cf. At 15,40 – 18,22). Compare come mittente delle due lettere ai Tessalonicesi (1Ts 1,1; 2Ts 1,1), assieme a Timoteo e ovviamente a Paolo. Viene implicitamente qualificato come «apostolo di Cristo» (1Ts 2,6), il che fa supporre un’investitura diretta da parte di Gesù o di uno dei suoi immediati discepoli: del resto, gli Atti ce lo presentano molto presto attivo a Gerusalemme, col ruolo di scrivano (At 15,22-23), di «inviato» (apóstolos: At 15,27) e di «profeta» (At 15,27), e alludono velatamente al suo possesso della cittadinanza romana (At 16,37-38). Nel testo lucano, viene sempre preferita la variante greca del suo nome (Silas). Stando a 1Pt 5,12, collaborò anche con →Simon Pietro in veste di scrittore.
Simon Pietro. Vd. →Cefa.
Sintiche. Vd. →Evodia e Sintiche.
Sizigo. L’ambiguo termine syzygos si trova in un passo di difficile interpretazione della Lettera ai Filippesi (Fil 4,3), in cui Paolo si rivolge a un ignoto collaboratore, chiedendogli d’intervenire per riportare la pace tra due donne della comunità, →Evodia e →Sintiche. Il vocativo gnē sie syzyge, presente nel testo, potrebbe essere reso con «sincero commilitone», «leale camerata». La maggior parte dei commentatori, tuttavia, ritiene che possa trattarsi di un nome proprio, nonostante la mancanza di attestazioni in tal senso. In passato, appoggiandosi ad alcune affermazioni di Clemente Alessandrino (Strom. III,53,1) e di Origene (In Rom. I,1), si è persino avanzata l’ipotesi di un riferimento di Paolo alla propria moglie, ma la congettura è parsa presto insostenibile. Nel caso in cui non si interpreti syzygos come nome proprio, quindi, resta la possibilità che Paolo intendesse alludere con questa espressione a →Epafrodito, probabile latore della lettera.
Sosipatro. Viene menzionato assieme a →Lucio e →Giasone in Rm 16,21, come «della stessa stirpe» (syggeneîs) di Paolo. Potrebbe trattarsi del Sopatro che gli Atti (20,4) dicono presente in Asia, accanto a Paolo diretto a Gerusalemme per la consegna della colletta, in qualità di «figlio di Pirro di Berea» (forse responsabile di quella comunità).
Sostene. Figura tra i mittenti della Prima lettera ai Corinzi, con il semplice appellativo di «fratello» (1,1). Probabilmente aiutò Paolo nella stesura materiale del messaggio, anche se la collocazione del suo nome nell’incipit ne individua un ruolo di prestigio, per motivi che ci restano ignoti. Alcuni lo identificano con il Tizio Giusto di cui si fa menzione in At 18,7.
Stachi. Compare tra i saluti di Rm 16,9. L’apostolo lo definisce «diletto» (agapetós), con una sfumatura di delicata benevolenza. Il suo nome, frequente nelle iscrizioni del tempo, è attestato per uno schiavo della famiglia imperiale.
Stefana. Al momento in cui Paolo scrive la sua prima lettera alle comunità di Corinto, si trova con lui ad Efeso, in compagnia di →Fortunato e →Acaico (1Cor 16,17-18), probabilmente membri della sua «casa» (figli o schiavi). I tre, investiti dell’incarico di consegnare il messaggio in patria, sono indicati dall’apostolo come «primizia dell’Acaia» (1Cor 16,15-16): vale a dire che Stefana e il suo gruppo familiare furono tra i primi convertiti di questa zona (e tra i pochi ad essere stati battezzati personalmente da Paolo: vd. 1Cor 1,16).
Terzo. Il suo nome si inserisce alla prima persona singolare fra i saluti della lettera indirizzata ai Romani, di cui fu evidentemente l’estensore materiale, lo “scriba” («Vi saluto nel Signore io, Terzo, che ho scritto la lettera»: Rm 16,22).
Tichico. Compare tra i nomi che affiancano Paolo nelle sue missioni in Grecia e in Asia, per la raccolta della colletta da destinare alla comunità di Gerusalemme (At 20,4). Nella Lettera ai Colossesi viene presentato come «diletto fratello, fedele ministro (diákonos) e mio compagno di servizio (syndoulos) nel Signore» (Col 4,7). L’apostolo lo inviò a Colossi assieme ad →Onesimo, col compito di recapitare la lettera e di informare a voce i destinatari riguardo a «tutte le cose di qui» (Col 4,8-9). Stesso incarico risulta dalla Lettera agli Efesini: «Affinché anche voi conosciate ciò che mi riguarda e ciò che intendo fare, Tichico, fratello diletto e fedele ministro nel Signore, ve ne darà conto. Ve lo invio proprio per informarvi della situazione e per consolare i vostri cuori» (Ef 6,21). Stando a Tit 3,12 fu accanto a Paolo a Nicopoli, donde potrebbe essere stato inviato alla ricerca di Tito, mentre in 2Tim 4,12 si fa riferimento a una sua partenza da Efeso.
Timoteo. «Fratello nostro e collaboratore di Dio nel Vangelo di Cristo» (1Ts 3,2), «mio collaboratore» (Rm 16,21), «mio figlio diletto e fedele nel Signore» (1Cor 4,17), «che lavora al pari di me per l’opera del Signore» (1Cor 16,10), «figliolo verace nella fede» (1Tim 1,1), «figlio mio» (1Tim 1,18), «uomo di Dio» (1Tim 6,11), «figlio carissimo» (2Tim 1,2): così, all’interno dell’epistolario paolino, viene definito quello che fu forse il prediletto e il più fedele fra i discepoli dell’apostolo. Paolo scrive di non aver mai nessuno che avesse «un animo pari al suo» (isópsychos: Fil 1,20). Il «fratello» Timoteo risulta così tra i mittenti delle due lettere ai Tessalonicesi (1Ts 1,1; 2Ts 1,1), della Seconda lettera ai Corinzi (1,1), della Lettera ai Filippesi (1,1), della Lettera a Filemone (1) e della Lettera ai Colossesi (1,1). Al suo nome sono indirizzate due lettere, che la tradizione attribuisce agli ultimi anni di vita dell’apostolo (1-2Tim): la seconda di esse, a prescindere dalla sua autenticità, può essere considerata come un altissimo testamento spirituale. Gli Atti degli apostoli presentano Timoteo come originario di Listra (località dell’Asia Minore, a duecento chilometri da Tarso), «figlio di una donna giudea credente, ma di padre greco» (16,1-2). Avrebbe accompagnato Paolo nei suoi viaggi missionari in Grecia, Macedonia e Asia, come si ricava da un incrocio fra i dati della narrazione lucana (At 17,14-15; 18,5; 19,22) e quelli sparsi nelle lettere dell’apostolo (ad es. 1Ts 3,2.6; 2Cor 1,19; Fil 2,19-20), e lo avrebbe poi seguito fino a Roma. A Tessalonica, ad esempio, il suo compito fu quello di «confermare» ed «esortare nella fede» (1Ts 3,2.6), a Corinto quello di «richiamare alla memoria le vie»che Paolo aveva indicato «in Cristo» (1Cor 4,17). Dalla Lettera agli Ebrei (13,23) sappiamo di un suo periodo di prigionia, dal quale venne presto liberato. Il suo martirio è tradizionalmente collocato ad Efeso, nel 97.
Tito. Il suo nome ricorre con una certa frequenza nella Seconda lettera ai Corinzi (2,13; 7,6.13-14; 8,6.16.23; 12,18) e in quella ai Galati (2,1.3), in qualità di «fratello», «compagno» (koinōnos) e «collaboratore» (synergos) di Paolo. Nell’epistola che risulta indirizzata a lui, oggi considerata pseudepigrafa, viene invece definito in una maniera simile a Timoteo: «figliolo verace secondo la fede comune» (Tit 1,4; cf. 1Tim 1,1). Stando alle lettere di Paolo sicuramente autentiche, gli furono affidati due incarichi della massima delicatezza: la risoluzione di una crisi che aveva afflitto la comunità di Corinto (2Cor 7,5-16) e la raccolta dei fondi da destinare a Gerusalemme (2Cor 8,16-24). La Lettera ai Galati ricorda inoltre la sua partecipazione a una visita ufficiale presso i «notabili» di Gerusalemme, in rappresentanza delle comunità fondate da Paolo e Barnaba (Gal 2,1-3). Grazie alle lettere pastorali, possiamo immaginarne gli ultimi spostamenti: sarebbe stato inviato da Paolo a Creta, «allo scopo di mettere in ordine quanto rimaneva da completare e per stabilire presbiteri in ogni città» (Tit 1,5), avrebbe raggiunto l’apostolo a Nicopoli (Tit 3,12) e successivamente si sarebbe mosso verso la Dalmazia (2Tim 4,10).
Trifena e Trifosa. Sono menzionate all’interno della lunga lista di saluti della Lettera ai Romani (16,12). Si trattava probabilmente di una coppia di sorelle. Una ricca vedova di nome Trifena, identificabile con un’omonima discendente di Marco Antonio e parente dell’imperatore Claudio, compare nella narrazione degli Atti di Paolo e Tecla, come residente a Iconio dopo un ritiro a vita privata (IV,28).
Trifosa. Vd. →Trifena e Trifosa.
Trofimo. Gli Atti degli apostoli lo ricordano fra gli «oriundi dell’Asia» che accompagnarono Paolo nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme (At 20,4), e riferiscono di un incidente che lo avrebbe avuto come protagonista, contribuendo all’arresto dell’apostolo: quando alcuni Giudei «videro nella città Trofimo di Efeso insieme a lui, e pensavano che Paolo l’avesse introdotto (illegittimamente) nel Tempio». Da qui deduciamo la sua origine gentile. Stando al cenno che si fa di lui in 2Tim 4,20, non avrebbe potuto seguire Paolo a Roma (dopo la fine di una sua prima detenzione nell’Urbe) e si sarebbe fermato a Mileto. A questo punto se ne perdono le tracce.
Urbano. Viene salutato in Rm 16,9, come «nostro collaboratore in Cristo». L’uso del pronome plurale potrebbe indicare una conoscenza non personale da parte di Paolo. Ci è altrimenti sconosciuto.
Zena, l’uomo di legge. È indicato fra i possibili latori della Lettera di Tito (3,13). L’appellativo nomikós, accanto al suo nome spiccatamente greco (è l’abbreviazione di Zenodoro), farebbe pensare a un giurisperito romano, più che a un esperto della Legge mosaica. Di più non sappiamo.
II giorno
Cronologia
DINASTIA GIULIO-CLAUDIA |
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30 a.C.-14 d.C. OTTAVIANO (saeculum augustum) |
Nel 4 a.C. morte di ERODE IL GRANDE |
Prima del 4 a.C. NASCITA DI GESÙ CRISTO |
14-37 d.C. TIBERIO |
26-36 PONZIO PILATO, prefetto in Giudea |
27-29 predicazione di GIOVANNI IL BATTISTA |
37-41 CALIGOLA |
Progetto di una statua imperiale nel Tempio di Gerusalemme |
|
41-54 CLAUDIO |
50-52 proconsolato di GALLIONE, fratello di SENECA, in Acaia |
41 o 49 ca. tumulto a Roma "IMPULSORE CHRESTO" ("a causa di Cristo che spingeva"), nella Vita Claudii di Svetonio; il fatto si ritrova in At 18,1-2 che racconta di Aquila e Priscilla allontanati da Roma a causa di un ordine dell'impeartrore Claudio) |
54-68 NERONE |
64 incendio di Roma |
-tra il 55 e il 58 LETTERA AI ROMANI |
I FLAVI |
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69-79 VESPASIANO |
66-70 I rivolta giudaica |
70: a partire da questa data si possono datare molti scritti del NT, come ante quem o post quem |
79-81 TITO |
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81-96 DOMIZIANO |
Opere di FLAVIO GIUSEPPE |
Persecuzioni per "ateismo" |
96-98 NERVA |
Secondo Eusebio è sotto Nerva che Giovanni può essere liberato dall'esilio di Patmos e tornare ad Efeso |
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98-117 TRAIANO |
Fra il 111 ed il 113 lettere sui cristiani fra PLINIO IL GIOVANE e TRAIANO |
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GLI ANTONINI |
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117-138 ADRIANO |
132-135 II rivolta giudaica |
Rescritto di Adriano nella prima Apologia di Giustino |
138-161 ANTONINO PIO |
140-150 ca. PASTORE DI ERMA, |
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161-180 MARCO AURELIO |
Martirio di GIUSTINO |
1/ Il debito in Romani (vicino al Circo del Palatino)
Rm 1, 13Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni. 14Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: 15sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma.
16Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. 17In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà.
At 23, 11 (nella Fortezza Antonia) La notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma».
da Hans Urs von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma, 1981, pp. 15-18;21-22
Ci sono concetti cristiani fondamentali che, a dire il vero, sono sempre stati presenti alla coscienza della cristianità e che tuttavia, in una determinata epoca della sua storia, emergono alla luce in maniera tale da essere scoperti come per la prima volta. Nella Chiesa dell’epoca moderna si sono succeduti tre momenti a mettere in nuova luce il senso della vocazione cristiana secondo la Rivelazione.
1. Nei secoli successivi a Tommaso si sviluppa un senso elementare della libertà di Dio, dal cui beneplacito dipende ogni essere mondano: l’immagine veterotestamentaria di Dio, il Signore che elegge e rigetta, diviene determinante, in una specie di effetto retroattivo, persino per il rapporto del Dio della creazione con il suo mondo. Questa immagine di Dio comunque appare storicamente ancora troppo legata alla dottrina agostiniana della predestinazione (che continua ad avere effetto soprattutto nella Riforma) per poter dar vita, presa in sé, ad una soddisfacente dottrina della vocazione. Essa rimane a far da sfondo a ciò che segue.
2. Ignazio di Loyola – di fronte alla «parola» (biblica) della Riforma come realtà della rivelazione di Dio – porrà il venire salvifico di Dio nella carne interamente sotto il concetto di «chiamata». Per chiarire la natura del Vangelo nella sua essenza, egli fa precedere tutte le meditazioni sulla vita di Gesù da una parabola di chiamata (chiamata di un re ai suoi sudditi ad andare in guerra con lui contro i non credenti) dalla quale, in crescendo, e con l’uso di termini centrali del Nuovo Testamento, viene spiegata la missione di Cristo: se abbiamo preso in considerazione tale chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto sarà più degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Gesù Nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l’universo che Egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: «È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria. (Eserc. 95». In questo brano risulta evidente:
che il Vangelo viene inteso come «proclama» per una azione che deve ancora accadere, alla quale sono invitati fin da principio mondo e uomo;
-che qui non si parla della Chiesa, ma da una parte di «tutto l’universo» e dall’altra di «ogni singolo» così che la realtà della chiamata e della vocazione viene a trovarsi in qualche luogo anteriore alla chiesa organizzata;
-che con ciò colui che ascolta questa chiamata e vi risponde (in grande opposizione all’ascoltare–la–parola in Lutero, per il quale la giustificazione compiuta è solo da ascoltare e da credere) viene invitato all’evento della salvezza stessa.
3. Il terzo momento, - quantunque già formulato in Ignazio, ma non ancora messo in rilievo in maniera riflessa dalla Controriforma -, emerge là dove viene rispecchiato il faccia a faccia fra «tutto l’universo» e il «singolo» e soltanto con ciò viene recuperato il senso fondamentale della vocazione biblica.
La vocazione del «singolo» si verifica, secondo il proclama del re eterno, a favore di tutto il mondo, poiché la volontà del re è «conquistare tutto il mondo e tutti i nemici e così – attraverso croce, discesa agli inferi, resurrezione – entrare nella gloria del Padre mio».
Per liberare il senso di questa affermazione dalla ferrea morsa della teologia dell’elezione o della predestinazione agostiniano-calvinistico-giansenista era necessaria la coscienza universale dell’umanità e del mondo propria dell’epoca moderna la quale però, soltanto così, è approdata ad una comprensione della salvezza come, nel concludere la Bibbia, la sviluppano Paolo e Giovanni e, sulle loro orme, i padri greci.
Con l’ingresso definitivo nel campo visivo del piano universale di Dio tanto per la creazione quanto per la sua redenzione, diventa impossibile interpretare la dottrina dell’elezione dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la loro chiara preferenza di un singolo rispetto agli altri, se non come un momento all’interno di questo piano universale. Paolo stesso l’ha così intesa, dal momento che ha visto solo tipicamente la dottrina dell’elezione individuale (Rom 9) in base all’elezione d’Israele tra i popoli, e questa a sua volta, nella dialettica di Romani 11, in maniera funzionale per la totalità dei popoli.
Israele è chiamato a favore dei pagani e questa vocazione di Israele diviene modello per una vocazione (chiamare–fuori–da) della Chiesa, la quale avviene a favore del mondo e con ciò diviene anche modello per ogni vocazione personale all’interno della Chiesa, vocazione che mostra, senza eccezioni, la stessa forma ecclesiale: vocazione a favore di coloro che per il momento non sono ancora chiamati.
Questa comprensione biblico-patristica e di nuovo moderna supera definitivamente ogni teologia della predestinazione individuale (la cui forma più consequenziale era la dottrina della doppia predestinazione), secondo la quale l’eletto è principalmente eletto proprio per se stesso, a tal punto che deve arrestarsi rigidamente e con orrore davanti al mistero della mancata elezione (forse persino del rifiuto) degli altri – e siano pure questi altri molti o pochi.
Si può e si deve formulare molto semplicemente: ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. Questo è vero in maniera centrale per Gesù Cristo che è predestinato e con ciò chiamato (Rom 1,4) a morire e risorgere, prendendo il loro posto, per tutti i condannati. E in Gesù Cristo è al tempo stesso visibile che il Padre proprio per questo lo ama con un amore di predilezione, poiché egli si è fatto funzione della universale volontà salvifica paterna.
LG 14 Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare.
da Julien Green
È sempre bello e legittimo augurare all'altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano.
2/ Il vangelo di Augusto e il vangelo di Gesù Cristo (dinanzi alla Domus Augustana)
-30 a.C.-14 d.C. OTTAVIANO AUGUSTO (saeculum augustum)
da Virgilio, IV Egloga
“Giunge ormai l’ultima età dell’oracolo cumano, inizia da capo una grande serie di secoli (magnus ab integro saeclorum nascitur ordo); ormai torna anchela Vergine, tornano i regni di Saturno (iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna), ormai una nuova progenie è inviata dall’alto cielo (iam nova progenies caelo demittitur alto)
Tu al fanciullo che ora nasce, col quale infine cesserà la razza del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro, sii propizia, o casta Lucina; già regna il tuo Apollo. E proprio sotto il tuo consolato inizierà questa splendida età, o Pollione, e cominceranno a decorrere i grandi mesi.
Egli riceverà la vita divina, e agli dei vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato (pacatumque reget patriis virtutibus orgem).
Poche vestigia soltanto sopravviveranno dell’antica malvagità.
Guarda come si allieta ogni cosa per il secolo venturo. Oh, rimanga a me l’ultima parte di una lunga vita e spirito bastante per cantare le tue imprese”
dall’Iscrizione di Priene; OGIS 458
“…[Inizio mutilo] se il giorno natale (genéthlios) del divinissimo Cesare (toû theiotàtou Kaìsaros [l’originale latino, trovato in frammenti ad Apamea, qui dice soltanto: principis nostri] porti più gioia o vantaggio (5) noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose (tôn pántōn archē)… (10) Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (archēn toû bíou kaì tês zōês), che segna il limite e il termine del pentimento (toû metamelésthai) di essere nati. E poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice (eutychoûs) per tutti, e poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso negli uffici di governo (kairòn tês eis tēn archēn eisódou), (15)… e poiché è difficile ringraziare adeguatamente (kat’íson eucharisteîn) per i suoi numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento…, (20) mi sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia «Paolo Fabio Massimo» (riga 44) a nome della città] che tutte le comunità (politeíōn) abbiano un solo e identico capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre… (32) Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… (35) a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore (sōtêra charisaménē) che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci di tutti (euangélia pántōn), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, (40) e il giorno genetliaco del dio (hē genéthlios hēméra toû theoû) fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci a lui collegati (hêrxen dè tô-i kósmō-i tôn di’autòn euaggelíōn)…”
Lc 2, 1-6 In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto.
Mc 1,1 genitivo soggettivo, oggettivo o epesegetico? Il Vangelo che è Gesù Cristo... espressione sintetica... Cristo è la Parola di Dio, il Verbum Dei
da H. de Lubac, Les responsabilités doctrinales des catholiques dans le monde d’aujourd’hui, Cerf, Paris, 2010, p. 265
È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano.
3/ Dinanzi all'altare al Dio ignoto nel Museo Palatino, poi dinanzi al graffito del crocifisso in forma di asino
da J. Ratzinger, Cristo, la fede e la sfida delle culture, relazione all’incontro dei vescovi della FABC (2-6 marzo 1993 a Hong Kong), pubblicato da Asia News, n. 141, 1-15 gennaio 1994 e disponibile on-line al link http://www.gliscritti.it/approf/2009/conferenze/ratzinger200609.htm .
Possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta. Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse.
Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna trasformazione. [...]
La cultura non è isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti culturali che muovono verso l'unità. La storicità di una cultura significa la sua capacità di progredire e questo dipende dalla sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso l’incontro. [...]
Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e all’uomo.
da G.K. Chesterton, The Catholic Church and Conversion, in Perché sono cattolico, Gribaudi, 1994, p.135
La Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo.
4/ Dinanzi al Tempio di Apollo
-i figli di Erode a Roma nel4 a.C.; confermato il testamento del padre: ad Archelaola Giudea, a Filippo Cesarea di Filippo, ad Erode Antipa tetrarcala Galilea(finirà esiliato a Vienne da Caligola)
da Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 2,18-20; 80-98
«Salpato Archelao alla volta di Roma… anche Antipa(tro) si mise in viaggio per sostenere le sue pretese al trono… In Roma si riversò su di lui la simpatia di tutti i parenti che non potevano sopportare Archelao…
Cesare (Ottaviano Augusto) radunò il consiglio dei magistrati romani e dei suoi amici nel tempio di Apollo sul Palatino, che aveva fatto costruire egli stesso, adornandolo con splendida magnificenza... Sentite le due parti, Cesare sciolse il consiglio, ma pochi giorni dopo assegnò la metà dei regno ad Archelao col titolo di «etnarca», promettendogli di farlo re, qualora se ne fosse mostrato degno. L’altra metà la divise in due tetrarchie e le assegnò agli altri due figli di Erode: una a Filippo e l’altra ad Antipa che aveva conteso il trono ad Archelao. Antipa ottenne la Perea e la Galilea... mentre a Filippo furono attribuite la Batanea, la Traconitide, l’Auranitide... Dell’etnarchia di Archelao facevano parte l’Idumea, l’intera Giudea e la Samaria».
Alla morte di Erode il Grande, scoppiò una disputa sulla sua successione. Nell’ultimo suo testamento egli aveva designato re il figlio Archelao. Erode Antipa – conosciuto anche come Antipatro – facendosi forza su di un precedente testamento aspirava anch’egli al trono. Si presentarono così entrambi a Roma, al cospetto di Ottaviano Augusto, che infine decise per la divisione del regno in tre parti, pronunciando sul Palatino il suo giudizio.
Ad Erode Antipa, toccò la Galilea. Per questo motivo il tetrarca sarà poi coinvolto nel processo di Gesù, perché l’attività pubblica del Cristo si svolgerà nei territori a lui assoggettati. A Filippo (che era fratellastro di entrambi) fu assegnata la regione settentrionale della Galilea nella quale egli fondò la città di Cesarea di Filippo. Il luogo è noto nei vangeli, perché nei suoi pressi Gesù condusse i dodici per porre loro la domanda sulla sua identità: «Voi, chi dite che io sia?».
Ad Archelao toccò la Giudea con Gerusalemme. Fu, però, deposto nel 6 d.C. poiché si era reso impopolare. Augusto decise allora di nominare al suo posto un prefetto direttamente dipendente da Roma.
In occasione di un ulteriore viaggio a Roma avvenuto sotto Tiberio (descritto in Antichità giudaiche 18,109 ss) Erode Antipa si fermò ad alloggiare presso Erode Filippo e si innamorò della di lui moglie Erodiade, figlia del re nabateo Areta IV. Da questo fatto nacquero le vicende che portarono alla morte di Giovanni il Battista ed alla guerra fra Erode Antipa ed Areta. Erode, spinto dalla moglie Erodiade, venne ancora in Italia, questa volta a Baia, da Caligola, per chiedere la benevolenza dell’imperatore contro il re Agrippa. Avvisato da quest’ultimo Caligola fece, invece, esiliare la coppia a Lione, in Gallia.(Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 18, 240-255).
5/ Tiberio, Pilato e la croce (dinanzi alla Domus Tiberiana)
-14-37 d.C. TIBERIO
-Lc 3 1-4 Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.
-conversione di Paolo, prima del 40 d.C. (anno della morte del re Areta)
da C.S. Lewis, Scusi... Qual è il suo Dio?, GBU, Roma, 1993, pp. 75-76
Sto cercando di impedire che qualcuno dica del Cristo quella sciocchezza che spesso si sente ripetere: “Sono pronto ad accettare Gesù come un grande maestro di morale, ma non accetto la sua pretesa di essere Dio”. Questa è proprio l’unica cosa che non dobbiamo dire: un uomo che fosse soltanto un uomo e che dicesse le cose che disse Gesù non sarebbe certo un grande maestro di morale, ma un pazzo - allo stesso livello del pazzo che dice di essere un uovo in camicia – oppure sarebbe il Diavolo. Dovete fare la vostra scelta: o quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio, oppure era un matto o qualcosa di peggio. Potete rinchiuderlo come un pazzo, potete sputargli addosso e ucciderlo come un demonio, oppure potete cadere ai suoi piedi e chiamarlo Signore e Dio. Ma non tiriamo fuori nessuna condiscendente assurdità come la definizione di grande uomo, grande maestro. Egli ha escluso la possibilità di questa definizione – e lo ha fatto di proposito.
cfr. ad esempio i motivi del processo di Gesù che fu ucciso per ragioni religiose come bestemmiatore perché si faceva simile a Dio e la paura politica che Pilato aveva di una rivolta che poteva nascere invece dalla popolazione sobillata dal sinedrio, il vero pericolo politico per la stabilità di Gerusalemme
da Angelo Scola, Via crucis svoltasi nel Duomo di Milano, martedì 20 marzo 2012
XII. Gesù muore in croce
«Gesù disse: “è compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). “Immobile è tutto, – scrive Rebora - un istante che è eterno … solo si muove l’inesausto amor del Signore”.
«Tenebrae factae sunt super universam terram» ha cantato il coro. Gesù è trafitto dall’orrore di queste tenebre, di questa notte oscura. Al nostro posto Egli patisce fino in fondo la nostra intima lontananza da Dio. Tanto più dolorosamente perché non ha alcuna colpa.
A Lui, infatti, tale lontananza non era affatto familiare (come purtroppo invece lo è spesso per noi): essa era anzi quanto di più estraneo potesse capitargli.
Solo il Figlio fattosi uomo sa chi è il Padre e che cosa possa significare perderlo per sempre. Ma l’amore di Dio è così ricco che può assumere anche questa forma di oscurità. Ed assumerla per amore del nostro oscuro mondo.
«Emisit spiritum - consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Giovanni parla della morte di Cristo in questi termini perché la legge come estremo e supremo dono di sé. L’opera dell’Uomo-Dio che si compie sulla croce è solo purissimo amore da parte del Figlio come da parte del Padre e dello Spirito, e perciò è anche un’opera della più pura libertà (perfino nella morte Gesù è il Signore).
Amici, contemplando il Crocifisso «obbediente fino alla morte e alla morte di croce» impariamo il significato del sacrificio. Non una condanna da subire, ma la condizione dell’amore vero, che va fino in fondo. Perché, come ci ha suggeritola Preghiera iniziale, solo passando «dal Cuore di Cristo trafitto sulla croce» noi possiamo «attingere la sublime conoscenza del Suo amore».
Prendiamo coscienza di quanto questa logica dell’inesausto amore del Signore potrebbe cambiare il nostro sguardo sui nostri affetti feriti, sui nostri cari ammalati, soprattutto, su quelli che si trovano in stato terminale!
da Iacopone da Todi, Lauda 39, O Amor, devino Amore (De amore divino-De l'amor divino e sua laude)
O Amor, devino Amore,
Amor, che non èi amato!
6/ La lettera agli Ebrei, dinanzi all'Arco di Tito
Eb 13,24Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano quelli dell’Italia. 25La grazia sia con tutti voi.
Eb 8, 1Il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è questo: noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della Maestà nei cieli, 2ministro del santuario e della vera tenda, che il Signore, e non un uomo, ha costruito.
3Ogni sommo sacerdote, infatti, viene costituito per offrire doni e sacrifici: di qui la necessità che anche Gesù abbia qualcosa da offrire. 4Se egli fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la Legge. 5Questi offrono un culto che è immagine e ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu dichiarato da Dio a Mosè, quando stava per costruire la tenda: «Guarda – disse – di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte.
da G. Biguzzi, Dispense dal titolo Il Sacerdozio del Cristo in Ebrei, presso la Pontificia Università Urbaniana
«[I ministri cristiani] non ricevono nel NT il titolo di sacerdoti. La cosa si capisce senza difficoltà: i titoli dei dirigenti della Chiesa primitiva furono scelti in un tempo in cui la dottrina del sacerdozio di Cristo non era stata ancora elaborata. Siccome le loro funzioni erano molto diverse da quelle dei sacerdoti del tempo, ebrei o pagani, l’idea di chiamarli sacerdoti non poteva venire in mente. Dopo l’elaborazione della cristologia sacerdotale del ministero cristiano diventava possibile, anzi necessaria. Essa si fece strada in modo quanto mai naturale nel tempo posteriore al Nuovo Testamento. Nel Nuovo Testamento stesso è soltanto suggerita» (A. Vanhoye, «Sacerdozio», 1398).
– Per chi conosceva il tempio di Gerusalemme e le sue celebrazioni sacrificali, infatti, i sacerdoti erano collegati con l’uccisione degli animali (quando l’offerente era in stato di impurità, Ez 44,11; 2Cr 30,17), erano collegati con la manipolazione del sangue che era la parte più santa della vittima (Lv 17,11.14) e con la collocazione sopra l’altare delle carni offerte a Dio. Scrive per esempio R. De Vaux: «Le prêtre est donc très proprement le “ministre de l’autel” … par (…) évolution (…), l’action sacrificielle leur [= ai sacerdoti] a été de plus en plus réservée, elle est devenue une fonction essentielle et, conséquemment, la ruine du Temple [nell’anno 70 d.C.] a marqué la fin de leur influence : la religion de la Tôra a remplacé le rituel du Temple et les prêtres ont été supplantés par le rabbins» (R. De Vaux, Les institutions de l’AT, vol. II, 210).
- Si può dunque davvero pensare che coloro che presiedevano l’Eucaristia non sono stati chiamati «sacerdoti» perché non avevano a che fare né con l’altare del tempio di Gerusalemme, né con il sangue o con le carni degli animali offerti in sacrificio.
- San Paolo, ad esempio, era certamente sacerdote cristiano e presiedeva l'eucarestia; cfr. At 20,11
[Paolo a Troade risalì dopo la resurrezione del ragazzo], spezzò il pane, mangiò e, dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì.
7/ Erode il Grande, dinanzi alla Curia del Senato
da Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche 14, 385-389
«Antonio si fece avanti [nel Senato] e spiegò che anche ai fini della guerra contro i Parti era conveniente che Erode fosse re. Questa proposta fu accettata e votata da tutti... Terminata la riunione del senato, Antonio e Cesare [Ottaviano] uscirono avendo Erode in mezzo a loro, mentre i consoli precedevano gli altri magistrati, per andare a sacrificare ed esporre il decreto in Campidoglio. Così Antonio ospitò Erode nel suo primo giorno di regno, che egli ricevette nella centottantaquattresima olimpiade, sotto il consolato di Gneo Domizio Calvino, per la seconda volta, e di Gaio Asinio Pollione».
Erode, che passerà alla storia come “Erode il Grande”, dopo aver lasciato i suoi familiari assediati da Antigono nella fortezza di Masada, si imbarcò in cerca di aiuti, giungendo prima ad Alessandria d’Egitto, dove incontrò Cleopatra, poi a Roma dove giunse nel40 a.C. La sua richiesta era che venisse fatto re il fratello di sua moglie, al posto di Antigono, ultimo sovrano della dinastia degli asmonei. Antonio ed Ottaviano, invece, lo fecero proclamare re dinanzi al Senato riunito nella Curia, ritenendolo il più affidabile per governare in sintonia con il potere romano. Durante il suo regno nacque Gesù.
da J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret III, pp. 134-138
Al termine di questo lungo capitolo si pone la domanda: come dobbiamo intendere tutto ciò? Si tratta veramente di storia avvenuta, o è soltanto una meditazione teologica espressa in forma di storie? Al riguardo, Jean Daniélou, a ragione, osserva: «A differenza del racconto dell’Annunciazione [a Maria], l’adorazione da parte dei Magi non tocca alcun aspetto essenziale per la fede. Potrebbe essere una creazione di Matteo, ispirata da un’idea teologica; in quel caso niente crollerebbe» (Les Évangiles de l’Enfance, p. 105). Daniélou stesso, però, giunge alla convinzione che si tratti di avvenimenti storici il cui significato è stato teologicamente interpretato dalla comunità giudeo-cristiana e da Matteo.
Per dirla in modo semplice: questa è anche la mia convinzione. Bisogna però constatare che, nel corso degli ultimi cinquant’anni, nella valutazione della storicità, si è verificato un cambiamento d’opinione, che non si fonda su nuove conoscenze storiche, ma su un atteggiamento diverso di fronte alla Sacra Scrittura e al messaggio cristiano nel suo insieme. Mentre Gerhard Delling, nel quarto volume del Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament (1942), riteneva la storicità del racconto sui Magi ancora assicurata in modo convincente dalla ricerca storica (cfr. p. 362, nota 11), ormai anche esegeti di chiaro orientamento ecclesiale come Ernst Nellessen o Rudolf Pesch sono contrari alla storicità o per lo meno lasciano aperta tale questione. Di fronte a tutto ciò, merita di essere considerata attentamente la presa di posizione, ponderata con cura, di Klaus Berger nel suo commento del 2011 all'intero Nuovo Testamento: «Anche nel caso di un'unica attestazione [...] bisogna supporre - fino a prova contraria - che gli evangelisti non intendono ingannare i loro lettori, ma vogliono raccontare fatti storici [...] Contestare per puro sospetto la storicità di questo racconto va al di là di ogni immaginabile competenza di storici» (Kommentar zum Neuen Testament, p. 20).
Non posso che concordare con quest'affermazione. I due capitoli del racconto dell'infanzia in Matteo non sono una meditazione espressa in forma di storie. Al contrario: Matteo ci racconta la vera storia, che è stata meditata ed interpretata teologicamente, e così egli ci aiuta a comprendere più a fondo il mistero di Gesù.
- è certo, ad esempio, che Erode fece uccidere nel 7 a.C. due figli - Alessandro ed Aristobulo - e poi nel 4 ac.C. un terzo figlio, Antipatro, per paura che prendessero il potere
- anche l'episodio dell'Altare della Vittoria, con la contesa fra Ambrogio e Simmaco, riguardava il desiderio di quest'ultimo che la statua fosse riposizionata nella Curia del Senato
da Andrea Lonardo, articolo su Costantino su www.gliscritti.it
Simmaco non faceva la sua battaglia per una “libertà di coscienza” intesa alla maniera moderna, che era ovviamente impensabile a quel tempo. Il problema era che Graziano aveva rifiutato il titolo di pontifex maximus, cioè si rifiutava di fare i sacrifici come capo dello stato ed a nome dello stato. Ma se i sacrifici non erano fatti dall’imperatore e se non erano sovvenzionati dallo stato, non avrebbero avuto efficacia per placare gli dèi – spiegava Simmaco nella III Relatio. Per questo Simmaco affermava: “non si può giungere per una sola via ad un segreto tanto grande”, quello di Dio, affermazione che andava intesa non come un invito ad un pluralismo religioso e alla libertà di coscienza - che egli se avesse potuto avrebbe invece negato per ripristinare il divieto del cristianesimo - bensì come un invito all’imperatore perché, sebbene cristiano, venisse in Senato a sacrificare agli dèi rendendo così onore alla divinità sia tramite il culto cristiano, sia tramite quello pagano, in qualità di pontifex maximus. Questa qualifica che egli aveva rifiutato era esattamente il problema: l’imperatore, fino a quel momento, era stato il supremo sacerdote ed a lui spettava dirigere e guidare i sacrifici per ottenere il benessere e la vittoria dello stato. Ora, invece, egli si rifiutava di celebrarli, perché si dichiarava cristiano.
Benedetto XVI ha insistito molto e con intelligenza su questa alleanza che si creò fra la filosofia e la fede, mentre il conflitto culturale avvenne fra la mitologia e la fede. Così aveva scritto, ad esempio, nel discorso preparato per l’Università La Sapienza di Roma:
«L’uomo vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c).
In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera».
8/ Rm e il peccato originale, al Campidoglio, dalla terrazza sui Fori
R. Penna: una lettera che è un trattato (non c’è solo lo stile narrativo nella Bibbia!)
Rm 7 15Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. 16Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; 17quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, 23ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. 24Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? 25Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato.
Il cardinale Newman disse una volta in maniera straordinaria: il peccato è «l’unica cosa al mondo che l’offenda, l’unica cosa che non sia sua».
GS 13 Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l'uomo però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di lui.
Pur avendo conosciuto Dio, gli uomini «non gli hanno reso l'onore dovuto... ma si è ottenebrato il loro cuore insipiente»... e preferirono servire la creatura piuttosto che il Creatore (11).
Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza.
Infatti l'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono.
Spesso, rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio, l'uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo fine ultimo, e al tempo stesso tutta l'armonia, sia in rapporto a se stesso, sia in rapporto agli altri uomini e a tutta la creazione.
Così l'uomo si trova diviso in se stesso.
Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre.
Anzi l'uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato.
Ma il Signore stesso è venuto a liberare l'uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell'intimo e scacciando fuori «il principe di questo mondo» (Gv12,31), che lo teneva schiavo del peccato (12).
Il peccato è, del resto, una diminuzione per l'uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguire la propria pienezza. Nella luce di questa Rivelazione trovano insieme la loro ragione ultima sia la sublime vocazione, sia la profonda miseria, di cui gli uomini fanno l'esperienza.
“La vera difficoltà dell'uomo non è di godere i lampioni o i panorami, non di godere i denti-di-leone o le braciole, ma di godere il godimento, di mantenersi capace di farsi piacere ciò che gli piace” (GKC, Autobiografia, pag. 331).
“II paradosso fondamentale del Cristianesimo è che la ordinaria condizione dell'uomo non è il suo stato di sanità e di sensibilità normale: la normalità stessa è un anormalità. Questa è la filosofia profonda della caduta” (GKC, Ortodossia, pag. 216).
da Ortodossia di G.K. Chesterton
Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato - cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno - ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto.
Chesterton affermava che la dottrina del peccato originale è «l’unica visione lieta» della vita umana, perché ci ricorda che «abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia».
dalla Prefazione di Vladimir Soloviev a I tre dialoghi ed Il racconto dell’Anticristo
È forse il male soltanto un difetto di natura, un'imperfezione che scompare da sé con lo sviluppo del bene oppure una forza effettiva che domina il mondo per mezzo delle sue lusinghe sicché per una lotta vittoriosa contro di esso occorre avere un punto di appoggio in un altro ordine di esistenza?
da I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Bari, 1980, pp. 32-33
La frase: l’uomo è cattivo, non può, dopo ciò che precede, voler dire altra cosa che questo: l’uomo è consapevole della legge morale, ed ha tuttavia adottato per massima di allontanarsi (occasionalmente) da questa legge. La frase: l’uomo è cattivo per natura significa solo che tale qualità viene riferita all’uomo, considerato nella sua specie: non nel senso che la cattiveria possa essere dedotta dal concetto della specie umana (dal concetto d’uomo in generale, poiché allora sarebbe necessaria); ma nel senso che, secondo quel che di lui si sa per esperienza, l’uomo non può essere giudicato diversamente, o, in altre parole, che si può presupporre la tendenza al male come soggettivamente necessaria in ogni uomo, anche nel migliore. Ora, questa tendenza bisogna considerarla essa stessa come moralmente cattiva, e perciò non come una disposizione naturale, ma come qualche cosa che possa essere imputato all’uomo, e bisogna quindi che essa consista in massime dell’arbitrio contrarie alla legge. Ma, d’altronde, queste massime, in ragione appunto della libertà, bisogna che siano ritenute in se stesse contingenti, cosa che, a sua volta, non può accordarsi con l’universalità di questo male se il fondamento supremo soggettivo di tutte le massime non è, in un modo qualsiasi, connaturato con la stessa umanità e quasi radicato in essa. Ammesso tutto ciò, potremo allora chiamare questa tendenza una tendenza naturale al male, e, poiché bisogna pur sempre che essa sia colpevole per se stessa, potremo chiamarla un male radicale, innato nella natura umana (pur essendo, ciò non di meno, prodotto a noi da noi stessi).
Che una tale tendenza depravata sia di necessità radicata nell’uomo, possiamo risparmiarci di dimostrarlo formalmente, data la quantità di esempi palpitanti che, nei fatti degli uomini, l’esperienza ci pone sotto gli occhi.
dalla riflessione di Benedetto XVI pronunciata prima della benedizione dei partecipanti alla fiaccolata promossa dall'azione Cattolica Italiana, in occasione dell’apertura dell’Anno della fede l’11/10/2012
Cinquant’anni fa, in questo giorno, anche io sono stato qui in Piazza, con lo sguardo verso questa finestra, dove si è affacciato il buon Papa, il Beato Papa Giovanni e ha parlato a noi con parole indimenticabili, parole piene di poesia, di bontà, parole del cuore.
Eravamo felici – direi – e pieni di entusiasmo. Il grande Concilio Ecumenico era inaugurato; eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste, con una nuova presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo.
Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato».
Questa è una parte delle esperienze fatte in questi cinquant’anni, ma abbiamo anche avuto una nuova esperienza della presenza del Signore, della sua bontà, della sua forza. Il fuoco dello Spirito Santo, il fuoco di Cristo non è un fuoco divoratore, distruttivo; è un fuoco silenzioso, è una piccola fiamma di bontà, di bontà e di verità, che trasforma, dà luce e calore.
Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica. Anche oggi, a suo modo, umile, il Signore è presente e dà calore ai cuori, mostra vita, crea carismi di bontà e di carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della bontà di Dio. Sì, Cristo vive, è con noi anche oggi, e possiamo essere felici anche oggi perché la sua bontà non si spegne; è forte anche oggi!
da Primo incontro con i dèmoni, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )
Per meglio comprendere il discorso evangelico sul male è illuminante richiamare le riflessione degli allora
professori W. Kasper e J. Ratzinger. Il primo scrisse: «il diavolo è una non-figura che si dissolve in qualcosa di anonimo e senza volto, un essere che si perverte nel non-essere: è persona nel modo della non-persona». Questo passaggio del teologo tedesco rimanda, a sua volta, ad una riflessione di J. Ratzinger che aveva precedentemente affermato: «quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani».
da F. Camon (Occidente. Il diritto di strage, Garzanti, Milano 2003, pp. 121-122):
«Un pittore aveva bisogno di un modello per disegnare la figura del Cristo nell’Ultima Cena. Gira e rigira, lo trovò in un contadino povero, con uno sguardo mansueto e luminoso. Lo pregò di posare per lui, e quello accettò. Ne venne un Cristo meraviglioso. Il pittore era molto contento. Disegnò anche gli apostoli, tutti tranne Giuda; anche per Giuda ci voleva un modello, perché era troppo importante per quella scena. Gira e rigira, questo modello non lo trovava, finché capita un giorno in un paese di campagna e vede un contadino torvo, bieco, violento, che stava bestemmiando in un casolare e litigando con i familiari. Lo guardò bene e gli parve adatto. Lo pregò di posare per lui, convincendolo con l’impegno che lo avrebbe pagato, e cominciò il ritratto di Giuda. A un certo punto si accorse che l’uomo piangeva. Pieno di stupore, gli chiese: “Perché piangi?”. “Perché”, rispose l’altro, “quel Cristo che avete dipinto la volta scorsa, sono io”. “E cos’hai fatto, dunque, per essere ora così diverso?”. E l’uomo rispose: “Ho peccato”».
9/ Il Vangelo di Marco, presso la basilica di San Marco
Solo nel diritto romano erano previsti casi in cui era la donna a poter divorziare dal marito. Tale situazione non era prevista, invece, dal diritto rabbinico. Il vangelo di Marco è l’unico vangelo ad estendere alla donna le parole pronunciate da Gesù sul divorzio.
Anche i latinismi invitano a vedere in Marco un vangelo fortemente legato ad un ambiente di lingua latina: se alcuni di questi sono comuni agli altri vangeli (denarion, modios, kensos, krabbatos, legion, phragelloun), altri sono presenti esclusivamente nel primo vangelo, in particolare xestes, boccale (7,4), spekoulator, guardia (6,27), kodrantes, quadrante o spicciolo (12, 42), hikanon poiein, dare soddisfazione (15,15), kentyrion, centurione (15,39.44-45), praitorion, pretorio (15,16).
La reale e viva umanità di Gesù, di Andrea Lonardo (da www.gliscritti.it )
Se seguiamo il filo dell'identità di Gesù, secondo le sottolineature proprie del vangelo di Marco, prima di passare al cammino dei discepoli, dobbiamo innanzitutto non dimenticare come il più antico dei vangeli ci faccia incontrare la realtà dell'umanità di Gesù. Alcune espressioni sono così esplicite che, ad una prima impressione, non ci sembrerebbero degne del Figlio di Dio e saremmo, di primo acchito, tentati di ritenerle non compossibili con una vera presenza dello Spirito Santo. Ad una lettura più attenta esse si rivelano invece per quello che sono veramente: la manifestazione umana della presenza del Figlio di Dio. Procediamo con ordine, sottolineandone alcune.
Al v. 3,5 troviamo l'espressione "Guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori" in reazione al silenzio seguito alla domanda posta da Gesù: "E' lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?". Qui l'indignazione e la tristezza sono proprio lo sdegno di Dio che traspare nel volto umano di Gesù, dinanzi al rifiuto dell'uomo di inchinarsi alla sacralità della vita implicita nella fede nel Dio creatore e salvatore.
Al v. 3,21 troviamo una espressione dei parenti del Signore: "Dicevano: è fuori di sé". Certo non è una constatazione, come l'espressione precedente, ma una interpretazione maligna della vita di Gesù, che, però, ci mostra la crudezza del resoconto marciano. In molti dialetti italiani si usano espressioni analoghe: "E' fuori come un poggiolo", "E' fuori come un balcone" o semplicemente "E' fuori".
Nell'episodio della tempesta sedata, mentre la tempesta infuria, solo Marco ci riporta un particolare, al v. 4, 38: "Egli se ne stava a poppa sul cuscino e dormiva". Dormire non è un atto anti-spirituale, non è un momento inconciliabile con la presenza di Dio. E' lo stesso Gesù che, dinanzi alla furia delle acque e del vento, non trova di meglio che riposare e per di più "sul cuscino". Quante crisi apparentemente spirituali richiedono, talvolta, un po' di sano riposo per rientrare ed essere affrontate nella loro vera dimensione!
Marco è anche l'unico a testimoniarci del mestiere di Gesù. Mentre gli altri vangeli si limitano a dirci che egli è il figlio di Giuseppe, il carpentiere, Marco, al v. 6, 3, ci dice che proprio Gesù è conosciuto come "il carpentiere (tektòn), il figlio di Maria". In greco "tektòn" non vuol dire semplicemente falegname, ma piuttosto "carpentiere", essendo le abitazioni antiche costruite in gran parte di legname e non solo di pietra.
Al v. 6,6 troviamo: "Si meravigliava della loro incredulità". E' il Cristo che non si rassegna al rifiuto di fede, prestato dai suoi ascoltatori.
Il v. 8,12 ci fa notare, ancora più in profondità, lo sbuffare del Signore: "Traendo un profondo sospiro disse: Perché questa generazione chiede un segno?". E' il giudizio divino espresso nel gesto dell'uomo.
L'umanità appare anche nell'espressione della compiacenza divina di Gesù. Di nuovo Marco è l'unico a ricordare, nell'episodio dell'incontro con il ricco, al v. 10, 21 "Fissatolo, lo amò". L'incontro di due sguardi, il fissare gli occhi del ricco, è qui espressione di una elezione di carità riservata a quell'uomo e non a tutti. Quanto anche nella nostra esperienza siamo in grado di percepire diverse intensità nel modo in cui siamo guardati!
Nel cammino verso Gerusalemme, al v. 10,32, troviamo l'ordine del gruppo composto da Gesù e dai discepoli: "Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore". Il Signore cammina innanzi a tutti e sa bene che gli altri non marcerebbero alla volta di Gerusalemme se egli non fosse lì, solo, avanti a tutti.
E' questo Gesù che è il Cristo. Nessuna esitazione nel racconto marciano nel cogliere, insieme alla piena umanità di Gesù, la sua piena e cosciente messianicità e figliolanza divina. Marco non attende che gli apostoli comprendano chi è il Cristo per dichiarare la sua identità, ma la annuncia fin dall'intestazione del suo vangelo che così recita:
Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio (Mc 1,1)
Il triplice centro del vangelo di Marco:
Tu sei il Cristo
Il Figlio dell’uomo sarà ucciso
Questi è il mio Figlio, l’amato
da un articolo di Andrea Lonardo su www.gliscritti.it
Fra i passaggi decisivi della Dei Verbum troviamo l’affermazione dell’origine apostolica dei vangeli (DV 18): «La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica».
Con questa felice espressione i padri conciliari hanno voluto, da un lato, lasciare libero campo alla ricerca su chi siano gli ultimi redattori degli scritti neotestamentari. Dall’altro hanno insegnato che, chiunque sia stato l’effettivo estensore finale dei singoli scritti e quali siano stati i passaggi che hanno preceduto la loro redazione ultima, tutto è avvenuto in conformità alla predicazione apostolica.
L’ipotesi più accreditata sulla formazione dei sinottici afferma l’esistenza di una raccolta scritta di detti di Gesù (in greco loghia) precedente la redazione di Matteo e Luca e da loro utilizzata. I passi paralleli di questi due vangeli mostrano che entrambi debbono aver usufruito di questa fonte a loro anteriore, tesa anch’essa a far sì che potessero essere conservate le parole pronunciate da Gesù. Questa raccolta (indicata convenzionalmente con la maiuscola Q, dal tedesco Quelle che significa appunto fonte) non la possediamo più come testo a sé stante, ma inserita in Matteo e Luca che l’hanno intrecciata nel tessuto del vangelo di Marco ed arricchita con fonti a loro proprie.
L’affermazione dell’origine apostolica dei vangeli indica che questa ipotesi, come altre consimili, è assolutamente legittima per la fede cattolica. Essa, infatti, non inficia minimamente l’affermazione che ciò che è contenuto nei vangeli risale alla predicazione apostolica.
I vangeli e gli altri testi neotestamentari vengono scritti mentre sono certamente ancora in vita alcuni degli apostoli. La loro redazione avviene, comunque, in comunità di fondazione apostolica nelle quali la memoria della loro testimonianza è certamente forte. Affermare che la chiesa ha sempre ritenuto e ritiene l’origine apostolica dei vangeli vuol dire, da parte del Vaticano II, confermare che la sostanza di ciò che i vangeli ci trasmettono rispecchia fedelmente la parola degli apostoli anche se i testi non avessero direttamente la loro paternità, ma fossero opera di loro discepoli o in maniera più estesa di “cerchie” di persone tramite loro generate alla fede.
Paolo VI in persona intervenne nella discussione conciliare facendo preparare una lettera il 17 ottobre 1965: chiedeva che il testo della Dei Verbum affermasse da un lato il triplice stadio – Gesù, gli apostoli, i redattori - che ha portato alla scrittura dei vangeli e dall’altro la fedeltà storica del Nuovo Testamento al “Gesù reale”. Il suggerimento del Papa fu accolto ed i padri conciliari si trovarono d’accordo nel dire, in Dei Verbum 19, che la chiesa “afferma senza esitazione la storicità” dei vangeli.
Su questa linea si muove il volume Gesù di Nazaret di J.Ratzinger-Benedetto XVI in tutta la sua impostazione ed anche quando, riflettendo sull’importanza della testimonianza giovannea che concorda pur nelle sue peculiarità con tutto il resto del Nuovo Testamento, afferma che dietro il quarto vangelo “vi è ultimamente un testimone oculare e anche la redazione concreta è avvenuta nella vivace cerchia dei suoi discepoli e con l’apporto determinante di un discepolo a lui familiare”. Più che l’individuazione precisa di questa figura ciò che sta a cuore all’Autore è evidentemente l’origine apostolica dell’evangelo giovanneo.
Il Nuovo Testamento è così testimone non di molti cristianesimi, ma di un unico cristianesimo nel quale i differenti autori arricchiscono l’unità con la percezione di sfumature differenti ricchissime ma mai divergenti sul nucleo centrale, tutti confessanti insieme che solo in Cristo avviene la piena rivelazione di Dio e che non vi è altro Salvatore al’infuori di Lui.
dalla Lettera, firmata il 18 ottobre 1965, indirizzata a nome del Santo Padre Paolo VI, dal cardinal A. G. Cicognani, segretario di Stato, al cardinal A. Ottaviani, presidente della Commissione de doctrina fidei et morum del Concilio Ecumenico Vaticano II
Postremo, Beatissimus Pater aequum esse iudicat, a Commissione postulare ut verba (ad p. 33, lineam 19) ita ut semper vera et sincera… hisce, quae sequuntur verbis, mutentur: ita ut semper vera seu historica fide digna… Etenim in priore formula Evangeliorum historica fides non satis constare videtur; ideoque, ut patet, Sanctitas Sua in hoc doctrinae capite talem formulam probare nequit, quae historicam sanctissimorum illorum Librorum auctoritatem in dubio ponat.
10/ La sofferenza di Pietro e Paolo, presso il Carcere Mamertino
Una spina nella carne
2Cor 11,24-33
Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani.
2Cor 6,4-10 In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!
11/ Traiano ed Ignazio d’Antiochia, presso il Colosseo
Lettera di Plinio, governatore della Bitinia e del Ponto
E’ per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?
Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.
Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente cristiani.
Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata.
Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma (Epist. X, 96, 1-9).
Rescritto (lettera di risposta) dell’imperatore Traiano
Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi (Epist. X, 97).
Ignazio d'Antiochia, lettera ai Romani
“Ignazio, Teoforo, a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesù Cristo suo unico figlio, la Chiesaamata e illuminata nella volontà di chi ha voluto tutte le cose che esistono, nella fede e nella carità di Gesù Cristo Dio nostro, che presiede nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità, che porta la legge di Cristo e il nome del Padre. A quelli che sono uniti nella carne e nello spirito ad ogni suo comandamento piene della grazia di Dio in forma salda e liberi da ogni macchia l'augurio migliore e gioia pura in Gesù Cristo, Dio nostro” (Lettera ai Romani ).
“Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. 2. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. 3. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io, a tuttora, uno schiavo. Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla” (Lettera ai Romani IV,1).
da “Tito mi fece erigere coi proventi del bottino”, di Géza Alföldy (articolo Il Sole24ore)
I[mp(erator)] Cæs(ar) Vespasi[anus Aug(ustus)] / amphitheatru[m novum?] / [ex] manubis [fieri iussit (?)]; tradotto, significa: “L’imperatore Cesare Vespasiano Augusto fece erigere il nuovo anfiteatro con il provento del bottino”. Grazie a un’analisi più attenta si può invece osservare che nella prima riga, mediante l’addizione di nuovi fori, le lettere CÆ furono addensate tra loro e che prima di queste venne inserita una lettera aggiuntiva. La nuova versione risulta essere: I[mp(erator)] / T(itus) Cæs(ar) Vespasi[anus Aug(ustus)]; e cioè: “L’imperatore Tito Vespasiano Cesare Augusto”. Si tratta di Tito, il figlio di Vespasiano. I fori di fissaggio della versione originaria non più utilizzati furono coperti quasi perfettamente dalle nuove lettere. Tutto ciò concorda con la ben nota storia del Colosseo. Come dice Svetonio, fu Vespasiano a far erigere il Colosseo e, in base a una fonte d’epoca posteriore, fu già questo imperatore ad aprire al pubblico il nuovo anfiteatro, pur se i lavori di costruzione non erano ancora stati terminati. Sappiamo, però, da varie altre fonti, che fu Tito a inaugurare nell’anno 80 l’edificio con grandiose manifestazioni; per questo motivo, Tito veniva considerato come l’edificatore del Colosseo. Le due versioni dell’iscrizione si spiegano con chiarezza: la versione originaria fu redatta poco prima della morte di Vespasiano, avvenuta il 23 giugno del 79; quella modificata fu creata in occasione della solenne inaugurazione nell’anno 80, al fine di glorificare l’imperatore al potere e, cioè, Tito. L’iscrizione presenta una grande novità: il finanziamento dei lavori veniva fornito ex manubis. La costruzione di edifici pubblici, grazie ai proventi del bottino, rispettava la tradizione della repubblica romana. Nel nostro caso, si tratta dell’immenso bottino fatto da Tito nella guerra contro gli ebrei. Flavio Giuseppe riferisce del tesoro del Tempio di Gerusalemme e, in particolare, dell’arredamento aureo dell’edificio sacro, che fu depredato dai romani. In questo modo si può affermare che non soltanto l’arco di Tito con i suoi rilievi, raffiguranti l’arrivo a Roma dei vincitori carichi del bottino fatto nella Guerra Giudaica, ma che anche il Colosseo siano un monumento alla vittoria dei romani e, al contempo, alla tragedia delle sue vittime.
13/ Clemente di Roma, presso la Basilica di San Clemente
Lettera di Clemente ai Corinti
Per le improvvise disgrazie e avversità capitateci l'una dietro l'altra, o fratelli, crediamo di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da voi, carissimi, all'empia e disgraziata sedizione aberrante ed estranea agli eletti di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l'accesero, giungendo a tal punto di pazzia che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente compromesso (I, 1).
Chi ha la carità in Cristo pratichi i suoi comandamenti. Chi può spiegare il vincolo della carità di Dio? Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? L'altezza ove conduce la carità è ineffabile. La carità ci unisce a Dio: "La carità copre la moltitudine dei peccati". La carità tutto soffre, tutto sopporta (XLIX, 1-5).
Sentite l’eco della prima lettera di S. Paolo ai Corinzi? San Clemente scrive pochi anni dopo alla stessa comunità alla quale si era rivolto Paolo, parlando della carità. Già ai tempi di Paolo a Corinto c’era discussione e litigio. Con Clemente ritroviamo ancora i cristiani di Corinto incapaci di vivere la carità che l’apostolo aveva loro annunciato. E Clemente, allora, riprende a suo modo l’inno alla carità di Paolo:
Nulla di banale, nulla di superbo nella carità. La carità non ha scisma, la carità non si ribella, la carità tutto compie nella concordia. Nella carità sono perfetti tutti gli eletti di Dio. Senza carità nulla è accetto a Dio. Nella carità il Signore ci ha presi a sé. Per la carità avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima (XLIX, 5-6).
Noi vediamo che avete rimosso alcuni, nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato in maniera irreprensibile e con onore (XLIV, 6).
Perché tra voi contese, ire, dissensi, scismi e guerra? Non abbiamo un solo Dio, un solo Cristo e un solo Spirito di grazia effuso su di noi e una sola vocazione in Cristo? Perché strappiamo e laceriamo le membra di Cristo e insorgiamo contro il nostro corpo giungendo a tanta pazzia da dimenticarci che siamo membra gli uni degli altri? (XLVI, 5-7)
14/ Arco di Costantino
IMPERATORI CAESARI FLAVIO COSTANTINO MAXIMO PIO FELICI AUGUSTO SENATUS POPULUSQUE ROMANUS QUOD INSTINCTU DIVINITATIS MENTIS MAGNITUDINE CUM EXERCITU SUO TAM DE TYRANNO QUAM DE OMNI EIUS FACTIONE UNO TEMPORE IUSTIS REM PUBLICAM ULTUS EST ARMIS ARCUM TRIUNPHIS INSIGNEM DICAVIT
15/ San Paolo fuori le Mura (non c'è stato tempo di fare questa parte)
- in prima persona plurale le cosiddette “sezioni noi” (At 16,10-17; 20,5-21; 27,1-28,16)
Non è stato Paolo a cambiare il cristianesimo, ma Gesù a cambiare Paolo, di Andrea Lonardo
“Ultimo fra tutti Cristo risorto apparve anche a me come a un aborto” (1 Cor 15, 8). Paolo descrive qui se stesso, prima della conversione sulla via di Damasco, come una vita non nata, come un’esistenza non giunta alla gioia della nascita. Egli ha cominciato a vivere solo dopo l’incontro con il Signore.
Chi è stato veramente Paolo e qual è la radice ultima che lo portò alla decisione di arrivare a Roma e di giungere fino al martirio nell’urbe? Per chi vorrebbe, snaturando gli scritti neotestamentari, che Cristo sia stato solo un rabbino fra i tanti maestri del suo tempo, non resta che affermare che Paolo è il secondo fondatore del cristianesimo o ne è addirittura l’iniziatore stesso, colui che ha ellenizzato il cristianesimo, colui che ha portato a tutti – contro le stesse intenzioni di Gesù, a loro dire – il messaggio del rabbì di Galilea.
Secondo altri egli avrebbe, invece, giudaizzato il cristianesimo, reinserendo in esso gli elementi liturgici e ministeriali dei quali un Gesù in versione liberale avrebbe fatto piazza pulita in episodi come la cacciata dei mercanti del Tempio (il tutto sostenuto con un’esegesi a dir poco approssimativa di quel passo). Altri ancora, invece, sulla scia di una certa interpretazione della Riforma, lo vedrebbero come l’unico vero interprete di Gesù, a motivo dell’accentuazione paolina dei temi della grazia e della misericordia che renderebbero superflua – a loro dire – ogni esigenza morale del cristianesimo.
La testimonianza stessa di Paolo indica, invece, con precisione una via totalmente differente: non è stato l’apostolo a trasformare il Signore, ma è stato Gesù a cambiare Paolo! Egli che non aveva mai vissuto, ha trovato la vita sulla via di Damasco.
La cecità fisica, sperimentata da Paolo in quell’occasione, ha un suo corrispettivo interiore nell’accorgersi in quel giorno di non aver mai visto niente nel giusto modo. È solo l’incontro con la chiesa, l’invio a lui di Anania ed il dono sacramentale del battesimo, a far sì che egli cominci a vedere, che egli abbia la vista.
Il cavallo che la tradizione iconografica ha voluto aggiungere al racconto degli Atti non è in dissonanza con questo, ma rappresenta in maniera straordinaria e vera l’accaduto a partire dal simbolo. L’elegante e possente animale è sempre stato immagine di potenza. Gli imperatori, i re, i nobili, hanno sempre voluto essere rappresentati in sella – si pensi solo al Marco Aurelio del Campidoglio – a manifestare la loro autorità. Caravaggio e Michelangelo a Roma, insieme a tanti altri prima e dopo di loro, hanno voluto sottolineare il rovesciamento dei valori avvenuto nell’esistenza di Paolo in quel giorno. Cristo lo aveva disarcionato, smontato dalla sua sicurezza. Gli aveva rivelato il suo essere ‘come un aborto’.
Questo non significa dimenticare i tratti ebraici o greci di Paolo, ma tutto, in quel giorno, assunse un diverso significato. Paolo era ancora ebreo, Paolo era ancora greco e romano. Ma Paolo era divenuto cristiano.
Vengono qui in mente le famose espressioni di G. K. Chesterton quando scriveva che l’eresia non è necessariamente una affermazione falsa, ma più spesso è una verità che dimentica tutte le altre verità. E continuava sostenendo che il cattolicesimo è l’unico luogo dove tutte le verità si danno appuntamento. Ha senso parlare di un Paolo ebreo, di un Paolo che conosce a menadito le Scritture, è lecito parlare di un Paolo impregnato di cultura ellenistico-romana, pensando ad episodi come la discussione avvenuta all’Areopago di Atene o ancora all’uso della Bibbia nella sua versione greca elaborata dai rabbini di Alessandria d’Egitto. Ma l’evento che è la chiave di volta per capire l’uno e l’altro è ormai il suo rapporto con il Signore Gesù, è l’incontro sulla via di Damasco.
È così importante quella svolta nella vita di Paolo che Luca, negli Atti, la descriverà ben tre volte (At 9, 1-18; 22, 1-21; 26, 2-23). Paolo stesso nel suo epistolario vi farà continuamente riferimento (1 Cor 9, 1; 1 Cor 15, 8; 2 Cor 4, 6; Gal 1, 11-16; Fil 3, 7-14; Ef 3, 1-12; 1 Tim 1, 11b-17). Se Paolo fu per nascita ebreo e romano, formato nella tradizione ebraica e nella cultura greca, ciò che lo segnò in maniera radicale fu il suo diventare cristiano.
Quel giorno nacque in lui la vocazione che lo spinse poi fino a Roma. Come gli disse sulla via di Damasco il Signore: «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21).
da J.-N. Aletti
Possiamo dire, in sintesi, che siamo dinanzi a due domande che si presentavano a Paolo. Una prima domanda era interna al gruppo cristiano ed era relativa ai convertiti dal paganesimo: qual’è lo status dei pagani, per essere veramente dei credenti, dei salvati, cosa proporre loro per essere pienamente credenti o salvati. A questa domanda Paolo risponde: “La circoncisione non è necessaria, non servono la Torah e la circoncisione per ottenere la salvezza. Basta Gesù Cristo”.
La seconda domanda era quella di coloro che, in quanto Ioudaioi, erano fuori dal gruppo cristiano, non erano fra quelli che avevano accolto il vangelo e, perciò, dicevano: “Non abbiamo bisogno di Cristo, abbiamo la Torah. Gesù Cristo non c’entra, non è necessario”.
La risposta di Paolo a questo secondo gruppo, in Gal e Rom, è: “La Torah non è un mezzo di salvezza, non può salvare”.
Dio, se retribuisce, non può non punire il male. Ma chi è malvagio? Chiunque fa il male sarà punito. Ma quanti malvagi ci sono?
Ma subito Paolo enuncia un altro principio biblico: Dio non guarda solo le opere, Dio guarda il cuore.
Attraverso la stessa Scrittura. Solo la stessa Scrittura può dire cosa c’è nel cuore dell’uomo! Solo l’autorità biblica può dirlo! Ecco allora Rom3,9-19 che è una lunga sequenza biblica. E’ attraverso la citazione della Bibbia che Paolo dimostra che tutti sono malvagi. Leggiamo, nei versetti 10-18, una serie di citazioni bibliche che affermano: “Tutti gli uomini sono perversi dalla testa ai piedi”.
Ecco, così, che la circoncisione non è più un mezzo di distinzione: tutti sono sotto la collera divina.