Antonio Vivaldi, il “prete rosso”: il Credo ed il Gloria. Breve nota di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo preparata in vista del concerto del Coro ed Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma diretto dal maestro Roberto Gabbiani, tenutosi l’1/2/2013 presso la Chiesa di San Josemaria Escriva. Per articoli sulla musica, vedi su questo stesso sito la sezione Arte e fede ed, in particolare, Il “divino” Amadeus e la grazia della fede: per Mozart cattolico. Dalla Grosse Messe al Requiem, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (17/2/2013)
Gabriele Bella, La cantata delle putte delli Ospitali
(1720 circa), Venezia, Palazzo Querini Stampalia
La vicenda biografica di Vivaldi sacerdote: verità e leggenda
Scrisse Vivaldi in una lettera datata 16 novembre 1737 ed indirizzata a Guido Bentivoglio d’Aragona: «Sono venticinque anni ch’io non dico messa né mai più la dirò, non per divieto o comando, come si può informare Sua Eminenza, ma per mia elezione, e ciò stante un male che io patisco a nativitate, pel quale io sto oppresso. Appena ordinato sacerdote, un anno o poco più ho detto messa, e poi l'ho lasciata avendo dovuto tre volte partir dall'altare senza terminarla a causa dello stesso mio male. Ecco la ragione per la quale non celebro messa».
Il documento ridimensiona la leggenda che ha origine in Gregoire Orloff, contemporaneo del maestro, che dichiarò che Vivaldi venne sospeso dal sacerdozio con un atto del Tribunale dell’Inquisizione perché avrebbe interrotto una Messa per annotare il motivo di una fuga che gli era venuta in mente mentre celebrava: Orloff continuava dicendo che l’Inquisizione lo avrebbe dichiarato “pazzo”, cioè artista, ed assolto, non punendolo, ma limitandosi a dispensarlo dal sacerdozio.
Vivaldi era stato battezzato alla nascita perché in pericolo di vita, dalla sua levatrice e poi balia. In quell’occasione, la madre aveva fatto voto di consacrarlo al Signore se si fosse salvato. Ordinato nel 1703, celebrò messa per un certo periodo di tempo, rinunziandovi poi, come dichiara nella lettera, probabilmente per dedicarsi interamente alla composizione ed alla direzione musicale. Venne soprannominato "il prete rosso" a motivo del colore dei suoi capelli.
Il suo atteggiamento verso il sacerdozio, comunque, appare estremamente rispettoso. Ciò emerge dal confronto con musicisti come Lorenzo da Ponte[1], distante solo alcuni decenni di tempo. Quest’ultimo, autore dei tre libretti di Mozart scritti in lingua italiana - Le nozze di Figaro, Così fan tutte e Don Giovanni - nacque in una famiglia ebraica col nome di Emanuele Conegliano e fu battezzato insieme ai due fratelli, quando il padre, Geremia, si convertì al cristianesimo per poter passare a nuove nozze con una donna cattolica.
Prese il nome che portò per il resto della sua vita, Lorenzo, dal vescovo che lo aveva battezzato, entrò con il fratello in seminario e fu ordinato prete nel 1773. Dovette fuggire dalla Repubblica di Venezia, più che per le sue posizione politiche e filosofiche illuministe, per il suo atteggiamento che potremmo eufemisticamente definire “disinvolto” nei confronti dell'altro sesso.
Nelle carte del processo avvenuto a Venezia si trova scritto che da Ponte aveva amoreggiato con una donna sposata presso la cui famiglia aveva trovato alloggio e che questa continuava ad andare a trovarlo, con un'amica, presso «la Chiesa di San Luca, assistendo alle messe che da Ponte vi celebrava scambiando occhiate di sollecitazione e di intesa con le parrocchiane». La denuncia anonima che portò, infine, il tribunale al giudizio ed alla sentenza fu emessa nel 1779: in essa era scritto che la donna, rimasta per la terza volta incinta, veniva indicata come la “ganza del prete”.
La Venezia del tempo di Vivaldi, con le sue Scole ed i suoi Ospedali
Un secondo aspetto, ulteriore rispetto ai dati biografici di Vivaldi, permette di illuminare il significato del suo servizio ecclesiale: il contesto sociale. Vivaldi fu a lungo, prima da sacerdote e poi semplicemente da direttore musicale, responsabile dell’educazione musicale delle orfanelle del Pio Ospedale della Pietà, una delle istituzioni veneziane dedicate ai bambini che avevano perduto i genitori.
Il cronista-musicofilo Charles de Brosses certificò ammirato di questi istituti: «La musica eccezionale è quella degli Ospedali dove le "putte" cantano come gli angeli e suonano il violino, l’organo, l’oboe, il violoncello, il fagotto; insomma non c’è strumento che le spaventi».
Negli istituti dediti ai bambini abbandonati i piccoli erano assistiti fino all’età di 15 anni: ai maschi veniva insegnato un mestiere ed alle ragazze la musica: quelle maggiormente dotate trovavano poi impiego negli stessi Ospedali come insegnanti delle più giovani o come musiciste.
Il termine Ospedale non aveva il significato attuale, bensì quello ancora legato all’etimo: erano luoghi di ospitalità dei più deboli, in questo caso dei figli senza genitori.
A Venezia la carità tipica di ogni comunità civile innervata dal cristianesimo aveva la forma degli Ospedali e quella delle Scole, nelle quali i laici stessi si erano fatti promotori in proprio dell’assistenza ai più bisognosi: si contavano sei Scole maggiori che portavano il nome di S. Maria della Carità, S. Rocco - famosa per i teleri di Tintoretto dipinti nel cinquecento -, S. Teodoro, S. Giovanni evangelista, S. Maria della Misericordia, S. Marco, insieme a numerose Scole minori.
Il Pio Ospedale della Pietà ebbe la direzione musicale di Vivaldi che componeva stabilmente per le ragazze, mentre si dedicava poi a farla eseguire dalle stesse. Straordinaria era la capacità dell’orchestra e del coro delle ragazze di eseguire opere con personaggi maschili, ma senza la presenza di cantori maschi.
Erano le stesse ragazze a dover interpretare anche il ruolo delle voci dei tenori e dei bassi, come nel caso dell’oratorio Juditha triumphans devicta Holofernis barbarie (RV 644), composto nel 1716. Esso venne commissionato a Vivaldi dal Pio Ospedale della Pietà per celebrare la riconquista da parte della Repubblica di Venezia dell'isola di Corfù contro i Turchi. L’oratorio comprende undici parti, maschili e femminili, che venivano tutte interpretate dalle ragazze.
Il Domine Fili Unigenite del Gloria può dare un’idea di quale fosse l’esito straordinario di tali composizioni.
Non si deve, comunque, dimenticare che l’intera società era cristiana al punto che il Doge aveva una specifica Cappella Palatina: San Marco. La più importante chiesa veneziana, infatti, non è la cattedrale della città, bensì l’edificio riservato alle liturgie peculiari del supremo capo della Repubblica Veneziana, il Doge. È in quel luogo che, fino a Napoleone, avveniva ad esempio la cerimonia liturgica di insediamento del Doge: egli era il capo cristiano della città, sottoposto in forma simbolica all’Evangelista Marco, ritenuto il vero custode della città.
La musica vivaldiana a servizio dei testi sacri
Ciò che è certamente ispirata dalla fede cristiana è la stessa musica sacra di Vivaldi. Come tutti i veri compositori egli - al di là della sua fedeltà personale al Vangelo che solo il Signore conosce, poiché solo a Lui spetta giudicare i segreti dei cuori – seppe servire i testi che la tradizione della Chiesa aveva elaborato, come il Credo ed il Gloria.
Seppe servirli, ma, al contempo, seppe creativamente farli risplendere. Vale per Vivaldi ciò che Giovanni Paolo II ebbe a dire del Giudizio Universale di Michelangelo: «Ma il Libro aspetta l'immagine.- È giusto. Aspettava un suo Michelangelo. Perché Colui che creava, "vedeva" - vide, che "ciò era buono". "Vedeva", ed allora il Libro aspettava il frutto della "visione". O uomo che vedi anche tu, vieni - Sto invocandovi "vedenti" di tutti i tempi. Sto invocandoti, Michelangelo!».
Come la Scrittura, così anche i testi della tradizione attendevano il loro Vivaldi che li facesse risplendere ancor più.
Per quel che riguarda il Simbolo di fede, si può citare il Credo vivaldiano RV 591. Il maestro lo divide in quattro movimenti.
Il primo ed il quarto sono due allegri. Nel primo, Credo in unum Deum, viene cantata la fede nel Padre e nel Figlio. Essi sono insieme e vengono esaltati dallo stesso motivo musicale. Splendida è la ripetizione del termine factorem, che sottolinea l’essere creatore di Dio.
Similmente il quarto movimento unifica in sequenza la fede nella resurrezione, la fede nello Spirito Santo, quella nel giudizio finale e nella Chiesa. Tutto discende dalla resurrezione che introduce pienamente la novità di Dio nel mondo. Nel quarto movimento corrisponde al factorem del primo il verbo iudicare. Il fatto che Cristo sia chiamato a iudicare vivos et mortuos é fonte di gioia, come la musica sottolinea, perché ciò vuol dire che il male sarà vinto e che l’amore infine trionferà.
Il secondo movimento, invece, l’ Et incarnatus est, è un Adagio. Nell’Incarnazione si manifesta il “mistero” dinanzi al quale tutto si ferma attonito. Merita ricordare che W.A. Mozart scriverà poi uno straordinario Et incarnatus est appositamente perché fosse cantato dalla moglie Constanze nella Messa che si era impegnato a scrivere per voto a Dio perché la sua sposa sfuggisse ad una grave malattia.
Il terzo movimento, il Crucifixus, è un Largo. Vivaldi volle che così venisse cantato il mistero del dolore della passione del Cristo, presentandola alla meditazione degli ascoltatori.
In questo maniera, a suo modo, Vivaldi mostra che il Credo non è assolutamente l’arcano della fede, quanto piuttosto ciò che rende manifesta la semplicità luminosa dell’intero messaggio biblico. Il Credo è - per citare un’espressione dell’allora cardinale J. Ratzinger - il filo di Arianna che permette di non perdersi nella selva della Scrittura: il Simbolo di fede non solo non si riferisce a punti oscuri, ma anzi esalta ciò che è più chiaro nella fede. La Chiesa, nella sua esperienza, ha compreso che gli elementi raccolti nel Credo gettano luce sul “mistero” di Dio ed insieme sul “mistero” dell’uomo che rimarrebbero altrimenti incomprensibili.
E la musica di Vivaldi manifesta questa claritate del Credo.
Note al testo
[1] Per la figura di Lorenzo da Ponte, cfr. Lorenzo da Ponte, Memorie, con introduzione di G. Armani, Garzanti, Milano, 1981.