A Costantino e a Dio. Un’allusione alla religione di Cristo sull’Arco che celebra il trionfo dell’imperatore. Dal Vasari a Berenson, molti hanno stroncato le sue sculture. Non sempre a ragione, di Marco Bona Castellotti
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Riprendiamo da Il foglio quotidiano del 29/2/2013 un articolo scritto da Marco Bona Castellotti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Sull'Arco di Costantino e sulla svolta costantiniana, vedi su questo stesso sito: Costantino e la libertà dei cristiani, di Andrea Lonardo.
Per le lezioni precedenti su Roma ed il cristianesimo nel I secolo, vedi, su questo stesso sito, al link Roma e le sue basiliche.
Sulla figura di Costantino vedi su questo stesso sito anche La conversione di Costantino il grande. Fu conversione vera o dettata da opportunismo?, di Marta Sordi (in appendice alcuni passaggi da Costantino e la chiesa, di Manlio Simonetti) ed ancora
La conversione di Costantino imperatore e la teologia politica di Eusebio di Cesarea, di Marilena Amerise. Per le immagini dettagliate dell'arco, vedi la Gallery L'arco di Costantino in Roma.
Il Centro culturale Gli scritti (10/2/2013)
Il tema centrale della “Lettera” a Papa Leone X, scritta da Baldassare Castiglione su ispirazione di Raffaello, sono le antichità romane. Nel 1515 il Pontefice aveva nominato il sommo pittore direttore degli scavi e l’aveva incaricato di dar inizio a quella pianta di Roma archeologica che, negli ultimi anni, avrebbe impegnato Raffaello più della stessa pittura.
La “Lettera”, di cui è noto un solo esemplare autografo di mano probabilmente del Castiglione, fu oggetto di apprezzamenti anche nel Novecento. Prezzolini salutò con enfasi il concetto ivi contenuto “dell’immortalità di Roma contesa dai barbari”. Raffaello sottolineava vibratamente l’urgenza di ripristinare il “disegno” della forma urbis per mantenere vivo il paragone con gli antichi e superarne la grandezza.
Giunti a trattare dell’Arco di Costantino gli estensori del testo ne riconoscono “il componimento del quale è bello e ben fatto in tutto quello che apartene all’architettura”, ma notano che le sculture del medesimo Arco sono “sciocchissime, senza arte e o bontate alchuna”, specie se comparate con quelle “che vi sono delle spoglie di Traiano e d’Antonino Pio, excellentissime e di perfetta maniera”.
Con tali parole ai rilievi marmorei d’età costantiniana presenti sull’Arco sotto i tondi si avanzava un’accusa che si sarebbe perpetrata per secoli e che giusto la storiografia moderna, ma non all’unanimità, ha tentato di demolire. Il confronto con i rilievi dell’età di Traiano, Adriano e Marc’Aurelio, provenienti da monumenti diruti tipo l’Adrianeum o da magazzini, riutilizzati come materiali di spoglio e incastonati in posizioni eminenti nello splendido monumento trionfale, rinfocolava il giudizio negativo sui manufatti costantiniani del IV secolo, giudizio che va letto in concomitanza con i dispareri degli storici sul periodo della Tetrarchia, nel quale Costantino comunque veniva innalzato come una fiaccola splendente.
Era nato intorno al 280 in una cittadina della Serbia da Costanzo Cloro e dalla sua concubina Elena, che, a quanto riferisce sant’Ambrogio, prima di divenire l’imperatrice faceva la “stabularia”, vale a dire la locandiera o meno ancora, la sguattera; dopo l’unione con l’Augusto era assurta“dallo sterco al regno” (Ambrogio).
Infrangendo “la rigida e geometrica gerarchia dell’ordinamento tetrarchico voluta da Diocleziano, in base alla quale all’Augusto defunto sarebbe dovuto succedere il Cesare in vita”, furono le truppe della Britannia ad acclamare imperatore Costantino (Fraschetti).
Avvolto ancora nel mistero è l’anno in cui egli ricevette il battesimo; secondo lo storico pagano Zosimo sul letto di morte per mano del vescovo ariano Eusebio di Nicomedia, secondo la tradizione cattolica da Papa Silvestro molto prima.
A dire di Zosimo l’imperatore seguiva ancora i “riti patri, non per ossequio ma per convenienza” e gli andrebbero addebitate la morte del figlio Crispo e quella della moglie Fausta, madre si sospetta incestuosa di Crispo, che Costantino avrebbe fatto bollire mentre prendeva il bagno. Troppe verità storicamente comprovate gettano ombre sulle tendenziose testimonianze di Zosimo, a cominciare dalla convocazione del concilio di Nicea nel 325, un fatto certo, voluto al fine di comporre la controversia tra la chiesa cattolica e il presbitero Ario che negava la natura umana di Cristo. Costantino morì il 22 maggio337 a Costantinopoli; per Eusebio di Cesarea, autore di una biografia dell’imperatore, “il beatissimo imperatore continuò a regnare anche dopo la morte”.
Torniamo alla sfilata dei giudizi sull’Arco. Non stupisce che il Vasari, fidando nell’autorevolezza di Raffaello, definisca quelle figure del IV secolo sotto gli aulici tondi adrianei “berlingozzi nel marmo intagliati”. I berlingozzi sono una specie di ciambelle confezionate a Firenze in Toscana nei giorni di carnevale. Questo termine volgare sfoderato da quel geniaccio di Vasari calza con certe sculture incastonate sulle due fronti dell’Arco, tozze e rozze, ma attribuirne la rozzezza alla penuria di buoni maestri al tempo della Tetrarchia equivale a liquidare sbrigativamente l’arte costantiniana.
Nonostante la superficialità, ad analoga opinione approda uno degli storici dell’arte più acuti del Novecento: Bernard Berenson, che tra i vari meriti ebbe quello di esser libero di tornare talvolta sui suoi passi e di correggersi. Il bel saggio (un po’ vetusto) di Berenson del 1952, riedito da Abscondita nel 2007, ha per titolo “L’Arco di Costantino o della decadenza della forma”.
È palese la lontana dipendenza dalla “Lettera” a Papa Leone X e dall’introduzione vasariana. Berenson applica ai rilievi costantiniani una analisi molto efficace, che però risulta inaccettabile nei contenuti, poiché l’arte della Tetrarchia e di Costantino della decadenza non fu. La crisi di Roma iniziò più tardi.
Berenson scrive: “Il bassorilievo con l’assedio [di Verona] fa pensare a dei pupazzetti disposti in un presepio o a delle marionette manovrate avanti e indietro da un sol filo”. “Le proporzioni si giudicano male, perché sono sacrificate alla composizione”. “Le Vittorie sui piedestalli sono anatomicamente di un livello così basso che si trova l’eguale soltanto nei rilievi imperiali sperduti ai confini d’Italia (come a Susa)”.
Prosegue: “Quanto alle figure, le grosse teste sono assolutamente sproporzionate ai corpi; e quei corpi rachitici sono avvolti in pesanti lenzuoli o coperti da misere camiciole, gli uni e le altre segnati da pieghe goffamente cesellate e non funzionali, come quelle dei più squallidi periodi ai quali sia mai scesa l’arte europea”. Nel caso dell’Arco di Costantino, lo sguardo aquilino di Berenson – bisogna ammetterlo – è scivolato via.
Non si è addentrato nel fitto intreccio di motivazioni politiche, religiose e culturali che stanno alla base di questo monumento, il quale, a prescindere dal fatto di presentarsi oggi ai nostri occhi senza il rivestimento cromatico di varie parti e di essere stato privato di molti frammenti, può ritenersi conservato abbastanza bene. Immortalato da una serie foltissima di dipinti dal Rinascimento al Novecento, l’Arco è bersaglio di controversie critiche, in sede archeologica e storica, che oscillano fra l’accademica meticolosità e la protervia ideologica, determinata dal problema della conversione dell’imperatore al cristianesimo, una questione che mi sembra possa risolversi così: “La religiosità di Costantino convertito resta, almeno negli anni immediatamente successivi, la tipica religiosità romana, strettamente collegata con gli interessi dello stato; riguarda Costantino più come imperatore che come uomo, lo impegna alla riconoscenza dello stato verso il Dio che gli ha dato la vittoria” (Sordi).
La vittoria è quella della battaglia contro Massenzio al Ponte Milvio, raffigurata in uno dei rilievi dell’Arco. La terribile zuffa è resa con un groviglio caotico di corpi (pupazzi o berlingozzi che siano) che precipitano nel Tevere. In un’altra scena vediamo l’assedio di Verona e in un’altra la partenza da Milano.
Sul lato a settentrione troviamo Costantino che parla nel foro e l’elargizione dei beni al popolo. Poi vi sono le due Vittorie alate e i dischi del Sole e della Luna. “In queste sculture c’è uno stacco tecnico rispetto a quelle più antiche. Qui prevale l’uso del trapano a violino, una specie di trapano di metallo che veniva mosso con una sorta di archetto da violino, per forare il marmo in modo da estrarre figure delineate lentamente, con uno stacco profondo di luci e ombre. Bisogna immaginare queste sculture completamente colorate” (Zeri, “L’Arco di Costantino. Divagazioni sull’antico”, 2004). Indi vediamo le due divinità fluviali, la cui rozzezza è innegabile al di là di ogni possibile rivalutazione.
Gli elementi plastici precedenti appartengono al II secolo, al regno di Traiano, Adriano e Marco Aurelio. I tondi adrianei si distinguono per la finezza del modellato, facilmente percepibile da chiunque, per la classica calibratura dell’inquadramento dei personaggi nello spazio e per il naturalismo con cui episodi della vita quotidiana dell’imperatore – come la caccia al cinghiale – sono resi. È probabile che siano di mano di maestranze provenienti dalla Grecia.
Uno presenta ancora una cornice in porfido, pietra imperiale per eccellenza. Il rosso del porfido si combina con il giallo oro – oggi poco visibile – delle colonne. “Tale combinazione cromatica, per i contemporanei dell’Arco, aveva un preciso significato: erano i colori di Roma. I colori della squadra di calcio della Roma non sono altro che il giallo e il rosso della città imperiale per eccellenza: oro e porfido”.
In ogni altro fregio è l’andamento narrativo a dominare, ma se nelle scene scolpite nel II secolo l’elemento narrativo è come governato dall’armonia e da uno studiato equilibrio, nelle affollate storie costantiniane gli ignoti scalpellini hanno voluto esprimere un linguaggio naïf, per esigenze di comunicazione e di divulgazione più che per l’incapacità di realizzare qualcosa di meno corsivo.
Quest’arte asservita al potere, agli inizi ormai del IV secolo, punta sull’effetto di massa, come certa arte militare del Novecento (Zeri); qualcosa di simile si trova nelle statue del Foro italico. Non viene trascurato l’espressionismo, un espressionismo marcato che cogliamo nei diversi atteggiamenti degli astanti (Zanker), le cui fisionomie non derivano da un unico modello tipologico.
Notiamo volti più o meno compiaciuti, altri seri o annoiati; certo sono disegnati con tratti molto sommari e in loro non vi è nulla che evochi le splendide teste dei tondi adrianei. Il loro stile piuttosto è simile a quello dei sarcofaghi paleocristiani (Liverani), uno stile che mira all’energia, non alla raffinatezza. Ed è probabile che il pubblico che osservava dal basso non si concentrasse tanto sulle differenze stilistiche, quanto sull’apparato illustrativo di eventi recenti, così da venir incitato a stringere un legame di continuità fra accadimenti antichi e contemporanei.
Data la flagrante disparità che intercorre fra le parti costantiniane e quelle auliche del II secolo, è doveroso domandarsi perché il Senato romano abbia voluto reimpiegare opere di marmo celebrative di imperatori della statura di Traiano, Adriano e Marco Aurelio invece che di altri. Fu una scelta casuale sollecitata dal recupero di materiali dismessi, oppure una volontà dettata da ragioni meno funzionali e più profonde?
In un Arco trionfale di simile prestigio nulla di casuale poteva essere ammesso. Era stato eretto per volere del Senato tra il 312 e il 315 per commemorare sia la vittoria al Ponte Milvio sia i decennali del regno. Nel fatto macroscopico che le teste dei tre imperatori furono sostituite con altrettanti ritratti di Costantino, è immediato riconoscere una premura culturale e politica: assimilare l’ultimo imperatore ad alcuni tra i più illustri della storia romana.
I ritratti di Costantino, rilavorati o avvitati sui corpi di Traiano, Adriano e Marc’Aurelio, si salvarono, mentre quelli d’epoca costantiniana, presenti in antico nei fregi narrativi, furono asportati, tranne uno ridotto oggi al puro profilo. Lo scempio non è addebitabile ad alcuna “damnatio memoriae”, anzi l’imperatore che aveva concesso la libertà di culto ai cristiani fu trattato nei secoli con un rispetto esclusivo. Tanto per fare un esempio: la statua equestre di bronzo del Marc’Aurelio oggi nei Musei Capitolini, fu risparmiata alla fusione, al tempo delle invasioni barbariche, solo perché si era persa la memoria del legittimo imperatore a cavallo che a distanza di due secoli si credeva fosse l’intoccabile Costantino. I ritratti costantiniani dei rilievi del IV secolo furono asportati nel 1535 da Lorenzino de’ Medici, nipote di Papa Clemente VII, per un motivo molto semplice: indispettire lo zio Papa che venerava l’imperatore romano-cristiano.
L’atto vandalico di Lorenzino è una prova indiretta dell’aura di sacralità nella quale era avvolta la persona di Costantino agli occhi della chiesa anche in epoca rinascimentale; del resto era stato Costantino a promulgare, insieme al collega Licinio, il così detto editto di Milano del 313 (cui è dedicata una bella mostra allestita nel capoluogo lombardo che nel prossimo marzo andrà a Roma), e simile gesto doveva apparire imperituro.
Con l’editto veniva riconosciuta ai cristiani “quella libertà di culto che era stata loro negata per circa tre secoli e soprattutto le chiese poterono organizzarsi anche economicamente per i loro aiuti tradizionali in particolare alle vedove e agli orfani” (Fraschetti).
Esaminato in chiave storica, l’Arco riveste il ruolo di un teste eccezionale. Infatti su entrambi i lati dell’attico si trova un’iscrizione scolpita con la quale il Senato romano dedicava il magnifico monumento all’imperatore per avere trionfato su Massenzio, inoltre nel 315 si celebravano i decennali del regno. Nell’iscrizione, ben leggibile nonostante le abrasioni, sono scolpite alcune parole tuttora oggetto di interpretazioni contrapposte. L’epigrafe recita così: “L’arco insigne per i trionfi” veniva dedicato a Costantino “poiché per ispirazione della divinità (instinctu divinitatis) e per la grandezza del suo spirito (mentis magnitudine)”, egli aveva vendicato lo stato con giuste armi sia sul tiranno che su tutti i suoi sostenitori. Esiste però un’altra traduzione: “Per ispirazione e per la grandezza di spirito della divinità”.
Ma a quale divinità l’epigrafe allude? Al Sole cui l’imperatore era devoto o alla religione di Cristo? Si capisce quanto il dilemma sia rilevante. A questo punto entrano in campo storici armati di varie argomentazioni, ma il fattore che conferisce un indubbio credito all’ipotesi che quella divinità fosse proprio il Dio dei cristiani, anche se in qualche misura permeata di remore pagane, è un dato, benché importantissimo, non messo in evidenza da tutte le correnti della storiografia costantiniana: Costantino, dopo la vittoria su Massenzio, oppose un deciso rifiuto a compiere un rito che i suoi predecessori imperatori invece erano soliti praticare, ossia la salita al Campidoglio per rendere omaggio al tempio di Giove Ottimo Massimo.
Non lo fece, ed è più che legittimo interpretare il rifiuto come conseguenza del fatto che nel frattempo egli aveva optato per la religione cristiana. Se la questione della visione miracolosa occorsagli la notte tra il 27 e il 28 ottobre, nella quale gli apparve il Dio dei cristiani a incoraggiarlo tanto da spingerlo a mettere il monogramma di Cristo sugli scudi e le insegne del suo esercito, può presentare risvolti leggendari, il mancato ossequio a Giove Capitolino possiede i crismi della storia.
Dopo il 325 e negli anni finali della vita Costantino si occupò principalmente della nuova città che aveva fondato in oriente e che da lui aveva preso il nome. Qui fece costruire un palazzo imperiale, un circo, un edificio per il Senato, ma l’Arco che lo aveva celebrato trionfante, più di vent’anni prima, doveva rimanere prerogativa di Roma.