«Una fatwah del 2009 ha vietato le sale cinematografiche. Cosi, per vedere un film, i sudditi della monarchia saudita viaggiano in massa». I carbonari del cinema saudita con la cinepresa sotto la tunica", di Fabio Sindici
Riprendiamo da La stampa del 28/10/2012 un articolo scritto da Fabio Sindici. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (30/10/2012)
Girare un film con una videocamera nascosta tra le pieghe dell'abaya, il lungo mantello nero che copre integralmente il corpo delle donne arabe, può essere doppiamente pericoloso nel regno di Abdullah al Saud. In Arabia Saudita, infatti, i cinema sono banditi dalla seconda metà degli anni '70, dopo l'assassinio dell'allora re Feisal, molto criticato per aver introdotto la televisione.
Gli sceicchi più intransigenti ritengono la settima arte un'offesa alla morale islamica. Se poi a riprendere le immagini è una donna, con l'intento di denunciare la condizione femminile stretta tra la sharia, la legge islamica, e le rigide regole delle tradizioni tribali, l'intervento della mutaween, la polizia religiosa, è scontato. Sempre che la cineasta ribelle venga colta in flagrante.
Un film in soggettiva - la vita quotidiana nel paese saudita vista dagli occhi di una donna attraverso la fessura del niqab - è uno dei progetti di Red Wax Secret Cinema, piccola carboneria cinefila composta da quattro uomini e una donna, tutti entusiasti e pronti a rischiare la prigione per la riapertura delle sale cinematografiche del regno. Il nome si riferisce alla ceralacca dei sigilli anti-cinema, ma pure a una qualità locale di hashish.
Il loro primo exploit è stata una proiezione clandestina in un magazzino della città di Abbha, nel sud-est del paese. Gli spettatori erano circa sessanta, avvertiti via sms o chiamati direttamente al telefono dagli organizzatori. Hanno tutti parcheggiato lontano, per evitare sospetti. Il film, un documentario sulle vite degli immigrati stranieri impiegati come operai in un grande progetto edilizio, è stato proiettato su un lenzuolo steso. «Eravamo tutti molto nervosi», ha detto il regista del film, uno dei fondatori della Red Wax, intervistato dal quotidiano inglese The Guardian. «Non avevamo nessun piano, nel caso la polizia avesse fatto irruzione. Probabilmente saremmo finiti in prigione».
Le rivoluzioni, anche quelle gentili, comportano dei rischi. Ma i «rivoluzionari» della Red Wax sono sicuri dell'appoggio popolare e contano sulle divisioni all'interno delle gerarchie saudite. Nel 2008, il principe Walid bin Talal, nipote del re, ha prodotto la commedia «Menahi», la prima pellicola in trent'anni a cui il pubblico ha avuto accesso. Limitato però. La programmazione, a Jeddah e nella vicina Talif, è durata solo una settimana. Prima c'era stato il Saudi Film Festival di Damman, anche questo di vita breve, dopo le proteste dell'ala più radicale del clero wahabita, interprete di una versione letterale e conservatrice del Corano.
Una fatwah del 2009 aveva portato al divieto esplicito del governo alla costruzione di sale cinematografiche. Cosi, per vedere un film, i sudditi della monarchia saudita viaggiano in massa. Secondo dati delle autorità di Ryad, la capitale, sono più di 230 mila i cittadini sauditi che ogni anno attraversano il confine con gli Emirati per entrare in un cinema. Questi turisti cinefili vedono un film al giorno prima di tornare a casa.
Proprio un documentario, «Cinema 500 km» racconta il lungo viaggio di un ventenne fino in Bahrein per vedere il suo primo film. Abdullah al Eyaf; il regista, sostiene che un gestore di cinema del Bahrein gli ha assicurato che il novanta per cento dei suoi spettatori sono sauditi.
Al Eyaf, che ha diretto quattro film che hanno fatto il giro dei festival cinematografici del globo, non ha mai potuto vederne uno proiettato in patria. Oltre a viaggiare i sauditi scaricano una quantità impressionante di film da Internet o li vedono sulla tv satellitare.
Molti registi mettono i loro cortometraggi di denuncia su Youtube, visualizzati milioni di volte. Anche dalla polizia, che lo scorso anno ha rintracciato e arrestato un video blogger, autore di un corto sui poveri di Ryad. «Su Youtube, la pagina può essere facilmente bloccata» dicono i registi della Red Wax. «Meglio le proiezioni clandestine per rispondere alla voglia di cinema del paese».
I cine-carbonari pensano a proiezioni con centinaia di spettatori, uomini e donne, a Ryad e a Jedda, le città principali, tramite appuntamenti postati sui social network. In modo da creare un movimento d'opinione. I loro sono film socialmente impegnati: un altro progetto è centrato sul ricorso frequente degli arabi alla stregoneria. E anche qui il rischio si moltiplica, visto che per chi la pratica la pena prevista è la decapitazione.
Per chi la riprende la punizione non è altrettanto chiara. «Non esiste nel Corano o negli hadith, nulla che possa essere visto come una proibizione, anche indiretta, del cinema» spiega un altro dei membri della Red Wax. «Solo che per i radicali ogni cosa che non è menzionata nei testi sacri è proibita». L'interpretazione dipende anche dalle diverse zone del paese: Jedda è più liberale, Ryad, roccaforte della dinastia Saud, è molto tradizionale. Cosi la regista segreta sarà accompagnata, come vuole la regola, da un parente maschio, anche questo cinefilo. E sarà, per ironia, proprio la veste più tradizionale, l'abaya con il niqab a coprire il volto, ad aiutarla a nascondere la videocamera dagli sguardi indiscreti, tra un ciak e l'altro.