Perdono. Terroristi e vittime, siamo sulla stessa strada, di Gemma Capra (la moglie del commissario Calabresi, assassinato nel 1972)
Riprendiamo da Avvenire del 17/2/2013 un testo di Gemma Capra. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (3/3/2013)
Il testo qui pubblicato è un estratto del dialogo [trascritto integralmente da Giulia Balzerani] tenuto nei giorni scorsi a Roma da Gemma Capra con i giornalisti Alessandro Banfi e Angelo Rinaldi, durante un incontro promosso da «Il Centro». Tema: «L’educazione, tra perdono e felicità».
Gemma Capra è stata la moglie del commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972 a Milano davanti alla sua abitazione, mentre andava in ufficio, da un commando composto da almeno due sicari che gli spararono alle spalle. Erano gli anni di piombo, Calabresi era al centro di una pesante campagna mediatica e politica orchestrata da ambienti della sinistra extraparlamentare (e non solo), con in prima fila il giornale «Lotta continua», che lo accusavano di essere responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, coinvolto nelle indagini sulla bomba di Piazza Fontana a Milano (1969), che provocò la morte di 17 persone. Calabresi lasciò la moglie, incinta, e due figli: Mario, attuale direttore de «La Stampa», che ha raccontato la storia della sua famiglia nel libro «Spingendo la notte più in là», e Paolo. Il terzo figlio (Luigi) nascerà pochi mesi dopo la sua morte.
Gemma Capra (con gli occhiali)
al funerale del marito
Il 17 maggio 1972 un vicequestore arriva a casa mia e mi dice che mio marito è stato ferito a una spalla. Avevo due figli piccoli e aspettavo il terzo. Mario, il più grande, aveva due anni e tre mesi, il secondo 11 mesi.
Chiedo di portarmi da mia madre a lasciare i bambini per poi andare all’ospedale, che era lì vicino. Nel frattempo, mentre uscivo da casa, arriva anche il mio parroco che sale in auto con noi. Quando sono a casa di mamma il poliziotto tergiversa, il vicequestore dice di voler aspettare ulteriori notizie, nessuno vuol dire nulla, gli sguardi si incrociano, percepisco che c’è qualcosa di diverso da una ferita. Prendo il parroco per le spalle e gli dico: «Don Sandro, dimmi la verità» e lui in quel momento, con il solo movimento delle labbra, senza tirare fuori la voce, dice: «È morto». Io – scusate, mi commuovo anche a distanza di 41 anni – mi accascio sul divano con un dolore lancinante, che non è solo interiore, è anche un dolore fisico, è uno smarrimento totale. In quel momento, piano piano, sento arrivare dentro di me una sorta di pace, di silenzio ovattato come se intorno non ci fosse più nessuno. Per me non esisteva più niente intorno e percepivo una forza interiore.
Sentivo che qualcuno era venuto in mio aiuto, che non ero sola. In quel momento Dio mi ha dato la fede come dono. Ho detto al sacerdote, che mi teneva la mano: «Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino». Pensavo che fosse ben più devastante il dolore di quella famiglia. A 25 anni, in attesa del terzo figlio, piena di gioia di vivere, mi piaceva andare a ballare, amavo la musica, i Beatles, non è possibile una cosa del genere, se non è Dio che opera in te, che vuole dare una testimonianza attraverso te. Io questo l’ho capito e ho pensato che probabilmente avrei dovuto testimoniare per tutta la vita, se Dio voleva questo. Sono convinta che Dio corre in aiuto di tutte le persone che provano un grande dolore o subiscono un’ingiustizia, ma sono anche convinta che bisogna saperlo riconoscere, bisogna saper dire: «Sono qui, sono disponibile, se succede questo ci sarà un perché, Lui mi darà la forza e io dovrò testimoniare».
Ecco anche perché oggi sono qui, dopo tanti anni. La fede non ti toglie il dolore, ma lo riempie di significato. E in questo modo ti fa crescere.
Naturalmente ci sono momenti difficili in cui smarrisci questa consapevolezza. E allora mi dico: «Gemma reagisci perché lo sai che Dio esiste, tu l’hai provato». Io ho proprio sentito il suo passaggio in me. Venivo da una famiglia molto religiosa, una mamma con una forte fede. Sono la quarta di 7 figli, per noi era normale andare a messa la domenica, recitare le preghiere, era normale crescendo fare del volontariato, ma era così perché per tradizione familiare così doveva essere. Da quel momento la scelta è mia, la fede è diversa, prima era un imitare i genitori, era anche forse farli contenti. Ma la fede è un’altra cosa, è qualcosa a cui tu ogni giorno devi attingere. Io non ho mai detto: «Perché a me?». E allora perché agli altri? Quando apri la porta della sofferenza scopri che non sei mai solo e anzi c’è ben di peggio, quindi impari a farti aiutare, ad aiutare gli altri, e condividi. Secondo me la sofferenza, come la gioia, va condivisa. Non vorrei essere fraintesa, ma credo che questa esperienza, così tragica, mi abbia reso migliore.
Vincere l’odio
Dopo la morte di mio marito ho deciso che dovevo educare i miei figli nella gioia di vivere che avevo provato nella mia famiglia. La gioia è importantissima, donare il sorriso sempre, in qualunque modo agli altri, fa bene a se stessi. La seconda decisione è stata di non crescerli nel rancore, nell’odio, tanto meno nel desiderio di vendetta. L’odio, il rancore, ti divorano, ti immobilizzano, non permettono più di costruire niente, ti perdi tutto ciò che di bello c’è nella vita. Se ti alzi la mattina con il rancore, la rabbia, l’odio dentro, come fai a crescere dei bambini, vedere le loro scoperte, sentire le loro parole nuove, scoprire una nuova amicizia, godere di un tramonto? L’odio ti divora, è come far vincere ogni giorno la cultura della morte. Questo è stata la base della mia scelta per educare i figli. E poi l’impostazione con i miei figli è sempre stata quella del dialogo. È fondamentale dirsi qualunque cosa, non dirsi mai bugie. Ho imparato che bisogna sempre dire tutto, non aver paura che i figli ti ridano dietro, non aver paura di essere banale o troppo semplice o troppo profondo. (…) Anche quando c’è un periodo difficile e voi pensate che vostro figlio non vi ascolti, che vi contesti, non importa, voi date perché tornerà. L’importante è che loro sentano che date con amore! Io l’ho scoperto dal libro di mio figlio Mario, non immaginavo che lui avesse fatto tesoro e ricordato tante cose.
La frase del necrologio
Nel necrologio che abbiamo fatto sul Corriere per la morte di Luigi c’è una frase di Gesù: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». L’ha scelta mia madre, io in quel momento forse non sarei stata in grado, ma l’ho accettata, ci siamo dette che bisognava spezzare quella catena di violenza e di odio con una frase di amore. Per anni non ho più pensato a quel necrologio, poi a un certo punto ecco che mi riaffiora, allora mi sono detta che era il momento di farla mia. L’avevo scritta, l’avevo firmata, quindi dovevo sentirla sulla mia pelle. Sono passati anni, ho molto meditato e mi sono data questa spiegazione: ma perché Gesù, sulla croce, non ha perdonato direttamente i suoi assassini? Lui era Dio, aveva certamente la forza e le carte in regola per dire «Vi perdono perché non vi rendete conto di quello che state facendo». Però attenti, Gesù era anche uomo in quel momento, quindi soffriva, sia fisicamente sia moralmente, si sentiva tradito.
Credo che come uomo abbia pensato che è difficilissimo perdonare nel momento in cui si è vittima di una tragedia e quindi ci indica Lui una strada, cioè fa chiedere a Dio di farlo al posto nostro. Lasciando a noi il tempo del cammino. Da allora mi sono resa conto che potevo cominciare a camminare. Il perdono è molto lungo e difficile. Non si dà con la mente, né con le parole, ma solo col cuore. Dopo tanti anni oggi riesco a pregare anche per gli assassini di mio marito. Spero di riuscire un giorno a portarli con me quando vado a fare la comunione, perché comunione, lo dice la parola, vuol dire condividere, vuol dire andare insieme. (…)
Più facile è perdonare chi te lo chiede. Leonardo Marino, quello che ha confessato e che ha molto sofferto perché è stato denigrato dal suo gruppo, abbandonato, linciato, ci ha chiesto perdono. E allora lo abbiamo perdonato perché è più semplice e anche perché penso che la sofferenza, anche se di tipo diverso accomuna, ci rende veramente fratelli. Più difficile perdonare chi non chiede il perdono e non lo vuole, però io penso che si possa fare un cammino anche interiore, individuale, non avere rabbia contro quella persona, non volere il suo male, avere un pensiero tenero. (…).
Mi ricordo che durante le udienze i figli di Sofri non potevano avvicinarsi perché facevano parte del pubblico. Quando c’era l’intervallo lui andava sempre da loro, soprattutto il maggiore che c’era sempre, e l’ho visto fargli una carezza con una grande tenerezza, dicendogli: «Dai, vai a casa, non stare qui». Voi sapete che io spessissimo, quando penso a Sofri lo ricordo in questo atteggiamento? Perché mi aiuta, perché lui è anche quella persona, per cui può aver sbagliato, ma perché non dobbiamo ricordarlo per quella carezza? Il perdono è questo tipo di cammino.
La felicità in carcere
Un paio di anni fa sono stata invitata nel carcere Due Palazzi di Padova perché c’era una grande festa, una persona aveva scelto di fare la cresima, una di ricevere il battesimo e un’altra faceva la prima comunione, quindi avevano aperto il carcere agli esterni, ed ero tra gli invitati. In quella sezione sono quasi tutti assassini e le pene sono tutte molto pesanti. È un carcere dove i detenuti lavorano, assemblano biciclette, montano valigie, fanno catering per l’esterno, cucinano per la mensa interna e gestiscono un call center dando appuntamenti per la Asl di zona. Ho scoperto che queste persone avevano una tale felicità di lavorare che la mattina non vedevano l’ora di alzarsi per andare a lavorare, malgrado per farlo si spostassero di pochi metri. Ed è proprio vero che il lavoro nobilita, perché li fa sentire importanti, veri, utili. E soprattutto è un ponte verso l’esterno. Poi mi sono soffermata a parlare con alcuni di loro, soprattutto con quelli che avevano fatto la scelta di ricevere i sacramenti. Ho scoperto che queste persone provavano un’enorme sofferenza per il dolore causato dal loro gesto, e ho scoperto che avevano incontrato Dio. Per tanti anni non ci avevo pensato: Dio corre in aiuto delle vittime, corre in aiuto dei familiari delle vittime, e anche di quelli che hanno fatto del male. Ovviamente c’è chi sa rispondere, chi dice sì e chi magari non riesce a riconoscerlo o ha bisogno di un cammino più lungo. Però stavamo facendo la stessa strada!
Vi rendete conto? Loro, assassini, in carcere, soffrono come soffriamo noi, vittime del terrorismo, noi facciamo la strada per perdonare e loro per chiedere perdono. Entrambi soffriamo ma chi è più vicino di noi? Abbiamo una sofferenza comune, siamo stati avvicinati da Dio, l’abbiamo sentito, l’abbiamo incontrato e tutti e due facciamo un percorso o per chiedere o per dare perdono, quindi non si può fare altro che incontrarsi. Questa scoperta che ho fatto solo due anni fa mi ha cambiato la vita, improvvisamente ho visto gli assassini di mio marito in un altro modo. Non sta a me giudicare chi fa il percorso e chi non lo fa, solo Dio lo può dire, nessuno può sapere quanta sofferenza provino le persone. Ma Dio lo sa e quindi solo Lui ci può giudicare e ci può amare con il suo infinito amore, però noi possiamo attingere a quell’amore. Il fatto che Dio sia corso in loro aiuto e che si sia fatto sentire da loro come si è fatto sentire da me quando quel giorno ero su quel divano, ti rovescia la vita completamente.