1/ L’imperatore e Margherita. Quel simbolo che dopo il 28 ottobre 312 si diffuse rapidamente a Roma e nel resto dell’impero. Il cristogramma costantiniano nei graffiti della necropoli vaticana dove l’archeologa Guarducci condusse i celebri scavi, di Carlo Carletti 2/ E la cupola del mondo antico volò via come un tetto di paglia, di Evelyn Waugh 3/ La visione raffigurata
- Tag usati: costantino_imperatore, origine_potere_temporale_chiesa
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo da L’Osservatore Romano tre testi pubblicati il 28/10/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti su Costantino, vedi Costantino e la libertà dei cristiani, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (31/10/2012)
1/ L’imperatore e Margherita. Quel simbolo che dopo il 28 ottobre 312 si diffuse rapidamente a Roma e nel resto dell’impero. Il cristogramma costantiniano nei graffiti della necropoli vaticana dove l’archeologa Guarducci condusse i celebri scavi, di Carlo Carletti
Il decisivo scontro del 28 ottobre 312 ad saxa rubra, nel suburbio nord di Roma, costituisce la fase iniziale di un processo di enorme portata, che nel corso di circa un decennio mutò l’architettura istituzionale, politica e ideologico-religiosa dell’Impero. Il primo esito di questa rapidissima — si è anche detto “rivoluzionaria” — trasformazione si manifestò concretamente nel pieno controllo da parte di Costantino dell’intero Occidente.
Il progetto costantiniano sarebbe poi giunto alla sua definitiva conclusione con la sconfitta di Licinio del 324 a Crisopoli e Adrianapoli: dopo il divide et impera dell’età tetrarchia, Occidente e Oriente si riunificavano sotto un unico scettro. Nell’immaginario di Costantino e di una parte almeno dei suoi contemporanei — compresi Eusebio di Cesarea e Lattanzio — l’evento epocale della vittoria di ponte Milvio trovò un efficace e per l’imperatore “provvidenziale” catalizzatore nella misteriosa visione di un segno, nel contempo evocativo di una vittoria conseguita e di una protezione divina acquisita. È il celebre monogramma, a giusta ragione definito come “costantiniano”: una figura nella quale il qualificativo divino di Gesù di Nazaret — Christòs — veniva espresso nella forma monogrammatica conseguente alla sovrapposizione delle due iniziali chi e rho.
Nella cultura occidentale e orientale i millesettecento anni trascorsi dall’evento del 312 non hanno cancellato né offuscato l’ininterrotta resistenza al tempo e ai processi storici del primo e più esplicito segno evocativo della “persona” di Gesù Cristo. Ma il nuovo segno — come testimoniato dalla monetazione — all’indomani della vittoria di Ponte Milvio, non ebbe nel territorio dell’Impero una omogenea e sincronica diffusione.
C’è un dato, almeno finora inconfutabile: nel corso della vita di Costantino, la zecca imperiale di Roma in nessuna circostanza introdusse nelle sue emissioni il monogramma cristologico. Certo si tratta di non pura casualità, ma di un esito coerente delle cautele e dei dovuti rispetti, che la capitale dell’Impero — ancora in grande maggioranza pagana — poteva e doveva esigere dal suo legittimo sovrano, che pure aveva aderito al cristianesimo.
La novità del monogramma fu invece immediatamente recepita e accolta nella produzione delle zecche imperiali, sia occidentali sia orientali. Più in particolare le emissioni con signa cristologici si concentrarono nelle zecche dell’area orientale e in particolare ad Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Cizico, Heraclea Nicomedia, Siscia, Tessalonica. Non è puro accidente che in questo ambito spaziale, e soprattutto in quello del vicino Oriente, ancora nel corso del IV secolo si registri rispetto all’Occidente una diffusione molto più capillare ed estesa del cristianesimo. Va inoltre rilevato che alcune di queste città erano le stesse nelle quali più frequentemente e più a lungo aveva soggiornato Costantino.
A Roma l’imperatore si soffermò brevemente solo in tre circostanze: innanzitutto nel 312 per lo scontro finale con Massenzio (il 28 ottobre); dal 25 agosto al 19 ottobre del 315 per la celebrazione congiunta dei decennalia e della sconfitta di Massenzio; dal 18 al 25 luglio del 326 per i vicennalia e la sconfitta di Licinio a Adrianopoli e Crisopoli. La presenza solo episodica dell’imperatore nella capitale è esplicitamente lamentata nel panegirico per Costantino pronunciato a Roma dal retore Nazario nel 321 (X, 38, 6): «Solo una cosa potrebbe rendere Roma più felice, una cosa grandissima certo, ma una sola: vedere il suo liberatore, te o Costantino, e i suoi figli beatissimi, i Cesari».
Da questa asimmetrica distribuzione se ne è dedotto che, a livello di diffusione e utenza generalizzata, dell’area occidentale e in particolare a Roma non si era ancora sedimentata una specifica percezione dei contenuti e dei significati insiti nei segni cristologici: ne mancavano — così si è detto — i prerequisiti, vale a dire le cognizioni relative al dove, al come, al quando, al perché della relazione tra il signum salutis e la battaglia di Ponte Milvio del 28 ottobre 312.
In queste argomentazioni — oltre a una pregiudiziale sottovalutazione del valore religioso del signum — emerge con evidenza la generalizzazione di un problema quantomeno più articolato, se si sposta la prospettiva anche al di là della produzione numismatica.
Vi è in realtà una documentazione epigrafica non irrilevante — sicuramente attribuibile agli esordi dell’era costantiniana — ancora oggi visibile nello strato sottostante alla basilica vaticana, cioè nel campo P, che localizza la memoria petrina. Il loro supporto è l’ormai ben noto muro G: una struttura di sostegno e di confine, che tra la fine del III e non oltre il primo ventennio del IV secolo, accolse scritte a sgraffio tracciate da visitatori che giungevano lì devotionis causa.
Qui — per la prima volta a Roma — in un contesto devozionale emergono con chiarezza una serie di segni cristologici nella forma archetipica del monogramma costantiniano, sia nella valenza verbale di compendium scripturae (cioè in forma abbreviata) sia in quella simbolica di signum grafico e figurale. Qualcuno — evidentemente di fede cristiana — si era recato nell’area della memoria petrina e qui aveva lasciato testimonianza scritta della sua visita con brevi e semplici messaggi di tipo augurale, rivelatori di una consapevole conoscenza del contenuto verbale e simbolico del cristogramma.
In tale contesto i signa cristologici sono tracciati isolatamente accanto a una o più parole senza un rapporto sintattico con esse, ovvero, più frequentemente, si inseriscono in una struttura testuale con funzione verbale: Simplici vivite in Chr(isto), Nikasi vibas in Chr(isto), Victor Gaudentia vivatis in Chr(isto) (Margherita Guarducci, I graffiti sotto la confessione di San Pietro in Vaticano, II, Città del Vaticano 1958, n. 6 p. 84, n. 8 p. 93,n. 24 p. 184).
A queste formulazioni si associa coerentemente un altro graffito — come già rilevato e convenientemente argomentato da Margherita Guarducci — che conferma come tra i visitatori documentati nel muro G fosse ben chiaro il collegamento tra i cristogrammi e la vittoria costantiniana conseguita contro Massenzio nel 312: non altrimenti infatti potrebbe spiegarsi la scritta che reca hoc vin[ce] accompagnata dalla combinazione monogrammatica delle lettere greche chi e rho (Guarducci, I graffiti, n. 2 pp. 12 – 14): versione latina della scritta greca touto nika, che nella visione costantiniana si accompagnava al signum cristologico, come narrato da Eusebio nella Vita Constantini (I, 29 – 31).
Nel fiume di pagine, anche recentissime, prodotte su molteplici aspetti relativi alla cosiddetta questione costantiniana, non sembra vi sia cenno alcuno ai graffiti del muro G, certo poveri e rozzi sul piano formale, ma rilevanti sul piano della storia culturale, poiché cronologicamente prossimi alla più antica testimonianza finora nota del cristogramma: quella riprodotta nel celeberrimo solido argenteo battuto nel 315 dalla zecca di Ticinum ( Pavia), che reca sul dritto il volto di Costantino con l’elmo, coronato sulla sua sommità dall’effigie del monogramma cristologico.
Una prova inconfutabile che la conoscenza del cristogramma a Roma avesse raggiunto un più vasto ambito popolare, pur in assenza nelle zecche della città di prodotti con segni cristologici.
In questa direzione un’ulteriore e decisiva testimonianza della diffusione popolare dei cristogrammi è confermata dalle iscrizioni funerarie delle catacombe romane, nel cui ambito emergono esemplari contemporanei ai graffiti del muro G e comunque precedenti o immediatamente successive alla morte di Costantino: si tratta infatti di epitaffi datati al 323, 336, 338, 339 (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, VII 17.425; I 3.159, 45; III 8.719). Se la comunità cristiana di Roma volle contrassegnare con l’emergente monogramma le proprie “scritture ultime”, se ne deduce che il signum salutis introdotto da Costantino fu recepito e compreso anche nella sua dimensione specificamente religiosa e non esclusivamente — come pure senza solidi argomenti è stato ipotizzato — per il suo valore propiziatorio.
2/ E la cupola del mondo antico volò via come un tetto di paglia, di Evelyn Waugh
Nel 1950 Evelyn Waugh scriveva il romanzo Helena: un mirabile racconto, dove la fantasia si poggia sempre su una rigorosa base storica, dedicato alla vicenda della madre di Costantino e del suo pellegrinaggio in Terra Santa alla ricerca delle reliquie della vera Croce. Dall’edizione italiana dell’opera (Milano, Rizzoli, 2002, traduzione di Valentina Poggi con la collaborazione di Laura Parmeggiani, introduzione di Marta Sordi) pubblichiamo alcuni stralci e, in basso, un brano del libro La donazione di Costantino (Bologna, il Mulino, 2010) scritto dal nostro direttore.
Quando il tempo fu maturo, al suo momento, il momento giusto, Costantino marciò sull’Italia. Le voci sull’evento e il corriere da Roma arrivarono simultaneamente. A Treviri erano tutti in subbuglio: tutti, meno l’Imperatrice Madre. Tante notizie come quella segnavano la sua vita; una vittoria in più, un imperatore in meno, un’altra alleanza familiare tra i vincitori, un altro matrimonio senza amore; tante volte aveva visto lo spartirsi delle sfere d’influenza, l’inizio di un’altra breve era di complotti e spionaggio; cose che andavano e venivano nelle loro orbite eccentriche.
L’Editto di Milano, che concedeva tolleranza alla Chiesa, fu promulgato a Treviri. «Come mai tanta euforia?» disse Elena. «È dai tempi di mio marito che nessuno dà fastidio ai cristiani. Sono settimane, Lattanzio, che vai in giro come se avessi avuto una visione. Tu, uno storico che pensa in termini di secoli?». «Da storico, signora, io penso che stiamo vivendo un’epoca unica. Forse un giorno o l’altro questa scaramuccia al Ponte Milvio sarà messa sullo stesso piano delle Termopili e di Azio». «Per via dei pretoriani? Non posso fare a meno di compatirli, sai, anche se erano dalla parte sbagliata. Non li ho mai visti sfilare in pompa magna. Una volta lo desideravo tanto». «Sono almeno cent’anni, signora, che la guardia pretoriana non significa nulla».
«Lattanzio, sto solo scherzando. Certo che lo so perché siete tutti così eccitati. Ti dirò che sono un po’ perplessa anch’io. E per quel che dicono in giro, che anche mio figlio si è fatto cristiano. È vero?». «Non esattamente, signora, per quel che posso capire. Ma si è messo sotto la protezione di Cristo». «Perché nessuno mi dice le cose in parole povere? Sono troppo stupida? In vita mia non ho mai chiesto altro che risposte chiare a domande chiare; e mai che ne ottenga. C’era o non c’era una croce in cielo? L’ha vista mio figlio? Come c’è arrivata? Se c’era e se lui l’ha vista, come ha fatto a capire cosa significava? Non pretendo di sapere molto sugli auspici ma non riesco a immaginare un peggior segno di malaugurio. Io voglio solo la verità. Perché non mi rispondi?».
Dopo un silenzio Lattanzio disse: «Forse perché ho letto troppo. Non sono la persona adatta per delle domande semplici e dirette. Non so come rispondere. C’è chi sa farlo, quel tipo di gente che è rimasta là in Oriente. Starà uscendo di prigione ora, chi è sopravvissuto. Quelli potranno rispondervi, ma dubito che anche loro siano semplici e chiari proprio come vorreste voi. Ecco tutto quanto posso dire: potrebbe essere successo proprio come dice la gente. Ne succedono, di queste cose. Tutti abbiamo la possibilità di scegliere la Verità, e immagino che agli imperatori certe volte sia concesso di farlo in maniera più spettacolare che alla gente qualunque. Tutto quanto sappiamo è che l’Imperatore si sta comportando come se avesse avuto una visione. Come sapete, ha fatto uscirela Chiesa allo scoperto».
«A fianco di Giove e Iside e Venere Frigia». «Il cristianesimo non è una religione di quel tipo, signora. Non può spartire niente con nessun altro. Una volta libera, conquisterà». «Allora forse le persecuzioni avevano un senso». «Il sangue dei martiri è il seme della Chiesa». «Allora comunque vada per voi va sempre bene». «Comunque vada, sì. Così ci è stato promesso, signora».
«Succede sempre così, Lattanzio, quando parliamo di religione. Non mi rispondi mai del tutto a tono, però mi lasci sempre con l’impressione che, in certo qual modo, la risposta sia sempre lì a portata di mano, se solo ci si desse un po’ più da fare per trovarla. Tutto pare logico fino a un certo punto, e poi ancora oltre quel punto. Eppure non si riesce a oltrepassare il punto... Be’, io sono vecchia ormai, troppo vecchia per cambiare».
Ma quella eccezionale marea primaverile non permetteva a nessuno di sottrarsi al cambiamento, nemmeno in una città così perbene come Treviri, nemmeno a Elena, che viveva così ritirata. L’immenso tedio che, emanando dal suo fulcro morto nel cuore di Diocleziano, aveva impregnato il mondo di follia, era finito come una pestilenza. Dappertutto, nelle fessure fra le pietre e nei solchi, spuntava, sbocciava e s’intrecciava la verzura di una vita nuova. In quell’aurora, pensava Lattanzio, era un paradiso esser vecchi; esser vissuti di una speranza che era una sfida alla ragione; o, piuttosto, che esisteva solo nella ragione e negli affetti, del tutto scissa dall’esperienza ordinaria e dai calcoli; vedere quella speranza prendere forma concreta e familiare sotto i tuoi occhi, da tutte le parti, come se una nebbia, levandosi, rivelasse improvvisamente alla ciurma di una nave che, non certo grazie alla propria destrezza, è arrivata sana e salva in porto; intravedere per un attimo l’unità essenziale in una vita che era sembrata puro mutamento: questo, pensava Lattanzio, era qualcosa di equiparabile al tripudio della Pentecoste; qualcosa in cui davvero si celebravano regalmente Natale, Pasqua e Pentecoste.
Nessuno meglio di lui avrebbe dovuto comprendere quello che gli succedeva intorno, ma lui si sentiva senza fiato, superato, privato di tutto il suo ricco patrimonio verbale, con in mente solo le frasi fatte dei panegirici di corte. Gli eventi non andavano più al solito monotono passo umano. C’era dappertutto una sproporzione fra causa ed effetto, fra impulso e movimento, tra i quali scattava uno slancio, un’accelerazione incalcolabile.
In sogno un uomo può spronare il cavallo a saltare un ostacolo altissimo e, senza pensarci su, mettere le ali e superarlo a volo, o cercare di smuovere un macigno e sentirselo in mano lieve come piuma. Lattanzio non aveva mai imparato a dominare le proprie simpatie come prescrivevano i critici. Che altro poteva fare ora se non accettare il mistero e glorificarne la causa prossima, il lontano, ambiguo imperatore?
Sul piano della storia documentata Costantino non aveva fatto gran che. In quasi tutto l’Occidente l’Editto di Milano si limitò a regolarizzare l’esistente; in Oriente esso significò una tregua precaria, ben presto rinnegata.
La Deità Suprema riconosciuta da Costantino era tutt’altra cosa che la Trinità dei cristiani; il Labaro riproduceva la croce dei martiri secondo uno stile prettamente araldico. Era una cosa molto sfumata, evidentemente intesa a soddisfare i più; l’idea azzeccata di uno troppo occupato per stillarsi il cervello su minuzie e sottigliezze. Costantino aveva stretto un patto con un nuovo alleato le cui forze erano ignote, accantonando un problema. Così la pensavano gli strateghi d’Oriente, usi a calcolare l’ordine della battaglia legione per legione, granaio per granaio; così, forse, la pensava anche Costantino.
Ma mentre la notizia si diffondeva dappertutto fra i cristiani, su ogni altare si concentrò e si levò un gran vento di preghiera, che sollevò tutta la fumosa tozza cupola del Mondo Antico e la fece volar via come il tetto di paglia di una stalla, scoprendo all’occhio la vista placida e brillante di spazi sconfinati.
3/ La visione raffigurata
Nella primavera del 312 Costantino invase l’Italia settentrionale e in breve se ne impadronì; arrivato in autunno alle porte di Roma, il 28 ottobre sconfisse nei pressi di ponte Milvio il rivale, che morì nello scontro annegando nel Tevere, e restò così unico signore dell’Occidente.
È a ridosso di questa battaglia decisiva che le fonti cristiane — ancora Lattanzio ed Eusebio di Cesarea, entrambi vicini all’imperatore — collocano una visione, con qualche differenza tra loro: notturna o diurna, ricevuta dal sovrano durante il sonno prima dello scontro, o qualche tempo prima nello splendore del meriggio e alla presenza delle sue truppe in marcia e poi confermata da un sogno, questa indicava un simbolo cristiano da innalzare come segno distintivo e in nome del quale Costantino avrebbe ricevuto la vittoria.
Si trattava con ogni probabilità del monogramma di Cristo, formato dalle due prime lettere greche del nome (la chi e la rho sovrapposte), riprodotto sullo stendardo imperiale (labarum) e presto entrato nella monetazione, quindi destinato a una fortuna simbolica fuori del comune al pari di quella iconografica dell’episodio, entrato nell’immaginario collettivo cristiano e raffigurato variamente: così Piero della Francesca, nel suggestivo affresco di San Francesco ad Arezzo, rappresenta la visione notturna secondo Lattanzio, mentre in Vaticano la rappresentazione raffaellesca della battaglia — nel cui cielo brilla la croce con la scritta greca en tùto nìka («con questo vinci») — e la statua equestre berniniana dell’imperatore, sul cavallo che s’impenna davanti al prodigio, seguono entrambe la versione «diurna» di Eusebio.