Blaise Pascal, nel 350esimo anniversario della morte. Per conoscere i Pensieri: Io non so chi mi ha messo al mondo, né che cos'è il mondo e cosa sono io stesso: sono in un'ignoranza terribile di ogni cosa; non so che cosa è il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa parte di me che pensa ciò che dico. File audio da una relazione di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito una relazione su Blaise Pascal tenuta da Andrea Lonardo presso la chiesa di Sant'Andrea apostolo al Quirinale il 26/11/2012. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video.
Il Centro culturale Gli scritti (2/12/2012)
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1/ La vita di Blaise Pascal
Cenni sulla vita di B. Pascal (tratti da R. Latourelle, L’uomo e i suoi problemi alla luce di Cristo, Cittadella, Assisi, 1982, pp. 46-57)
Le lacune di Pascal in storia, filosofia, teologia, si spiegano per il tipo di formazione ricevuta. Suo padre era magistrato e matematico, ostile all'insegnamento della scolastica. Ha formato suo figlio alle scienze fisiche e matematiche, e con successo. A undici anni Pascal compone un Trattato dei suoni (1634-1635); a sedici anni stampa un Saggio sulle coniche (1640) e diventa così il beniamino dell'Accademia Mersenne; a diciannove anni, per aiutare suo padre nei fastidiosi calcoli sulle ripartizioni delle imposte, immagina una macchina calcolatrice e lavora due anni per realizzarla, pensando in seguito a un impiego su scala industriale. Seguono esperienze sul vuoto, sull'equilibrio dei liquidi, sulla pesantezza dell'aria; poi studi sulla roulette, sui calcoli delle probabilità.
Nel 1661 e nel 1662, anno della sua morte, mette a punto col duca di Roannez un sistema di trasporto in comune: le «carrosses à cinq sols», cioè i primi omnibus di Parigi.
Non ci stupisce se molto presto la salute di Pascal si sia alterata per l'eccesso dei suoi lavori. Infatti, dal 1647 la malattia entra nella sua vita per non uscirne più. D'ora in poi ogni lavoro «prolungato» gli sarà faticoso e, in alcuni momenti, impossibile. Su consiglio dei medici che gli raccomandano la distrazione, si stabilisce a Parigi nel 1647. In settembre vi incontra Descartes.
A Parigi Pascal farà due esperienze decisive: quella dei salotti e della vita mondana, rappresentata dall'ambiente dei Roannez; quella di Port-Royal, rappresentata dall'influenza di sua sorella Jacqueline, che si farà suora di quell'abbazia. Al suo arrivo a Parigi è prodigiosamente cosciente del suo valore e si sente capace di stupire il mondo.
La sua «prima conversione» così chiamata, e del resto poco profonda, fu occasionata dal movimento di fervore che, verso l'anno 1646, colse i membri della famiglia Pascal e al quale Blaise ha partecipato intensamente. Pascal scopre allora Saint-Cyran. Ma è nel 1648 che incomincia a conoscere più direttamente l'ambiente di Port-Royal, l'abbazia cistercense che si trova a sud-ovest di Versailles, decaduta, poi riformata a partire dal 1609 da Angelique Arnaud.
Nel 1635 la direzione di Port-Royal passa all'abate Saint-Cyran, mistico ardente, severo, ma poco equilibrato, responsabile, col suo amico olandese Giansenio, futuro vescovo d'Ypres e autore dell'Augustinus, del movimento religioso chiamato giansenismo. Alla compagnia di Port-Royal appartengono i «Solitari»: uomini che hanno rinunciato a una vita brillante, a volte mondana, per condurre un'esistenza interamente consacrata a Dio, nutrita di Scrittura e caratterizzata da una morale rigorista. Essi sono medici, giuristi, educatori e teologi.
Pascal è in relazione con questo ambiente dove conosce in particolare Singlin e Antoine de Rebours. La sorella di Pascal, Jacqueline, aveva deciso di entrare nel convento di Port-Royal: progetto che le fu possibile realizzare soltanto dopo la morte del padre, Etienne Pascal, deceduto nel settembre 1651. Anche Pascal, dopo essersi fortemente opposto al progetto della sorella, finì per consentire e fu presente alla professione di Jacqueline nel 1653.
Ma, mentre frequenta Port-Royal, Pascal frequenta anche la società brillante di Parigi. Gli anni 1652-1653 rappresentano il periodo chiamato «mondano» della vita di Pascal.
A Parigi, Pascal ritrova il duca di Roannez, amico d'infanzia, che ha ora venticinque anni, di alta nobiltà, di educazione raffinata, la cui casa è il ritrovo delle persone brillanti. Se Pascal deve a Port-Royal e alla sua famiglia, la sua formazione religiosa, deve al duca di Roannez la sua conoscenza del mondo e degli uomini.
Tramite il duca, ha conosciuto quell'al di là della scienza, cioè l'uomo, solo oggetto di studio che non sia estraneo all'uomo. Il duca di Roannez, da parte sua, è affascinato dall'intelligenza prestigiosa, «mostruosa» di Pascal, e dalla sua reputazione di scienziato: l'ammirazione è reciproca.
Grazie al duca, Pascal conosce Antoine Gombaud, Chevalier de Méré, figura abbastanza enigmatica, uomo di mondo e mondano, «professore di galateo», specialista nell'arte di piacere; conosce anche Damien Mitton, molto libero di costumi e di pensieri. In casa Roannez, Pascal si trova immerso in una società svariata dove si affiancano gentiluomini e uomini d'affari, devoti e libertini.
È in questo ambiente che il fenomeno dell'«indifferenza» ha destato l'attenzione di Pascal (che combatterà nei Pensieri). Fenomeno tipico di una certa società che ha messo Dio tra parentesi e che non sembra soffrirne. Pascal deve a questa società il suo interesse per l'analisi interiore dell'uomo, per Montaigne, per l'arte di scrivere e di conversare. Pascal ha imparato in questo ambiente a scoprire in se stesso ciò che Montaigne descriveva nei Saggi.
A Parigi Pascal frequenta anche i salotti della duchessa di Longueville, della marchesa di Sablé, della duchessa d'Aiguillon. Va a corte. È affascinato dalla conversazione galante, dal gioco, dalla caccia, dalla danza. Della sua vita sentimentale non sappiamo niente di certo. Le ricerche di Jean Mesnard hanno fatto cadere la leggenda dell'amore di Pascal e di M.lle de Roannez, sorella del duca. Quello che si chiama comunemente il «periodo mondano» di Pascal, non ha niente a che vedere con una vita libertina; si tratta semplicemente di un periodo in cui frequenta ambienti mondani di Parigi e di un affievolimento del suo fervore religioso, ma non di un abbandono della fede.
Sul piano scientifico questo periodo, lungi dall'essere sterile, è uno dei più fecondi. Dopo essersi dedicato alla fisica, Pascal si dedica con slancio alla matematica. Nel 1654, scopre il principio del calcolo delle probabilità. Poi verso la metà di settembre del 1654, ignoriamo in seguito a quale evoluzione, Pascal dà segni di smarrimento interiore. Malgrado il suo attaccamento al mondo e i suoi desideri di grandezza, sente disgusto per il mondo e per se stesso. Pensa di lasciare tutto.
Pascal confida il suo stato d'animo alla sorella Jacqueline. Da una parte tutto contribuisce a fargli amare il mondo, dove è brillante; ma d'altra parte sente ripugnanza per le frivolità di quel mondo. La sua coscienza lo rimprovera continuamente: sa che dovrebbe staccarsi da ogni cosa, ma gli manca la volontà. «I suoi attaccamenti dovevano essere ben mostruosi per farlo resistere alle grazie che Dio gli faceva e agli stimoli che gli dava». Prova rimorso di essersi fermato per strada, mentre Dio lo chiamava.
Quasi ogni giorno Pascal ha dei colloqui con la sorella. È diviso tra lo scoraggiamento e l'orgoglio. Come può lui, lo scienziato, il fisico, l'amico del duca di Roannez, frequentatore dei salotti più distinti, come può consentire a mostrarsi così com'è, cioè peccatore, cambiare vita, perdersi tra la folla della bassa gente: durus sermo! Pascal incontra Singlin di Port-Royal che gli raccomanda di pregare molto.
Poi, attraverso vie a noi sconosciute, ecco che la crisi interiore si scioglie nella notte del 23 novembre 1654. Pascal riceve allora una grazia di conversione, vera, questa volta. A partire da quell'istante è un'apertura verso l'alto, una nuova partenza senza ritorno. Per capire il Pascal dei Pensieri, del mistero di Gesù, dei tre ordini, occorre prendere l'avvio da questa esperienza decisiva. La vera «fonte» di Pascal, l'unica fonte della sua ispirazione, è l'incontro con Cristo, nella Scrittura e nella sua vita personale, in occasione dell'esperienza spirituale sconvolgente annotata nel Memoriale. Eccone il testo:
L'anno di grazia 1654
Lunedì 23 novembre, giorno di S. Clemente, papa e martire. e di altri del martirologio.
Vigilia di S. Crisogono martire e di altri.
Dalle ore dieci e mezzo circa di sera fino a mezzanotte e trenta circa.
FUOCO
«Dio d'Abramo, Dio d'Isacco, Dio di Giacobbe»
non dei filosofi e dei dotti.
Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace.
Dio di Gesù Cristo
Deum meum et Deum vestrum.
«Il tuo Dio sarà il mio Dio».
Oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio.
Egli non si trova che per le vie insegnate dal Vangelo.
Grandezza dell'anima umana.
«Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto».
Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia.
Io me n'ero separato.
Dereliquerunt me fontem aquae vivae
«Mio Dio, mi abbandonerai?».
Che io non ne sia separato in eterno.
«La vita eterna è questa: che conoscano te, solo vero Dio, e
colui che hai mandato, Gesù Cristo»,
Gesù Cristo!
Gesù Cristo!
Io me n'ero separato. Io l'ho fuggito, rinnegato, crocifisso.
Che non ne sia mai più separato.
Egli non si conserva che per le vie insegnate dal Vangelo.
Rinuncia totale e dolce.
Sottomissione totale a Gesù Cristo e al mio direttore.
Eternamente in gioia per un giorno di esercizio sulla terra.
Non obliviscar sermones tuos. Amen.
Il Memoriale, come pure il Mistero di Gesù, non si trova nelle prime edizioni delle opere di Pascal. Questi due testi infatti avevano un carattere così strettamente intimo e personale che non erano destinati alla stampa. Cronologicamente sono molto vicini l'uno all'altro, il Mistero essendo stato redatto probabilmente durante il primo ritiro di Pascal a Port-Royal, cioè solo qualche settimana dopo l'esperienza annotata nel Memoriale.
Il testo del Mistero, pubblicato prima nel 1844, è stato poi inserito nell'edizione dei Pensieri. Il Memoriale invece è sempre stato considerato un testo a parte. È stato pubblicato per la prima volta nel 1740.
È una semplice nota, ma di un valore unico, perché è la testimonianza di un avvenimento che ha radicalmente cambiato la vita di Pascal. L'avvenimento è datato con precisione: lunedì 23 novembre 1654, tra le dieci e mezzo e mezzanotte e mezzo. Non è un testo redatto a freddo, ma piuttosto una lava bruciante. Le parole sono contemporanee di un verbo interiore, molto più denso e ardente delle parole che si sforzano di tradurlo. Queste parole, in verità, sono soltanto punti di riferimento che scandiscono una meditazione. La forte emozione provata da Pascal è tale che, per salvarla dall'oblio, l'annota subito sulla carta.
Il testo originale, insieme a una copia su pergamena fatta dallo stesso Pascal, è stata trovata dopo la sua morte, da un domestico. Era stata «cucita» da Pascal all'interno della sua giacca: senza dubbio per ravvivare continuamente la sua fede in Cristo e la fedeltà ai suoi propositi. Il testo era sconosciuto a tutti, anche a sua sorella Jacqueline: era un segreto assoluto tra Dio e lui.
Le numerose citazioni bibliche indicano una meditazione della Scrittura, accompagnata da riflessioni, sorte spontaneamente, e seguite da un colloquio. Illuminano anche il contesto e il percorso dell'esperienza vissuta da Pascal. Il primo testo, tolto da Esodo 3,6, evoca la scena del roveto ardente. Dio, per primo, interpella Mosé: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe».
Il FUOCO, sola parola del testo scritta in maiuscolo, è Dio stesso e il segno della sua presenza: fuoco del Sinai, fuoco della nube nel deserto, fuoco di Pentecoste. Per antitesi, Pascal intuisce che questo Dio vivente che fa irruzione nella storia umana e nella storia di ciascuno, che ha un nome e che interpella, non è il Dio dei filosofi (causa prima, principio di ogni ordine, l'incondizionato e l'assoluto), ma il Dio di Gesù Cristo, il Dio al quale pensa Gesù quando dice: «Padre mio e Padre vostro».
Il Memoriale prosegue immediatamente con la seconda citazione biblica: Deum meum et Deum vestrum (Gv 20, 17). Il testo è un'allusione all'apparizione di Gesù a Maria Maddalena. Cristo risorto, il vivente per sempre ci unisce a lui nel rapporto filiale che unisce Gesù al Padre: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». «Il tuo Dio sarà il mio Dio» è certamente un'allusione a Rut 1, 16. Rut, la moabita, che entra nel popolo di Dio non avrà più altro Dio che Jahvè. Essa dice a Noemi: «Il tuo Dio sarà il mio Dio».
Anche Pascal lascia una terra che è stata finora la sua, il mondo, per entrare in un'altra. Gesù dice: «Dio mio e Dio vostro». Pascal risponde: «Il tuo Dio, Signore, sarà il mio Dio». I testi si intrecciano, riecheggiano, secondo una logica del cuore, al di là di ogni cronologia. Pronunciare queste parole dal fondo del cuore, è accettare «l'oblio del mondo e di tutto, fuorché di Dio».
San Giovanni offre a Pascal la formula di questa opposizione: «Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto» (Gv 17, 25). Gesù prega per gli apostoli che manda in un mondo in rottura col messaggio del Vangelo: «Non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17, 14). Le parole raccolte da Pascal sono quelle che appaiono alla fine della preghiera sacerdotale. Il testo di Giovanni continua: «Questi sanno che tu mi hai mandato» (Gv 17, 25). Pascal non cita il seguito: «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome... perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17, 26). Ma «i pianti di gioia» significano che Pascal rivive nella propria vita questo mistero di adozione in Gesù.
Ma la stessa gioia desta in Pascal il timore di una nuova «separazione», di una nuova infedeltà, che potrebbe condurre alla rottura definitiva. «Dereliquerunt me fontem aquae vivae»; «Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva» (Ger 2, 13). Il Dio vivente Pascal l'aveva conosciuto, ma l'aveva abbandonato. Come Israele che si è allontanato da Jahvè, Pascal si è separato da Dio: «Me ne ero separato ... Dio mio, mi abbandonerai?». Allusione al salmo 118 «Voglio osservare i tuoi decreti, non abbandonarmi mai» (Sal 118, 8).
Pascal si pente di aver abbandonato Dio, teme che Dio a sua volta lo abbandoni. Per due volte ripete: «Che non ne sia separato eternamente ... Che non ne sia mai separato». È la supplica ardente e tenace di Pascal davanti a Cristo ritrovato. «Eternamente», cioè per la «morte eterna».
La parola serve d'aggancio per introdurre il tema opposto della vita eterna: «La vita eterna è che conoscano (di quella conoscenza che è presenza, esperienza, amore), te, l'unico vero Dio e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3). Di nuovo, allusione alla preghiera sacerdotale.
Gesù Cristo, Gesù Cristo, ripetuto, serve da transizione tra la conversione, l'incontro di Cristo e i propositi. Il finale riprende, con leggere varianti, le linee precedenti. Si tratta ormai di «conservare», di non dimenticare. Di nuovo, il salmo 118: «Mai dimenticherò la tua parola» (Sal 118, 16).
Pascal, abbiamo detto, è stato nutrito, formato dalla meditazione della Sacra Scrittura. Non c'è da stupirsi quindi che trovi spontaneamente nella Sacra Scrittura i testi che sono lo specchio della sua esperienza. Non cerca i testi: sono i testi che accorrono, che traducono il suo stato d'animo, come nel Magnificat di Maria.
Qual è il senso del Memoriale? Di quale esperienza è testimonianza? L'esperienza decisiva di quella notte è stata quella dell'incontro vivo, personale, col Dio vivente: il Dio dei due Testamenti, il Dio di Gesù Cristo. Dio, è QUALCUNO che viene, che interviene, che ha un nome, un volto, che è conosciuto perché ci precede e ci interpella. Pascal sente un bruciante rimpianto per essersi separato da lui nel passato; prega, supplica per non esserne più separato nell'avvenire, né nell'eternità, e si impegna a «seguire le vie indicate nel Vangelo».
Alcune espressioni, alcuni vocaboli del Memoriale (Dio dei filosofi e dei dotti, grandezza dell'anima umana, certezza, opposta al dubbio) hanno potuto far credere che il Memoriale si presentava in Pascal come il termine di una crisi intellettuale, cioè il passaggio dalla conoscenza del Dio dei filosofi alla conoscenza del Dio della rivelazione cristiana. Tutt'altro è il senso del Memoriale. La crisi di Pascal non è quella di un filosofo deluso, ma di un cristiano tiepido, che ha ritrovato Dio in Gesù-Cristo, e che teme di esserne separato.
Il vocabolario e le allusioni filosofiche del Memoriale si devono capire alla luce delle idee espresse nel Colloquio tra Pascal e de Sacy su Epitteto e Montaigne, e formulate in uno scrittore anteriore al Colloquio, anteriore anche all'esperienza del 23 novembre. Pascal nel Colloquio, oppone Epitteto a Montaigne, per respingerli entrambi, e far posto al Vangelo: Dio solo può insegnare.
Stessa scelta esclusiva nel Memoriale. «Il Memoriale, osserva A. Blanchet, redige una meditazione che si regge unicamente su Gesù-Cristo e la sua parola, ma che si riaccende opponendo a Gesù-Cristo i filosofi e gli scienziati, e alla Sacra Scrittura, gli scritti profani».
Non v'è dubbio che il dramma di Pascal si situa all'interno della sua fede. A dir vero, Pascal non ha imparato (come un sapere nuovo) ciò che ignorava: è stato invece illuminato su ciò che sapeva già, da una luce che infiamma la volontà. Egli ha sperimentato, nell'intimo del suo essere, là dove l'intelletto diventa fiamma, dove la volontà diventa intuizione come l'amore, che il Dio che istruisce e che salva, il Dio che cerca l'anima umana, il Dio che cercava lui, Pascal, più di quanto Pascal cercasse Dio (Agostino) è QUALCUNO: il Dio di Abramo, il Dio di Gesù-Cristo, GESÙ-CRISTO stesso.
Di ciò ha ora la certezza; una certezza che viene dal cuore, in senso pascaliano, cioè dall'essere intimo infiammato dall'amore. Pascal è conquistato: il tutto della sua vita è Gesù-Cristo. L'attrattiva di Dio è collaudata in lui, vissuta come una certezza che è fonte di gioia, di pace. La novità non riguarda quindi un contenuto nozionistico, ma un nuovo modo di conoscere: fino a quel momento Pascal non aveva conosciuto Dio «in questo modo». La novità non sta nel conoscere Dio, ma nell'essere stato preceduto e conquistato da lui, nell'avere riconosciuto la sua presenza luminosa, nella comunione di un incontro che rende Dio vivente e vivificante nella vita di Pascal, tale da infondergli un cuore nuovo e un'attrattiva tanto efficace da tradursi con la rinuncia a tutto.
Si deve parlare di esperienza «mistica»? Forse non è possibile e nemmeno necessario rispondere. Certamente si tratta per Pascal di una esperienza religiosa profonda, situata alla radice dell'essere, di un tale impatto che ha illuminato e trasformato tutto il resto della sua esistenza. Esperienza caratterizzata dall'intensità e dalla subitaneità, senza paragone con quanto precede, e simbolizzata dal fuoco. Padronissimo chi vuole di qualificare mistica o no questa esperienza di cui ci rimangono tracce, più che una descrizione.
Checché ne sia, la data di questo avvenimento-incontro con Cristo è rimasta impressa in Pascal che ne ha perpetuato il ricordo in una pergamena cucita nei suoi vestiti. La notte del 23 novembre 1654 segna la grande svolta della sua vita. La sua esistenza è divisa in due: prima e dopo il Memoriale.
È questa esperienza che illumina il testo composto poco dopo, nel gennaio 1655, il Mistero di Gesù; è ancora essa che spiega il cristocentrismo dei Pensieri; è essa infine, crediamo, che ha permesso a Pascal di definire ciò che chiama i «tre ordini»: dei corpi, dell'intelligenza, della carità[1]. Questo frammento, infatti, non è stato scritto semplicemente per esprimere delle verità generali sulla gerarchia degli esseri, ma per precisare delle esperienze che Pascal ha vissuto personalmente.
È evidente che questo frammento è «cristocentrico». Pone la persona di Cristo al culmine delle grandezze soprannaturali. Lo splendore dei re e dei dotti era inutile a Gesù, e l'umiltà della sua condizione terrena nulla toglie alla sua grandezza unica. Scritto col rigore di un matematico, questo testo è di un'emozione lirica intensa, anche se contenuta, che ha la sua sorgente nella vita di Pascal.
Sappiamo che l'esistenza dell'uomo si realizza, «si compie» attraverso piani, tramite livelli da superare: c'è passaggio, ma anche superamento, salto qualitativo da un livello all'altro, superiore, più luminoso. In queste fasi o piani della vita si possono distinguere per Pascal, quello della fisica e della matematica; poi a Parigi, a contatto coi Roannez, de Méré e de Mitton, nei salotti che frequenta e attraverso la lettura di Montaigne, Pascal si sensibilizza ai problemi dell'uomo, realtà che si penetra solo con l'«esprit de finesse». Pascal tuttavia non visse a lungo come uomo di mondo. Scopri ben presto l'ordine superiore della carità. La morte del padre, la vocazione della sorella Jacqueline, e soprattutto l'insoddisfazione profonda della sua vita mondana, il vuoto sentito nella sua anima, hanno minato la sua superbia di scienziato e la sua sicurezza di uomo onesto, conducendolo, attraverso il mistero di una crisi interiore, alla notte del 23 novembre, nel corso della quale Cristo gli è apparso come la realtà delle realtà.
Ci sono quindi nella vita di Pascal tre esperienze che, senza dubbio, non rispondono che parzialmente ai tre ordini di cui parla (le scienze della natura e la scienza dell'uomo situandosi di primo acchito nell'ordine dell'intelletto), ma egli ha conosciuto nondimeno l'ordine delle grandezze mondane (cioè lo splendore della vita dei principi, lo splendore delle ricchezze, lo splendore delle armi e delle battaglie), e soprattutto ha vissuto l'ordine dell'intelletto (come scienziato e uomo di mondo) e l'ordine della carità. Tra questi tre ordini la distanza è infinita. Ognuno ha la sua grandezza e il suo valore, ma l'ordine della carità supera infinitamente gli altri due. È la notte del 23 novembre che, su questo punto, ha messo Pascal di fronte all'evidenza.
Ormai, per Pascal, tutto il resto del mondo, tutto l'uomo, sono destinati a entrare in una nuova sintesi, infinitamente superiore, suscitata dall'irruzione della persona di Gesù Cristo nella storia dell'umanità e nella storia della propria vita: «Gesù Cristo, senza beni e senza alcuna esteriore manifestazione di scienza, sta nel suo ordine di santità. Non ha fatto scoperte [ordine dell'intelligenza], non ha regnato [alla maniera dei principi temporali: ordine dei corpi]; ma è stato umile, paziente, santo per Dio, terribile per i demoni, senza peccato alcuno. Oh, com'è venuto in gran pompa e magnificenza prodigiosa agli occhi del cuore che vedono la sapienza!» (B793 C 829).
Il Memoriale di Pascal trova un'ultima eco e la firma definitiva nella sua morte. Gli ultimi sei mesi della sua vita furono mesi di sofferenze atroci. Pascal si raccoglie allora nella preghiera e nella penitenza. Vende i suoi beni, dà il suo denaro ai poveri, manda via i domestici e va a pensione presso sua sorella. È la «sottomissione totale a Gesù Cristo» di cui parla il Memoriale.
Alla fine chiede di ricevere l'eucaristia: cosa che gli viene rifiutata, in un primo tempo. Chiede che almeno venga condotto nella sua casa un povero, come rappresentante di Cristo: questo desiderio non fu possibile realizzarlo. Chiede di essere trasportato all'ospedale degli incurabili per morire in mezzo ai poveri: i medici si oppongono per ragioni di salute. Finalmente all'ultimo giorno della sua vita gli viene portato il Viatico, che riceve tra due crisi. Ventiquattr'ore dopo si spegne, a trentanove anni, il 19 agosto 1662.
2/ Il contesto storico-religioso
2.1/ Giansenismo e quietismo
Giansenismo, da Giansenio, poi l’abate di Saint Cyran Du Vergier e soprattutto Antoine Arnauld (1612-1694)
aspetto dogmatico:
-dopo il peccato originale non vi è più libertà
-il crocifisso non è morto per tutti (iconografia non a braccia aperte)
-ecclesiologia ristretta
aspetto morale:
-rifiuto del probabilismo
-visione negativa delle opere buone dei cattivi
-dilazione dell’assoluzione
-lontananza dall’eucarestia
-ignoranza che non scusa
-penitenze straordinarie
aspetto disciplinare
-ostilità verso la gerarchia che si sposava con una alleanza con lo stato (rapporti con il gallicanesimo)
la condanna:
-1653 (su pressioni di vescovi e di San Vincenzo de’ Paoli), Innocenzo X condanna come eretiche 5 tesi
-1669 Clemente IX offre la Pax Clementina
-1707 interdetto
-successivamente raso al suolo Port-Royal des Champs
vi si oppongono i gesuiti, la devozione al Sacro Cuore e Sant’Alfonso de’ Liguori (1696-1787)
Quietismo, Michele Molinos, dalla Spagna, condannato dal beato Innocenzo XI (1676-1689) nel 1687
non resistere alle tentazioni, perché esse sono uno stato voluto da Dio
sopprimere desideri anche buoni e santi
l’orazione perfetta è quella in cui non si compie alcun atto
amore del tutto disinteressato che esclude ogni timore, ogni speranza, ogni interesse
3/ Struttura dei Pensieri: la progettata Apologia del cristianesimo
dai Pensieri
Prima parte: miseria dell’uomo senza Dio.
Seconda parte: felicità dell’uomo con Dio.
O diversamente: che la natura è corrotta. Dimostrazione fondata sulla natura stessa.
Seconda parte: che c’è un riparatore: Dimostrazione fondata sulla Scrittura (60).
Se si esalta, l'abbasso; se s'abbassa, lo esalto; lo contraddico sempre fino a che comprende che è un mostro incomprensibile (420).
4/ I Parte della progettata Apologia del cristianesimo: l’uomo è un paradosso incomprensibile
4.1/ Non la metafisica, ma l’uomo e la storia della salvezza, con una pluralità di approcci all’uomo: non un ragionamento astratto, ma una fenomenologia dell’uomo
179 Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal modo di ragionare degli uomini e così complesse, che colpiscono poco; e anche se ciò servisse a qualcuno, non servirebbe che nel solo istante in cui si vede la dimostrazione, ma dopo un'ora verrebbe il dubbio di essersi sbagliati.
«Quod curiositate cognoverunt, superbia amiserunt». Questo è il risultato della conoscenza di Dio che non proviene da Gesù Cristo: comunicare senza mediatore con quel Dio che senza mediatore si è conosciuto. Mentre quelli che hanno conosciuto Dio per mezzo del mediatore conoscono la propria miseria.
4.2/ L’uomo nel mistero del tempo e dello spazio
64 Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita dall'eternità che la precede e da quella che la segue («memoria hospitis unius diei praetereuntis»), il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato nell'infinita immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c'è motivo che sia qui piuttosto che là, ora piuttosto che un tempo. Chi mi ci ha messo? Per ordine e volontà di chi questo luogo e questo tempo sono stati destinati a me?
185 Sproporzione dell'uomo.
Ecco dove ci conducono le conoscenze naturali. Se non sono vere, nell'uomo con c'è verità, ma se lo sono, questo è un motivo di grande umiliazione per lui, costretto in un modo o nell'altro ad abbassarsi.
Ma poiché non può vivere senza credervi, mi auguro che, prima di inoltrarsi nelle più profonde ricerche della natura, egli la consideri almeno una volta con calma e serietà e pensi anche a se stesso, riconoscendone le proporzioni.
Che l'uomo contempli dunque l'intera natura nella sua alta e piena maestà, distolga il suo sguardo dai bassi oggetti che lo circondano.
Osservi quella luce splendente messa come una lampada eterna per illuminare l'universo, finché la terra gli appaia come un punto a confronto con il vasto giro descritto dall'astro, e si stupisca di come quello stesso vasto giro non è che un filo fragilissimo rispetto a quello percorso dagli astri che ruotano nel firmamento. Ma se la nostra vista si ferma lì, che l'immaginazione vada oltre, sarà lei a smettere di pensare prima che la natura smetta di fornirle materia. L'intero mondo visibile non è che un impercettibile segno nell'ampio seno della natura. Nessuna idea vi si avvicina. Abbiamo un bel dilatare i nostri pensieri al di là degli spazi immaginabili, a confronto della realtà partoriremo dei semplici atomi. È una sfera infinita il cui centro è dovunque e la circonferenza in nessun luogo. Che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero è in fondo la più grande testimonianza sensibile dell'onnipotenza divina.
Dopo aver fatto ritorno a sé, l'uomo consideri ciò che è rispetto a ciò che esiste, si veda smarrito in un angolo dimenticato della natura, e da questa piccola cella dove si trova, cioè l'universo, impari a dare il giusto valore alla terra, ai regni, alle città e a se stesso.
Cos'è un uomo nell'infinito?
Ma per fornirgli un altro prodigio di uguale eccezionalità, esamini le cose più impercettibili, come un acaro, che pur nella piccolezza del suo corpo rivela parti incomparabilmente più piccole: zampe con giunture, e vene nelle zampe, e sangue nelle vene, e umori nel sangue, e gocce in questi umori, e vapori nelle gocce. Ma divida ancora queste ultime cose, spinga al limite la sua capacità di pensare, e l'ultimo oggetto a cui può arrivare sia per ora quello che interessa il nostro discorso. Forse penserà che questa è la cosa più piccola della natura.
Ma anche là dentro voglio che scorga un nuovo abisso. Non voglio raffigurargli solo l'universo visibile, ma l'immensità della natura racchiusa in questo minuscolo atomo. Guardi che infinità di universi, ciascuno col suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile. E animali su questa terra, e acari nei quali ritroverà tutto ciò che ha trovato negli altri, e altri ancora nei quali ritroverà le medesime cose, incessantemente e senza tregua. Si perda in queste meraviglie stupefacenti per la loro piccolezza come le altre per la loro grandezza.
Chi non proverà ammirazione per il fatto che il nostro corpo, poco fa impercettibile in un universo a sua volta impercettibile in seno al tutto, sia diventato ora un colosso, un mondo o meglio un tutto davanti all'inarrivabile nulla? Chi rifletterà in questo modo si spaventerà di se stesso, e considerandosi sospeso alla massa che la natura gli ha dato tra i due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà alla vista di queste meraviglie e penso che, mutando la curiosità in ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a farne oggetto di una ricerca presuntuosa.
Ma alla fine, cos'è un uomo nella natura? Un nulla davanti all'infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli estremi. Il fine e il principio delle cose gli sono inesorabilmente nascosti da un segreto impenetrabile.
Incapace al tempo stesso di vedere il nulla da dove è tratto e l'infinito che lo sommerge, cosa potrà fare se non cogliere qualche aspetto di ciò che sta a metà, disperando eternamente di conoscerne il principio e la fine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e portate nell'infinito. Chi saprà seguire questi incredibili passaggi? Solo il loro autore li comprende. Nessun altro lo può fare.
Per non aver contemplato questi infiniti, gli uomini si sono messi alla temeraria ricerca della natura, come se tra loro e la natura ci fosse qualche proporzione.
È curioso che abbiano voluto comprendere i princìpi delle cose per poi spingersi a conoscere tutto, con una presunzione infinita quanto il suo oggetto. Poiché certamente un simile progetto è possibile solo a patto di una presunzione o di una capacità infinita, come quella della natura.
Quando si è studiato si capisce che, avendo la natura impresso la propria immagine e quella del suo autore in tutte le cose, quasi tutte partecipano della sua doppia infinità.
4.3/ La piccolezza dell’uomo e la grandezza del suo pensare
104 Canna pensante.
Non è nello spazio che devo cercare la mia dignità, ma nell'ordine dei miei pensieri. Non avrei alcuna superiorità possedendo terre. Nello spazio, l'universo mi comprende e m'inghiotte come un punto; nel pensiero, io lo comprendo.
4.4/ Il caso, la sorte
182 La prevenzione che induce all'errore.
È una cosa deplorevole vedere che gli uomini si occupano solo dei mezzi e non del fine. Ognuno pensa a come assolvere i doveri della propria condizione, ma la scelta della condizione e della patria tocca alla sorte.
È penoso vedere quanti turchi, eretici, infedeli, seguono le abitudini dei padri per il solo motivo che ciascuno pensa siano le migliori, così come ciascuno si adegua alla condizione di fabbro, soldato, ecc.
Per lo stesso motivo i selvaggi non sanno che farsene della Provenza.
183 Nulla rivela la vanità degli uomini meglio della riflessione sulle cause e sugli effetti di quell'amore, poiché il mondo intero ne risultò cambiato. Il naso di Cleopatra.
4.5/ Lo scivolare via
132 [...] Infine, le cose estreme sono per noi come se non fossero affatto, e noi non siamo nulla nei loro confronti. O noi sfuggiamo a loro o loro a noi.
Ecco la nostra vera condizione. È questo che ci rende incapaci di un sapere certo e di un'assoluta ignoranza. Navighiamo nella vastità, sempre incerti e fluttuanti, spinti da un estremo all'altro. Qualunque appiglio a cui pensiamo di attaccarci per essere sicuri, viene meno e ci abbandona, e se lo seguiamo si sottrae alla nostra presa, scivola e fugge in una fuga eterna. Niente per noi è solido. È la nostra condizione naturale eppure la più contraria alle nostre inclinazioni. Ci brucia un desiderio di trovare un fondamento sicuro, e come una base ferma per costruirvi una torre che si alzi verso l'infinito, ma ogni fondamento si spezza e la terra si apre fino agli abissi.
4.6/ Corpo e spirito
133 [...] Quasi tutti i filosofi confondono le idee di queste cose e parlano in modo spirituale delle cose corporali e in modo corporale delle cose spirituali, affermando audacemente che i corpi tendono verso il basso, che aspirano al loro centro, che fuggono la loro distruzione, che temono il vuoto, che hanno inclinazioni, simpatie, antipatie, tutte cose che appartengono solo allo spirito. Viceversa, parlando degli spiriti essi li considerano come se fossero in un luogo, attribuiscono loro il movimento da uno spazio a un altro, tutte cose che appartengono solo ai corpi.
Invece di formulare le idee pure di queste cose, noi le coloriamo con le nostre qualità, proiettando la nostra natura composta su ogni cosa semplice.
Chi dubiterebbe, vedendoci attribuire a ogni cosa spirito e corpo, che questa mescolanza ci sia comprensibile? E tuttavia è la cosa meno comprensibile: l'uomo è per se stesso il più prodigioso fenomeno della natura, dal momento che non riesce a comprendere cosa sia corpo e ancora meno cosa sia spirito, e meno di tutto come un corpo possa essere unito a uno spirito. Proprio questo è il culmine delle sue difficoltà, e proprio questo è il suo essere: «modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab homine non potest, et hoc tamen homo est».
Ecco una parte dei motivi che rendono l'uomo così inadatto a conoscere la natura. Essa gode di una doppia infinità, egli è finito e limitato; essa dura e si conserva perpetuamente nel suo essere, egli passa ed è mortale. Le cose in particolare si corrompono e mutano ad ogni istante. Egli le vede solo di sfuggita. Esse hanno un principio e una fine. Egli non comprende né l'uno né l'altra. Esse sono semplici, egli è composto di due nature diverse. [...]
186 L'uomo non è che un fuscello, il più debole della natura, ma è un fuscello che pensa. Non è necessario che l'universo intero si armi per spezzarlo, bastano un po' di vapore, una goccia d'acqua, per ucciderlo.
Ma anche quando l'universo lo spezzasse, l'uomo rimarrebbe ancora più nobile di ciò che lo uccide, poiché sa di morire, mentre del vantaggio che l'universo ha su di lui, l'universo stesso non sa niente.
Ogni nostra dignità consiste dunque nel pensare. Su ciò dobbiamo far leva, non sullo spazio e sulla durata, che non sapremmo colmare.
Sforziamoci dunque di pensare correttamente: ecco il principio della morale.
4.7/ L’immaginazione
225 [...] La nostra immaginazione ingrandisce a tal punto il presente, sminuendo l'eternità col non pensarci, che facciamo dell'eternità un nulla, e del nulla un'eternità; e tutto ciò ha radici così vive in noi, che tutta la nostra ragione non ce ne può difendere [...]
4.8/ L’abitudine
117 I padri temono che l'amore naturale dei figli si cancelli. Che tipo di natura è dunque questa soggetta a essere cancellata?
L'abitudine è una seconda natura che distrugge la prima. Ma cosa significa natura? Temo fortemente che la natura non sia che un'abitudine originaria, così come l'abitudine non è che una seconda natura.
671 Perché non possiamo negare di essere al tempo stesso automi e intelletto. Da ciò viene che il mezzo della persuasione non è la sola dimostrazione. Ci sono ben poche cose dimostrate! Le prove convincono solo l'intelletto, è l'abitudine che rende le nostre prove più forti e più credute. Essa orienta l'automa, che trascina l'intelletto senza che questo ci pensi. Quale dimostrazione c'è che domani farà giorno e che noi moriremo, ma c'è qualcosa a cui crediamo di più? È dunque l'abitudine che ce ne persuade. È lei a fare tanti cristiani, turchi, pagani, professioni, soldati, ecc.
4.9/ La giustizia
56 [...] Esaminiamo dunque cosa essa ha escogitato in campi di sua competenza. Se c'è qualcosa dove il suo interesse avrebbe dovuto spingerla ad applicarsi di più, è la ricerca del bene supremo. Vediamo dunque in cosa l'hanno individuato queste anime sottili e dotate, e se sono d'accordo.
Uno dice che il bene supremo è la virtù, l'altro lo identifica nel piacere, un altro nel seguire la natura, un altro nella verità («felix qui potuit rerum cognoscere causas»), uno nella totale ignoranza, uno nell'indifferenza, altri nel resistere alle apparenze, uno nel non meravigliarsi di niente («nihil mirari prope res una quae possit facere et servare beatum»), i veri scettici nella loro atarassia, nel dubbio e nella perenne sospensione del giudizio, mentre altri, più saggi, dicono che non si può trovare, e neppure desiderare di trovarlo. Eccoci sistemati.
Su cosa l'uomo fonderà l'economia del mondo che vuole governare? Forse sul capriccio dell'individuo? Che confusione! Sulla giustizia? La ignora. Se la conoscesse non avrebbe certo formulato questa massima, la più generale tra quelle umane: che ognuno segua i costumi del proprio paese. Lo splendore della vera equità avrebbe assoggettato tutti i popoli. E i legislatori avrebbero preso come modello questa giustizia immutabile, invece delle fantasie e dei capricci dei Persiani e dei Tedeschi. La si vedrebbe piantata in tutti gli stati del mondo e in tutti i tempi, mentre al contrario vediamo che niente, giusto o ingiusto che sia, può evitare di mutare qualità mutando clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza. Un meridiano diventa arbitro della verità. Bastano pochi anni di dominio e le leggi fondamentali mutano, il diritto ha le sue epoche, l'ingresso di Saturno nel Leone decide l'origine di un crimine. Bella giustizia, che ha per confine un corso d'acqua! Verità da questa parte dei Pirenei, errore dall'altra.
4.10/ Il possesso
60 Mio, tuo.
«Questo cane è mio», dicevano quei poveri ragazzi. «Quello è il mio posto al sole». Ecco l'inizio e l'immagine del possesso di tutta la terra.
4.11/ La felicità
124 Divertimento. Poiché gli uomini non sono riusciti a guarire dalla morte, dalla miseria e dall'ignoranza, hanno deciso di essere felici non pensandoci.
Nonostante queste miserie l'uomo vuole essere felice e non vuole altro e non può non volerlo.
Ma cosa potrà fare? Bisognerebbe che diventasse immortale, ma non riuscendoci si è proibito di pensarvi.
126
Divertimento.
Quelle volte in cui mi sono messo a considerare le diverse forme d'inquietudine degli uomini, i pericoli e i dolori a cui si espongono, a Corte, in guerra, e da cui sorgono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso malvagie, mi sono detto che tutta l'infelicità degli uomini viene da una sola cosa, non sapersene stare in pace in una camera. Un uomo che abbia abbastanza da vivere, se provasse piacere a restare in casa, non ne uscirebbe certo per andare in mare o all'assedio di una cittadella; e se non trovasse insopportabile rimanere in città, mai più si comprerebbe a caro prezzo una carica nell'esercito; e si cercano le conversazioni e gli svaghi del gioco perché non si sa rimanere piacevolmente a casa.
Ma quando, avendoci riflettuto maggiormente, ho trovato la causa di tutte le nostre disgrazie, ho pensato che ce n'è una davvero autentica, che consiste nell'infelicità naturale della nostra condizione debole, mortale e così miserabile che niente ci può consolare quando ci pensiamo seriamente.
4.12/ La distrazione, per non pensare
Se la nostra condizione fosse veramente felice, non occorrerebbe distrarne il pensiero per renderci felici (B165 C212).
Ciò che interessa l’uomo nel divertimento, è meno l’oggetto che la sua rincorsa, il movimento, la trepidazione, che lo distrae dal pensare a sé. “Si gusta più la caccia che la preda” (B139 C205).
Nulla è tanto insopportabile all’uomo che lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l’affanno, il dispetto, la disperazione.
354. È questa la ragione per cui il giuoco, la conversazione delle donne, la guerra, gli alti uffici sono tanto ricercati. Non che in essi si trovi realmente la felicità né che si creda che la vera beatitudine stia nel denaro che si può vincere al giuoco o nella lepre di cui si va a caccia: non li vorremmo, se ci fossero offerti in dono. Noi non cerchiamo un tal possesso, molle e placido, e che ci lascia pensare all’infelicità della nostra condizione, e neppure i pericoli della guerra o i fastidi degli impieghi; ma il trambusto che ci distoglie da quel pensiero e ci distrae.
Ragion per cui si preferisce la caccia alla preda. (“L’agitazione e la caccia sono propriamente la nostra selvaggina”, MONTAIGNE, Essais, III, VIII).
Perciò la maniera usuale di biasimarli è sbagliata. La loro colpa non è di cercare il tumulto, se lo cercassero solo come uno svago; bensì di cercarlo come se il possesso delle cose da loro cercate li dovesse rendere veramente felici.
4.13/ L’incostanza
Il sentimento della falsità dei piaceri attuali e l’ignoranza della vanità dei piaceri assenti sono causa d’incostanza (B110 C170).
4.14/ L’orgoglio
265. Orgoglio. Curiosità non è se non vanità. Quasi sempre, si vuol sapere solo per discorrerne. Non si affronterebbero viaggi per mare, se non si dovesse mai dirne nulla, e per il solo piacere di veder cose nuove, senza la speranza di poter mai parlarne con altri.
261. Siamo così presuntuosi che vorremmo esser conosciuti da tutti, persino da coloro che verranno quando non ci saremo più. Ma siamo così vani che la stima di cinque o sei persone attorno a noi ci fa piacere e ci soddisfa.
4.15/ L’uomo, un re decaduto
107 Anche tutte quelle miserie provano la sua grandezza. Sono miserie da gran signore, miserie di un re spodestato.
108 La grandezza dell'uomo.
La grandezza dell'uomo è così evidente che si ricava perfino dalla sua miseria, perché quello che per gli animali è la natura, nell'uomo lo chiamiamo miseria; da ciò riconosciamo che, se oggi la sua natura è simile a quella degli animali, egli è decaduto da una natura migliore che un tempo era la sua.
E in effetti chi può lamentarsi di non essere un re se non un re spodestato? Paolo Emilio era forse considerato infelice perché non era un console? Al contrario tutti ritenevano che egli fosse felice di esserlo stato, dal momento che la sua condizione non era di esserlo sempre. Ma Perseo era ritenuto così infelice di non essere più re, dal momento che la sua condizione comportava di esserlo sempre, che si trovava strano sopportasse ancora la vita. Chi si ritiene infelice di non avere che una bocca, e chi non si riterrebbe infelice di avere un occhio solo? A nessuno forse è mai venuto in mente di affliggersi per non avere tre occhi, ma chi non ne ha è inconsolabile.
4.16/ La grandezza dell’uomo
97-98
Prendi atto, o superbo, di quale paradosso sei per te stesso.
Umiliati, ragione impotente! Taci, debole natura, impara che l'uomo va infinitamente al di là dell'uomo, e ascolta dal tuo maestro qual è la tua vera condizione che ignori.
Ascoltate Dio.
Perché infine, se l'uomo non si fosse mai corrotto, godrebbe stabilmente nella sua innocenza della verità e della felicità. E se non fosse mai stato altro che corrotto, non avrebbe alcuna idea della verità né della beatitudine. Ma la nostra disgrazia consiste nel fatto che, più che se nella nostra condizione non ci fosse alcuna traccia di grandezza, noi abbiamo un'idea della felicità e non possiamo raggiungerla, percepiamo un'immagine della verità e non possediamo che la menzogna, incapaci di un'assoluta ignoranza e di un sapere certo, a tal punto è evidente che siamo stati a un livello di perfezione da cui purtroppo siamo decaduti.
Riconosciamo dunque che l'uomo è infinitamente al di là dell'uomo e che, senza il soccorso della fede, sarebbe incomprensibile a se stesso. Chi non vede come, senza la conoscenza di questa doppia condizione della nostra natura, rimarremmo invincibilmente ignoranti della nostra natura?
È stupefacente, tuttavia, che il mistero più distante dalle nostre conoscenze, la trasmissione del peccato, sia una cosa senza la quale ci è impossibile qualsiasi conoscenza di noi stessi!
Perché senza dubbio non c'è niente che urti maggiormente la nostra ragione dell'affermazione che il peccato del primo uomo ha reso colpevoli coloro che, così lontani da questa origine, sembrano incapaci di avervi parte.
96
Per quanto riguarda i dogmatici mi limito al loro unico punto forte, vale a dire che, parlando in buona fede e con sincerità, è impossibile dubitare dei princìpi naturali.
A ciò gli scettici oppongono, in una parola, l'incertezza della nostra origine, che comporta quella della nostra natura. E i dogmatici, da che mondo è mondo, devono ancora rispondere.
Ecco la guerra aperta tra gli uomini, dove ciascuno deve prendere posizione e schierarsi necessariamente con il dogmatismo o con lo scetticismo. Chi crederà di restare neutrale sarà scettico per eccellenza.
La neutralità è l'essenza di quella scuola. Chi non è contro di loro è comunque per loro; essi non sono a favore di se stessi, sono neutrali e indifferenti, incerti su tutto senza distinzione.
Cosa deve fare dunque l'uomo in queste condizioni? Dubiterà di tutto? Sarà in dubbio se è sveglio, se lo pizzicano, se lo bruciano? Dubiterà di dubitare? Dubiterà di esistere? Non si può arrivare a tanto, e sono certo che non ci sono mai stati simili scettici perfetti. Ci pensa la natura a sorreggere la ragione impotente, impedendole di vaneggiare fino a questo punto.
Affermerà dunque al contrario di possedere certamente la verità, lui che, per poco lo si incalzi, non può mostrare alcuna garanzia ed è costretto a lasciare la presa?
Che chimera è dunque l'uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio? Giudice di tutte le cose, ottuso lombrico, depositario del vero, cloaca d'incertezza e d'errore, gloria e rifiuto dell'universo.
Chi sbroglierà questa matassa. Questo va al di là del dogmatismo e dello scetticismo, e di tutta la filosofia umana. L'uomo va al di là dell'uomo. Concediamo dunque agli scettici ciò che hanno tanto gridato, che la verità è fuori dalla nostra portata e dal nostro carniere, che non abita sulla terra, che ha famigliarità con il cielo, che vive in seno a Dio, e che non possiamo conoscerla se non nella misura che a lui piace rivelarla. Apprendiamo dunque la nostra vera natura dalla verità increata e incarnata.
4.17/ Le ragioni del cuore (e la scommessa secondo il probabilismo matematico)
110 Contraddizioni.
Dopo aver mostrato la bassezza e la grandezza dell'uomo.
Che ora l'uomo si stimi per quello che vale. Che si ami, perché c'è in lui una natura capace di bene; ma che non per questo ami le bassezze che vi sono in essa. Che si disprezzi, perché questa capacità è vuota; ma non per questo disprezzi questa originaria capacità. Che si odii, che si ami: ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice; ma non possiede la verità, né in modo costante, né soddisfacente.
Per questo vorrei portare l'uomo a desiderare di trovarla, a essere pronto e libero dalle passioni, per seguirla dove l'avrà trovata, consapevole di come le passioni hanno offuscato la conoscenza; vorrei che odiasse davvero la concupiscenza che ha in sé e che lo muove, così da impedirle di accecarlo quando deve fare la sua scelta, e di fermarlo quando avrà scelto.
149 Non ci sono che tre tipi di uomini: quelli che, avendo trovato Dio, lo servono; quelli che, non avendolo trovato, s'impegnano a cercarlo; e gli altri, che trascorrono la vita senza trovarlo e senza averlo cercato. I primi sono ragionevoli e felici, gli ultimi sono folli e infelici, quelli in mezzo sono infelici ma ragionevoli.
188
Consolatevi: non è da voi che dovete aspettarla, al contrario, l'attenderete non aspettandovi niente da voi.
210-211
-Esaminiamo dunque questo punto, e diciamo: o Dio esiste o non esiste; ma da che parte staremo? La ragione non può decidere niente. C'è un abisso infinito che ci separa. In capo a questa infinita distanza si gioca un gioco in cui uscirà testa o croce. Su cosa scommetterete? Con la ragione non potete scegliere né l'uno né l'altro, con la ragione non potete negare nessuno dei due. Non accusate d'errore dunque quelli che hanno fatto una scelta, perché non ne sapete niente.
- No, ma io li biasimo non per aver fatto una scelta piuttosto che un'altra, ma per avere scelto, sebbene sia quello che sceglie croce e sia l'altro commettano errori opposti, sbagliando entrambi. Giusto è non scommettere.
- Sì, ma bisogna scommettere. Non dipende dalla volontà, ormai siete imbarcato. Cosa scegliete dunque? Vediamo, dal momento che bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare, la vostra ragione e la vostra volontà, la vostro conoscenza e la vostra beatitudine, mentre la vostra natura ha due cose da fuggire, l'errore e la miseria. La ragione, poiché è necessario scegliere, non viene maggiormente offesa scegliendo uno piuttosto che l'altro. Ecco un punto accertato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita puntando su croce, cioè che Dio esiste. Valutiamo i due casi: se vincete, vincete tutto, ma se perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che Dio esiste senza esitare. È ammirevole.
- Sì, bisogna scommettere, ma forse scommetto troppo.
- [...] Non serve a niente dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si rischia [...] Ogni giocatore ha la certezza del rischio e l'incertezza del guadagno, e tuttavia egli rischia un finito certo per vincere un finito incerto, senza per questo peccare contro la ragione. Non esiste distanza infinita tra la certezza del rischio e l'incertezza del guadagno, ciò è falso. C'è infinità, a dire il vero, tra la certezza della vincita e la certezza della perdita, ma l'incertezza di vincere è proporzionata alla certezza di ciò che si rischia secondo la proporzione dei casi di vincita e di perdita. Da questo deriva che se ci sono uguali possibilità da una parte come dall'altra, la scommessa è alla pari. E allora la certezza di ciò che si rischia è uguale all'incertezza del guadagno, altro che esserne infinitamente distante. E così la nostra proposta ha una forza infinita, quando c'è da rischiare il finito in un gioco dove ci sono uguali possibilità di vincere o di perdere e l'infinito come posta.
4.18/ L’invito alla conversione, come preludio alla fede
669 «Avrei subito abbandonato i piaceri», dicono, «se avessi la fede». Ma io vi dico: avreste quella fede se aveste abbandonato quei piaceri. Sta a voi cominciare. Se io potessi, vi darei la fede. Non posso farlo, né pertanto provare la verità di quello che dite. Ma voi invece potere abbandonare i piaceri e provare se quello che dico è vero.
Si ha un bel dire, bisogna confessare che la religione cristiana ha qualcosa di stupefacente. «È solo perché vi siete nato», si dirà. Tanto poco io mi irrigidisco in essa, proprio per questa ragione, per paura di essere ingannato dalla prevenzione, ma quantunque vi sia nato, non posso fare a meno di trovarla così.
Sintesi I: segni e non dimostrazioni
Sintesi II: un’antropologia teologica, un’apologia che non parte dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma dalla condizione umana
da Pascal Blaise, di René Latourelle, in R. Latourelle-R. Fisichella, Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi, 1990, pp. 843-847
NUOVO TIPO DI APOLOGETICA - L'apologetica di Pascal rappresenta qualcosa di inedito. La sua impresa non fu subordinata né a una filosofia né a una scienza particolare. È tuttavia di tipo filosofico: più precisamente è un'antropologia. In un universo in cui l'uomo è alla deriva, mistero a se stesso e mistero per gli altri, Pascal cerca di dimostrare come la religione cristiana dia un senso a un'esistenza apparentemente assurda: è un'antropologia di carattere teologico. La chiave del mistero dell'uomo è in Cristo, totalità del senso, che permette non solo di decifrare la condizione umana, ma anche di apportarvi rimedio.
Oggi si qualificherebbe volentieri l'apologetica di Pascal come ermeneutica, cioè ricerca di senso, più preoccupata di trovare segni che prove. Descrive l'esistenza umana che essa si sforza di interpretare come fosse un testo. Attraverso le diversità, le opposizioni, le fratture, le discontinuità, le scissioni, Pascal cerca di «decifrare» la condizione umana. Quindi la sua apologetica non segue un ordine lineare: è piuttosto multidirezionale e multidimensionale. È la ricerca e la scoperta di un senso a partire da osservazioni e figure che si possono dividere e classificare in modo diverso.
La ricerca del senso passa attraverso l'analisi dei paradossi della condizione umana e la scoperta di un punto superiore che li assume e li illumina.
-nota catechetica: due dogmi antropologici, la creazione e la caduta
5/ II Parte della progettata Apologia del cristianesimo: le prove della verità cristiana
5.1/ Senza Cristo noi non conosciamo né Dio, né noi stressi
113. Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo; non conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo. Senza Gesù Cristo, non sappiamo che cosa sia la nostra vita, la nostra morte, Dio, noi stessi. Pertanto, senza la Scrittura, che ha come unico oggetto Gesù Cristo, non conosciamo nulla e vediamo solamente oscurità e confusione nella natura di Dio come nella nostra.
114. Coloro che van fuori strada si perdono perché non vedono l’una o l’altra di queste due verità. Si può bensì conoscere Dio senza la propria miseria, e la propria miseria senza conoscere Dio; ma non si può conoscere Gesù Cristo senza conoscere a un tempo sia Dio sia la propria miseria.
Ecco perché non prenderò qui a dimostrare con prove naturali l’esistenza di Dio o la Trinità o l’immortalità dell’anima, né altre cose della stessa specie: non solo perché non mi sento abbastanza forte da trovare nella natura di che convincere atei induriti, ma anche perché senza Gesù Cristo tale conoscenza è inutile e sterile. Quand’uno fosse convinto che le proporzioni dei numeri sono verità immateriali, eterne, e dipendenti da una verità prima in cui sussistono, e che viene chiamata Dio, non mi parrebbe per questo molto progredito nel cammino della salute.
Il Dio dei Cristiani non è semplicemente un Dio autore delle verità matematiche e dell’ordine cosmico: come quello dei pagani e degli epicurei. Né è solamente un Dio il quale eserciti la sua provvidenza sulla vita e i beni degli uomini, per largire ai suoi fedeli una felice serie d’anni: conforme alla concezione degli Ebrei. Il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani, è un Dio di amore e di consolazione: un Dio che riempie l’anima e il cuore di coloro che possiede; un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria e la propria misericordia infinita; che si unisce al più profondo della loro anima; che la colma di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore, e che li rende incapaci di altro fine che non sia lui medesimo.
Tutti coloro che cercano Dio fuori di Gesù Cristo, e che si arrestano alla natura, o non trovano nessuna luce che li soddisfi o riescono a trovare un mezzo di conoscere e servire Dio senza mediatore; e così cadono o nell’ateismo o nel deismo: due cose che la religione cristiana aborre quasi in egual misura.
Senza Gesù Cristo, il mondo non sussisterebbe: sarebbe di necessità distrutto o sarebbe simile a un inferno.
B 684 C 558 In Gesù Cristo si concordano tutte le contraddizioni.
B 187 C 1 [La fede cristiana] è degna di venerazione perché ha conosciuto l’uomo; amabile perché promette il vero bene.
5.2/ Le “prove” di Gesù Cristo: la testimonianza apostolica
303 O gli apostoli sono stati ingannati o sono ingannatori. Le due cose insieme sono difficili. Non è possibile scambiare un uomo per un resuscitato.
Finché Gesù Cristo era con loro, poteva sostenerli, ma dopo, se non è apparso loro, chi li ha fatti agire?
292 Prove di Gesù Cristo.
L'ipotesi degli apostoli ingannatori è troppo assurda. La si segua fino in fondo; si immagini questi dodici uomini riuniti dopo la morte di Gesù Cristo, a complottare per dire che egli è risorto. Con ciò si oppongono a tutte le autorità.
Il cuore degli uomini è stranamente incline alla leggerezza, alla mutevolezza, alle promesse, alla ricchezza. Per poco che uno di loro si fosse smentito, attratto da tutte queste lusinghe, e, più ancora, sotto la minaccia del carcere, delle torture e della morte, essi sarebbero perduti.
Si rifletta su questo punto.
297 Chi ha insegnato agli evangelisti le doti di un'anima perfettamente eroica, per dipingerla in modo così perfetto in Gesù Cristo? Perché lo ritraggono debole durante l'agonia? Non sapevano forse raffigurare una morte intrepida? Certo, perché lo stesso san Luca dipinge quella di santo Stefano più forte di quella di Gesù Cristo.
Lo fanno dunque capace di paura prima che sia giunta la necessità di morire, per il resto fortissimo.
Ma se lo fanno così turbato è perché il turbamento nasce in lui stesso; quando sono gli uomini a turbarlo, egli è forte.
5.3/ I miracoli
210 Gli increduli sono in realtà i più credenti, per non credere nei miracoli di Mosè, credono in quelli di Vespasiano.
5.4/ Le profezie e il Deus absconditus
213 Cosa dicono i profeti di Gesù Cristo? Che sarà Dio in modo evidente? Al contrario, che è un Dio realmente nascosto, che non verrà riconosciuto, che non penseranno che sia lui, che sarà una pietra d'inciampo contro cui molti urteranno, ecc.
Che non ci si rimproveri dunque più la mancanza di evidenza, perché è proprio ciò che ammettiamo. Ma, si obietta, ci sono delle oscurità, e senza di loro non si urterebbe contro Gesù Cristo. È uno dei disegni espliciti dei profeti. «Excaeca».
225 Prova.
Profezia e compimento.
227 Che Dio ha voluto celarsi.
Se ci fosse una sola religione, Dio sarebbe ben evidente.
Anche se ci fossero martiri solo nella nostra religione.
Essendosi Dio celato, tutte le religioni che negano sia celato non sono vere, e se una religione non lo spiega, non può educare. La nostra fa tutto ciò: «Vere tu es deus absconditus». [...] La nostra religione è divina al punto da avere come fondamento un'altra religione divina.
235 Chi vuol dare senso alla Scrittura senza prenderlo dalla Scrittura stessa, è suo nemico.
257 Prova dei due Testamenti insieme.
Per provare in un colpo solo la veridicità di entrambi, non c'è che da verificare se le profezie di uno si sono compiute nell'altro.
Per esaminare le profezie, bisogna comprenderle.
Perché se si crede che esse abbiano un senso solo, allora è certo che il Messia non è venuto; ma se hanno due sensi, è certo che è venuto nella persona di Gesù Cristo.
Il problema si riduce nel sapere se esse hanno due sensi.
Che la Scrittura ha due sensi.
Che Gesù Cristo e gli apostoli ne hanno date le prove:
1. Prova per mezzo della Scrittura stessa.
2. Prova per mezzo dei rabbini. Mosè Maimonide dice che essa ha due facce sicure e che i profeti hanno profetizzato solo Gesù Cristo.
3. Prove per mezzo della qabbalah.
4. Prove per mezzo dell'interpretazione mistica che gli stessi rabbini danno alla Scrittura.
5. Prove per mezzo dei princìpi rabbinici che ci sono due sensi: che ci sono due avventi del Messia, glorioso o abbietto secondo quanto meritano;
che i profeti hanno profetizzato solo il Messia;
che allora non ci si ricorderà più del mar Rosso;
che Ebrei e Gentili saranno mescolati.
6. Prove per mezzo della chiave che ci danno Gesù Cristo e gli apostoli.
- Nota catechetica, cfr. J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesu di Nazaret, III
figure senza padrone!
5.5/ La santità della Chiesa
283 Santità.
«Effundam spiritum meum». Tutti i popoli si trovavano nell'infedeltà e nella concupiscenza, tutta la terra arse di carità: i principi abbandonano i loro fasti, le giovani affrontano il martirio. Da dove viene questa forza? È arrivato il Messia. Ecco la conseguenza e i segni della sua venuta.
5.6/ La Rivelazione
133 Filosofi.
Siamo pieno di cose che ci gettano fuori di noi. L'istinto ci dice che dobbiamo cercare la felicità fuori di noi. Le passioni ci spingono fuori di noi, anche quando non ci fossero stimoli per eccitarle. Gli oggetti esterni ci tentano per se stessi e ci attirano anche quando non ci pensiamo. Hanno un bel dire i filosofi. «rientrate in voi stessi, lì troverete il vostro bene», nessuno crede loro, e quelli che ci credono sono i più vuoti e i più sciocchi.
109 [...] Inutilmente, uomini, cercate in voi stessi il rimedio alle vostremiserie. Tutta la vostra intelligenza può solo farvi capire che non troverete in voi né la verità né il bene.
I filosofi ve l'hanno promesso ma non hanno saputo farlo. Essi non conoscono qual è il vostro bene autentico, né qual è la vostra autentica condizione.
214 Quanto gli uomini avevano potuto conoscere con i più grandi sforzi d'intelligenza, questa religione lo insegnava ai bambini.
361 Alcuni credono senza aver letto i Testamenti perché hanno una disposizione interiore perfettamente santa e perché quello che apprendono della nostra religione è adeguato. Essi sentono di essere stati fatti da un Dio. Essi non vogliono amare che Dio, non vogliono odiare che se stessi. Sentono di non avere abbastanza forza da soli, di essere incapaci di arrivare a Dio e che se Dio non va da loro, non possono avere rapporti con lui. Essi sentono dire nella nostra religione che non bisogna far altro che amare Dio e odiare se stessi, ma che, essendo tutti corrotti e incapaci di arrivare a Dio, Dio si è fatto uomo per unirsi a noi. Non ci vuole altro per persuadere uomini che hanno una simile disposizione nel cuore e che hanno questa consapevolezza del proprio dovere e della propria incapacità.
5.7/ La carità di Cristo e i tre ordini
S. 795; B. 793 La distanza infinita che intercede tra i corpi e gli spiriti adombra la distanza infinitamente più infinita tra gli spiriti e la carità, perché questa è soprannaturale.
Tutto lo splendore delle grandezze terrene non ha nessun lustro per coloro che sono impegnati nelle ricerche intellettuali.
La grandezza degli uomini di pensiero è invisibile ai re, ai ricchi, ai condottieri di eserciti, a tutti i grandi della carne.
La grandezza della saggezza, che non è nulla se non viene da Dio, è invisibile alle persone carnali e agli uomini di pensiero. Sono tre ordini di genere diverso.
I grandi genî hanno il loro impero, il loro splendore, le loro vittorie, il loro lustro, e non hanno nessun bisogno delle grandezze carnali, che non li riguardano affatto. Son veduti non dagli occhi, ma dalle menti: e ciò basta loro.
I santi hanno il loro impero, il loro splendore, le loro vittorie, il loro lustro, e non hanno nessun bisogno delle grandezze carnali o intellettuali, che non aggiungono né tolgono loro nulla. Sono veduti da Dio e dagli angeli, non dai corpi né dalle menti curiose: a loro basta Dio.
Archimede, anche senza lustro mondano, sarebbe venerato egualmente. Non ha dato battaglie per gli occhi, ma ha donato a tutte le menti le sue invenzioni. Oh, come sfolgorò alle menti!
Gesù Cristo, senza ricchezze e senza nessuna manifestazione esteriore di scienza, sta nel proprio ordine di santità. Non fece invenzioni, non regnò; ma fu umile, paziente, santo, santo a Dio, terribile ai demoni, senza peccato. Oh! come venne in gran pompa e in prodigiosa magnificenza agli occhi del cuore, che vedono la saggezza!
Ad Archimede sarebbe stato inutile fare il principe nei suoi libri di geometria, sebbene fosse tale.
A Nostro Signore Gesù Cristo sarebbe stato inutile, per splendere nel suo regno di santità, venire da re; ma egli venne con lo splendore del suo ordine.
È ridicolo scandalizzarsi della bassezza di Gesù Cristo, come se tale bassezza fosse del medesimo ordine della grandezza che venne a rivelare. Si consideri tale grandezza nella sua vita, nella sua passione, nella sua oscurità, nella sua morte, nell'elezione dei suoi, nel loro abbandono, nella sua segreta resurrezione e nel rimanente: la si vedrà così grande che non ci sarà più da scandalizzarsi per una bassezza che non c'è.
Ma certuni sanno ammirare soltanto le grandezze carnali, come se non ce ne fossero di spirituali; e altri ammirano solo quelle intellettuali, come se nell'ordine della saggezza non ce ne fossero di infinitamente più elevate.
Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi reami non valgono il minimo tra gli spiriti, perché questo conosce tutto ciò e se stesso; e i corpi, nulla.
Tutti i corpi insieme e tutti gli spiriti insieme e tutte le loro produzioni non valgono il minimo moto di carità. Questo è di un ordine infinitamente più elevato.
Da tutti i corpi presi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: è impossibile, e di un altro ordine. Da tutti i corpi e da tutti gli spiriti non si potrebbe trarre un sol moto di vera carità: ciò è impossibile, di un altro ordine, soprannaturale.
689. Tutto quel che non mira alla carità è figura.
L’unico oggetto della Scrittura è la carità.
206. Come mi sono odiose queste sciocchezze: di non credere nell’Eucarestia, ecc.? Se il Vangelo è vero, se Gesù Cristo è Dio, che difficoltà c’è in tutto questo?
-nota catechetica: i 3 ordini in Antonio Rosmini, Costituzioni dell’Istituto della Carità
593. Gli uffici di carità, rispetto al bene del prossimo, a cui tendono direttamente, sono di tre specie.
La prima specie comprende quegli uffici che tendono a giovare immediatamente al prossimo in ciò che riguarda la vita temporale: e questa si può chiamare carità temporale.
594. La seconda specie comprende quegli uffici che tendono a giovare immediatamente al prossimo nella formazione del suo intelletto e nello sviluppo delle sue facoltà intellettuali: e questa si può chiamare carità intellettuale.
595. La terza specie comprende gli uffici di carità che tendono a giovare al prossimo in ciò che spetta alla salvezza delle anime: e questa si può chiamare carità morale e spirituale. Chiamiamo morale quella carità che dispone l’uomo a compiere i doveri morali, e spirituale la medesima carità elevata all’ordine soprannaturale, per cui l’uomo aderisce a Dio, ciò a cui tendono i mezzi religiosi con cui l’uomo, ottenuta la divina grazia, può adempiere gli obblighi morali.
In ciascuna di queste specie, l’ufficio di carità può comprendere uno o più atti, e richiedere stabilmente una o più persone continuamente o successivamente [...].
596. La carità spirituale tende a dare al prossimo ciò che è bene di per sé e solo bene, cioè la vita eterna. Invece la carità temporale e l’intellettuale offrono agli uomini soltanto beni relativi e parziali, che si possono dire beni solo in quanto sono ordinati con l’intenzione al bene assoluto della carità spirituale e ad esso in qualche modo dispongono. Perciò, parlando in senso stretto, le tre suddette specie di carità appartengono ad una sola, come abbiamo detto in precedenza (parte VI, cap. IV), e quindi dobbiamo esercitare la carità temporale e l’intellettuale solo al fine di salvare le anime e di onorare nelle persone il nostro Dio e Signore GESÙ, che volle prendere su di sé i bisogni di tutti noi.
597. La principale e suprema specie di carità è la terza, che tende ad un bene più grande e più vero; poi eccelle la seconda specie, perché la formazione dell’intelletto è la più importante delle cose temporali e serve più da vicino alla specie suprema; la prima invece è la minima specie di carità. Ma nell’assumere gli uffici non si deve guardare solo a quest’ordine, così da assumere con più facilità e prontezza delle altre la specie che sembra più importante, ma bisogna prima considerare quanto segue.
598. Poiché lo stato che noi scegliamo è quello dell’umiltà e ci collochiamo fra i discepoli e non fra i maestri d’Israele, non dobbiamo abbandonare questo stato a noi carissimo senza un valido motivo e, quando possiamo, dobbiamo preferire quella carità che è propria di tutti i fedeli, assumendo lo stato di dottori e pastori solo quando si rende evidente la divina chiamata.
5.8/ Il mistero di Gesù
Gesù soffre nella sua passione i tormenti che gli infliggono gli uomini; ma nell'agonia soffre i tormenti che s'infligge Lui stesso: turbare semetipsum. È un supplizio di una mano non umana, ma onnipotente, e bisogna essere onnipotente per sopportarlo.
Gesù cerca qualche consolazione almeno nei suoi tre più cari amici, ed essi dormono: li prega di restare un poco con Lui, ed essi lo abbandonano con una completa negligenza, avendo così poca compassione da non poter tralasciare neanche per un momento di dormire. E così Gesù veniva lasciato solo alla collera di Dio.
Gesù è solo sulla terra, non solo a soffrire e a condividere la sua agonia, ma a conoscerla: il cielo e Lui sono soli in questa conoscenza.
Gesù è in un giardino, non di delizie come il primo Adamo, ove perdette sé e tutto il genere umano, ma in uno di supplizi, ove salvò se stesso e tutto il genere umano.
Soffre questa pena e questo abbandono nell'orrore della notte. Credo che Gesù non si sia mai lamentato se non quella sola volta, ma allora si lamenta come se non potesse più contenere il suo dolore esorbitante: «La mia anima è triste fino alla morte».
Gesù cerca compagnia e conforto da parte degli uomini. È l'unica volta in tutta la sua vita, mi sembra. Ma non ne riceve, perché i suoi discepoli dormono.
Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento.
Gesù nel mezzo di questo abbandono generale, e dei suoi amici scelti per vegliare con Lui, trovandoli addormentati, se ne affligge per il pericolo a cui si espongono, non Lui, ma loro stessi, e li avverte per la loro salvezza e per il loro bene con una tenerezza cordiale nonostante la loro ingratitudine, e li avverte che lo spirito è pronto e la carne inferma.
Gesù, trovandoli ancora addormentati, senza che il pensiero per Lui o per loro stessi li abbia trattenuti, ha la bontà di non svegliarli, e li lascia riposare.
Gesù prega nell'incertezza della volontà del Padre, e teme la morte; ma, avendola conosciuta, le va incontro offrendosi ad essa: Eamus. Processit [Gv. 18,4].
Gesù ha pregato gli uomini, e non è stato esaudito.
Gesù, mentre i suoi discepoli dormivano, ha operato la loro salvezza. L'ha fatto per ciascuno dei giusti, mentre essi dormivano, e nel nulla, prima della loro nascita, e nei peccati, dopo la loro nascita. Una sola volta prega che il calice passi e per di più con sotto missione, e due volte ch'esso venga, se necessario.
Gesù nell'angoscia.
Gesù, vedendo tutti i suoi amici addormentati e tutti i suoi nemici vigilanti, si rimette interamente al Padre.
Gesù non considera in Giuda la sua inimicizia, ma la decisione del Padre che ama, e la considera così poco che lo chiama amico. Gesù si strappa dai suoi discepoli per entrare in agonia, bisogna staccarsi dalle persone più vicine e più intime per imitarlo.
Essendo Gesù in agonia e nelle più grandi sofferenze, preghiamo più a lungo.
Noi imploriamo la misericordia di Dio, non perché ci lasci in pace nei nostri vizi, ma perché ce ne liberi. Se Dio ci desse di sua mano dei maestri, oh! come si dovrebbe obbedire a loro di buon animo! La necessità e gli eventi lo sono infallibilmente.
«Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi trovato.»
«Io pensavo a te nella mia agonia, io ho versato delle gocce di sangue per te.»
«E un tentare me piuttosto che mettere alla prova te stesso, domandarti se tu sapresti far bene questa o quell'altra cosa lontana; se accadrà, sarò io a farla in te.»
«Lasciati guidare dalle mie regole: osserva come ho ben condotto la Vergine e i santi che mi hanno lasciato agire in loro.»
«Il Padre ama tutto quello che faccio.»
«Vuoi che mi costi sempre sangue della mia umanità, senza che tu versi lacrime?»
«È compito mio, la tua conversione; non temere, e prega con fiducia, come se fosse per me.»
«Io ti sono presente con la mia parola nella Scrittura, con il mio spirito nella Chiesa e con le mie ispirazioni, con la mia potenza nei sacerdoti, con la mia preghiera nei fedeli.»
«I medici non ti guariranno; perché alla fine morirai. Ma sono io che guarisco e rendo il corpo immortale.»
«Soffri le catene e la servitù del corpo; io, ora, ti libero solo da quella dello spirito.»
«Io ti sono amico più del tale e talaltro; perché ho fatto per te più di loro ed essi non soffrirebbero quello che ho sofferto per te e non morirebbero per te nel tempo delle tue infedeltà e delle tue crudeltà, come io ho fatto e come sono pronto a fare e faccio, nei miei eletti e nel santo Sacramento.»
«Se tu conoscessi i tuoi peccati, ti perderesti d'animo.»
Mi perderò d'animo, dunque, o Signore, perché credo alla loro malizia, sulla vostra parola.»
«No, perché io, che te lo rivelo, te ne posso guarire, e il fatto che te lo dica è un segno che ti voglio guarire. Nella misura in cui tu li espierai, li conoscerai e ti sarà detto: Ecco i peccati che ti sono rimessi. Fa' dunque penitenza per i tuoi peccati nascosti e per la malizia occulta di quelli che conosci.»
Signore, io vi do tutto.
«Io ti amo più ardentemente di quanto tu non abbia amato le tue brutture, ut immundus pro luto»
«A me ne sia la gloria, e non a te, verme e terra.»
«Interpella il tuo direttore, quando proprio le mie parole ti sono occasione di male, e di vanità o curiosità.»
Vedo il mio abisso di superbia, di curiosità, di concupiscenza. Non c'è alcun rapporto tra me e Dio, né con Gesù Cristo giusto. Ma è stato commesso peccato per opera mia, tutti i vostri flagelli sono caduti su di Lui. È più abominevole di me, e, lungi dall'aborrirmi, si considera onorato che vada da Lui e lo soccorra. Ma Egli ha guarito se stesso e guarirà a maggior ragione me. Devo aggiungere le mie piaghe alle sue, e unirmi a Lui, e Lui mi salverà, salvando Sé. Ma non bisogna aggiungerne in avvenire. Eritis sicut dii scientes bonum et malum.
Tutti si fanno Dio giudicando: «Questo è buono o cattivo», e affliggendosi o rallegrandosi troppo per quello che accade. Fare le piccole cose come se fossero grandi, a causa della maestà di Gesù Cristo che le fa in noi e che vive la nostra vita; e le grandi come fossero piccole e facili, a causa della sua onnipotenza.
Sintesi: il cristocentrismo. Il peccato originale e la redenzione
da Pascal Blaise, di René Latourelle, in R. Latourelle-R. Fisichella, Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella,
Il paradosso, che è l'elemento privilegiato della dialettica di Pascal, non è una semplice tecnica stilistica, un gioco di antitesi letterarie: esso propone i termini della realtà umana stessa. Il paradosso consiste nella coesistenza e perfino nell'alleanza degli opposti; amplia gli opposti senza tuttavia risolverli. Il contrasto che caratterizza lo scrivere pascaliano, che oppone tra loro i temi miseria-grandezza, finito-infinito, tempo-eternità, carne-spirito, appartiene a Pascal come appartiene al vangelo e a S. Paolo e descrive il movimento stesso dell’esistenza umana: «Sappiate dunque, superbo, quale paradosso siete per voi stesso» (B434 C438).
L'intelligenza del paradosso non va cercata in un equilibrio in cui gli opposti, messi sulla bilancia, finirebbero con l'annullarsi. Non si deve cercare né equilibrio né simmetria, ma un senso che venga da un punto più alto, superiore, capace di chiarire e di ordinare visioni divergenti. Tale punto superiore, che permette di decifrare la condizione umana, è offerto dal cristianesimo, soprattutto dal dogma del peccato originale e da quello della redenzione. Il dogma tuttavia non abolisce i termini del paradosso; piuttosto li fa apparire in una luce più cruda. Cristo è un punto di rottura più che di equilibrio. Mistero egli stesso, chiarisce il mistero dell'uomo con un passaggio a un ordine superiore: quello della carità rivelata dalla croce. Solo Cristo decifra la condizione umana.