Morte e amore, di Antonio Maria Sicari
Riprendiamo dalla rivista Communio 233, 2012, pp. 3-7, l'Editoriale scritto da Antonio Maria Sicari. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2012)
Per quanto possa sembrare semplicistico e perfino urtante, il sofisma di Epicuro («La morte non è niente perché, quando c'è lei, non ci sono io e, quando ci sono io, lei non c'è!») sembra aver segnato, per molti un punto di non ritorno; non riguardo al timore della morte (che resta comunque ineliminabile), ma rispetto al valore delle nostre riflessioni su di essa. In fondo, per poter parlare della morte, bisogna essere vivi e, quindi, dobbiamo poi ammettere di parlare di ciò che non conosciamo.
Ma che il sofisma (originariamente destinato a togliere all'uomo la paura della morte) abbia una sua ultima inconsistenza lo rivela l'esperienza: l'uomo, infatti, non teme tanto la propria morte, quanto la morte delle persone che ama. E, quando muore la persona amata, io ci sono.
Ci sono quando lei soffre, si ammala e invecchia (con tutto il triste corteo che annuncia, già da lontano, la morte). Ci sono quando la morte furtivamente si avvicina e lascia le sue tracce sul volto della persona cara che sta per abbandonarmi.
Ci sono nell'istante in cui spira e devo progressivamente abbandonare anche il suo caro corpo. Ci sono nello strazio dei riti funebri. Ci sono, infine, nei giorni che continuano a scorrere, segnati dall'Assenza. E quello che non so della morte in se stessa, lo so dal contraccolpo che essa ha sul mio vivere.
Il tema non ha avuto molto spazio in teologia, ma ha avuto molti approfondimenti, anche religiosi e spirituali, in letteratura, dove la morte è descritta in tutto il suo realismo, ma quasi guardata nel cuore e nella mente delle persone care.
Nel racconto di Anton Čechov L'angoscia, il vetturino Iona conduce la sua carrozza pur portandosi in cuore il tormento per la morte prematura del figlio: «un'angoscia immensa che non conosce confini. Se gli scoppiasse il cuore e quell'angoscia si riversasse fuori, inonderebbe tutto il mondo, eppure non si può vederla ... ».
Passa così un'intera giornata cercando ripetutamente qualcuno a cui poter raccontare quella sua immensa disgrazia: «Al figlio, quando è solo, non è in grado di pensare ... Si può parlare di lui con qualcuno, ma pensare da solo e raffigurarsi la sua immagine, è insopportabile, spaventoso ... ». Non aver nessuno con cui parlare della morte del figlio, doverlo soltanto «pensare» e «ricordare» è per Iona sentirlo ancora più morto. Ma nessuno dei suoi clienti ha voglia o tempo di ascoltarlo.
A tarda sera il vetturino si ritrova solo nella stalla, e finalmente riesce a confidarsi alla sua cavallina: «Già, è così, cara cavallina mia ... Non c'è più Kuzma Ionyc ... se n'è andato all'altro mondo ... è morto, cosi inutilmente ... Vedi, diciamo, tu hai un puledrino, e sei la madre di quel puledrino ... E d'un tratto, mettiamo, questo puledrino se ne va, muore ... non è una cosa che fa pena? La cavalla mastica, ascolta, e soffia sulle mani del suo padrone ... Ionas si lascia andare e le racconta tutto»[1].
Nel romanzo Padri e figli, di Ivan Turgenev un giovane medico (scettico, fiero, rivoluzionario, nichilista) muore per un'infezione contratta durante un'autopsia. Muore dicendo alla sua donna: «Addio! Vivete a lungo, è questa la più bella cosa, e approfittatene finché ne avete il tempo. Guardate che spettacolo raccapricciante: un verme mezzo schiacciato che si contorce ancora. Anch'io pensavo: «Farò molte cose, non morirò! ho un compito io, sono un gigante!». Ed ora tutto il compito del gigante si riduce a sapere morire con dignità, per quanto questo non possa interessare a nessuno ... Non importa, non voglio scodinzolare».
Ma la conclusione della vicenda è affidata ai suoi vecchi genitori (credenti) che non rinunciano mai a visitare la tomba del figlio: «Sorreggendosi l'un l'altro, camminano con andatura fattasi pesante, si appressano al recinto, vi si stringono e s'inginocchiano e a lungo e amaramente piangono, e a lungo e attentamente contemplano la muta pietra sotto la quale giace il loro figliuolo, scambiandosi una breve parola, spolverano la pietra, aggiustano un rametto di abete e pregano di nuovo, e non possono lasciare questo posto che li fa sentire più vicini al loro figlio ... È possibile che siano vane le loro preghiere, le loro lacrime? Possibile che l'amore, il santo amore non sia onnipotente? Oh no! Per quanto appassionato, ribelle e peccatore sia il cuore celato nella tomba, i fiori che la coprono guardano sereni, coi loro occhi innocenti, e non ci parlano soltanto del riposo eterno, ci parlano anche dell'eterna riconciliazione e di una vita infinita ... [2]».
Ed ecco infine un testo struggente di Paul Claudel: una preghiera, rivolta a Dio Padre da un papà cristiano che ha il figlio ammalato e che trema al pensiero: «se accadesse quella cosa che non voglio neanche dire».
«Signore, non è soltanto di noi che si tratta. / Si tratta proprio di Te. / Noi che siamo papà di bambini piccoli, quando Tu dici che sei il Padre supremo. / Come vuoi che l'intendiamo, se non nella maniera più umile e più letterale, / e dato che tu sei veramente Padre nostro, come possiamo pensare che tu possa volere alcunché di male? / A noi che siamo padri di bambini piccoli, quando uno di loro si ammala, / il pane sembra come avvelenato, e il vino è aspro. / E se accadesse quella cosa che non voglio neanche dire, / è a noi che l'anima e il corpo si separano, e che sappiamo che cosa sia morire. / Eppure è vero che noi siamo padri e madri solo casualmente. / Sei Tu, - perché essi siano a tua somiglianza, per sempre, per un atto speciale della tua volontà, / chiamando dolcemente il loro nome, dal profondo della Tua Eternità - che li hai tratti dal Nulla. / Sei Tu che sei loro Padre non una volta soltanto, ma che non cessi mai di esserlo nemmeno un istante. / E la prova che è vero e che Tu sai, Tu pure, quello che un padre sa / e che Tu sei capace di morire, Tu pure, e che la cosa Ti riguarda, / sono quelle mani inchiodate proprio quando vorremmo servircene, e il fiele che bisogna bere goccia a goccia / quando noi Ti cerchiamo, non abbiamo che da guardare alla Croce per averTi! / Se Tu non fossi altro che Dio, non avremmo modo di spiegarci con Te, / ma Tu sei passato da qui, anche Tu, e hai provato ciò che noi sopportiamo; / certo, dal punto di vista dell'eternità, sono poca cosa i nostri mali presenti, / ma Tu vedi che, tali quali sono, ci paiono sufficienti! / «Mio fratello non sarebbe morto!» / - ha detto una che Tu hai lodato - / «Signore, se Tu fossi stato qui!» / Abbi pietà di questi occhi ormai quasi spenti che Ti cercano e non Ti vedono! / Questi figli che Tu ti sei fatto, Signore, forse non ti riguardano? / E se è vero che quando soffrono chi li ama non è diverso da loro, / abbi pietà di noi Signore, a motivo di Te stesso!»[3].
La nostra morte, dunque, acquista tutto il suo significato nella mente e nel cuore delle persone che ci amano. Ciò non significa affatto che essa perda il suo sapore di inaccettabile contraddizione. Al contrario, è proprio nel cuore e nella mente di chi ci ama, che le domande diventano un grido che nessuno riuscirebbe a placare, se l'amore non rivelasse proprio allora i suoi segreti. Cerchiamo di capire allora come questo accada.
Sono due le esperienze fondamentali dell'esistenza umana: l'amore e il dolore. Pur essendo così diverse, esse sono simili perché ambedue costringono l'uomo a porsi la domanda radicale: «Io chi sono?». La risposta non può essere quella di Narciso che si auto-contempla e s'invaghisce di se stesso e neppure quella di chi si dispera nell'auto-commiserazione.
Alla domanda che io rivolgo a me stesso può rispondere davvero soltanto chi mi dice con verità: «Tu sei la persona che io amo». All'inizio questa risposta - che giunge immeritata come una grazia, nella sorpresa di un incontro - è consolante e beatificante: colui che si sente amato intuisce subito che essa contiene innumerevoli promesse, ma ne lascia volentieri l'adempimento allo scorrere del tempo. Quando però giunge il tempo della sofferenza estrema, quella stessa domanda («Io chi sono?») ritorna ed esige d'avere una risposta ultima e decisiva.
Diventano allora necessarie due esperienze indisgiungibili. Anzitutto occorre avere accanto qualcuno che continui a dirti misericordiosamente: «Tu sei la persona che io amo!»[4] 4. E insieme occorre che venga finalmente esplicitata la promessa contenuta in questa formula. Eccola: «Colui che ama dice: "Tu non morirai mai"»[5].
Ed ecco il misterioso paradosso: proprio quando l'adempimento di questa promessa non può più essere rimandato, proprio allora scopriamo che la promessa non può essere umanamente mantenuta. Non che la promessa sia falsa o insincera. Essa è addirittura necessaria, e noi intuiamo che essa inerisce intrinsecamente alla natura dell'amore.
Solo che noi non sappiamo né possiamo mantenerla, per quanto grande e sincero sia il nostro amore. Ma è proprio questo lo stimolo più forte che Dio ci ha lasciato per invocarlo! Quando si tratta di promesse d'amore, chi può veramente rispondere se non Colui che è l'Amore e l'Amore Crocifisso? Se Gesù è l'Amore fatto carne, a Lui spetta anche l'adempimento delle promesse d'amore! È questa la prova più evidente del bisogno che abbiamo della Sua presenza e della Sua grazia. Perciò quando, nel fondo del cuore, sentiamo lo struggimento per promesse infinite che non sappiamo come garantire a causa della nostra precarietà, ma che ci sono comunque necessarie, significa che è giunto il momento più decisivo per accogliere, in maniera assolutamente unica e personale, quell'invito che Papa Giovanni Paolo II rivolse subito al mondo intero: «Non abbiate paura! Cristo sa che cosa c'è nel cuore dell'uomo. Solo Lui lo sa».
Quando il momento giungerà, sarà importante l'aver acquistato da tempo una buona familiarità con le scene descritte nei racconti evangelici della «Passione di Gesù». I Santi le rileggevano spesso scoprendovi anche - pieni di stupore - il racconto delle proprie sofferenze (già anticipatamente innestate in quelle di Cristo), e perfino il desiderio del proprio morire[6]. Già san Paolo poteva testimoniare ai primi cristiani: «Io porto in me le stimmate di Cristo» (Gal 6,17), ed era convinto che le pene della sua esistenza (soprattutto quelle legate alle innumerevoli fatiche missionarie e alle persecuzioni subite) fossero per lui una specialissima grazia: «Io non ho altro vanto chela Croce del Signore nostro Crocifisso per la quale il mondo è stato per me crocifisso e io sono stato crocifisso per il mondo» (Gal 6,14). Diceva di non avere altro obiettivo al mondo che quello di «conoscere Lui e la potenza della sua risurrezione, partecipando alle sue sofferenze e diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,7-11). E sentiva la responsabilità di «dare compimento a ciò che mancava, nella sua carne, alla passione di Cristo» (cfr. Col 1,24).
In tutti i racconti di Passione (quella di Cristo e quella dei suoi Santi, soprattutto dei suoi martiri) non troviamo spiegazioni ai nostri perché sulla sofferenza e sulla morte, ma la certezza che il Figlio di Dio è venuto a farci compagnia anche nel dolore; che non ci lascerà mai soli a patire, e si unirà totalmente a noi, proprio nell'ultimo istante del morire: «Poiché nessuno di noi vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso; perché, se viviamo, viviamo per il Signore; e se moriamo, moriamo per il per il Signore. Sia dunque che moriamo sia che viviamo, siamo del Signore» (Rom 14,7-8).
Com'è infinitamente consolante scoprire nel Vangelo che il nostro morire accadrà dentro un accordo d'amore già stipulato tra il Padre e il Figlio: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me ... Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di guanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno. Questa, infatti, è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Gv 6,35-40).
Ogni credente dovrebbe domandare la grazia di essere sepolto stringendo tra le mani questa pagina di Vangelo.
Note al testo
[1] A. Čechov, Racconti e Teatro, Firenze 1966, pp. 169-171.
[2] I. Turgenev, Padri e figli, Rizzoli, Milano 1953, p. 256.
[3] P. Claudel, Non si tratta soltanto noi… (13 marzo 1916), da Oeuvre poetique, Pléiade, p. 556 (trad. dell’autore, NdR).
[4] Non sempre la vita ci permetterà di avere accanto, alla fine, la persona che per prima ci ha detto «Ti amo», ma sempre essa invocherà la presenza di qualcuno che ripeta misericordiosamente quella stessa promessa: può essere un figlio, può essere una persona amica, o anche una persona buona. Raccontava Madre Teresa di Calcutta: «Raccogliemmo un uomo dalle fogne, mezzo mangiato dai vermi, e quando lo portammo nella Casa dei moribondi a Kalighat, egli mi disse solamente: "Ho vissuto come un animale per la strada, ma sto per morire come un angelo amato e curato". Quando finimmo di togliere i vermi dal suo corpo, mi disse con un grande sorriso: "Sorella sto tornando alla Casa di Dio", e spirò».
[5] L’espressione è di G. Marcel, che così la spiega: «Se c’è in me una certezza incrollabile, essa è quella che un mondo che viene abbandonato dall’amore deve sprofondare nella morte, ma che là dove l’amore perdura, dove trionfa su tutto ciò che lo vorrebbe avvilire, la morte è definitivamente vinta» (G. Marcel, Homo viator, Torino 1967, p. 171). Si può aggiungere anzi che l’intera avventura amorosa vissuta dall’umanità è una promessa di Dio: «La promessa incantevole che l’amore fa all’umanità, la fa da parte di un altro; ed è questo Altro il solo che la può mantenere. L’amore non è che un messaggero: è Dio il suo Signore» (E. Caffarel, Pensieri sull’amore e sulla grazia, Milano 1963, p. 48).
[6] Il «muero porque no muero», che fa da ritornello ad alcune poesie di Santa Teresa d’Avila e di San Giovanni della Croce.