Il Concilio Vaticano II. Un'introduzione alla Dei Verbum, file audio di una relazione di Andrea Lonardo tenuta nella basilica di San Paolo fuori le Mura

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 25 /10 /2012 - 22:49 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione il file audio della prima delle quattro relazioni sul Concilio Vaticano II pensate per i catechisti della diocesi di Roma, dal titolo "Un'introduzione alla Dei Verbum", tenuta da Andrea Lonardo nella basilica di San Paolo fuori le Mura il 20/10/2012. Per il programma delle relazioni successive, vedi l'Homepage del sito Gli scritti. Per le relazioni successive vai ai link Un'introduzione alla Sacrosanctum Concilium e Un'introduzione alla Gaudium et spes.

Il Centro culturale Gli scritti (28/10/2012)

Registrazione audio

Download deiverbum.mp3.

Riproducendo "deiverbum".



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Ufficio catechistico di Roma
www.ucroma.it
(cfr. anche www.gliscritti.it )

San Paolo fuori le Mura. Credo perché Dio si è rivelato in Cristo: la Dei Verbum

Appuntamenti dell’anno

Mandato diocesano ai catechisti

Sabato 27 ottobre 2012, ore 18.00, basilica di San Paolo fuori le Mura
Padre Raniero Cantalamessa presenta ai catechisti di Roma il Catechismo della Chiesa Cattolica nell’Anno della fede. S.E. il Cardinale Agostino Vallini conferisce il mandato ai catechisti 

Incontri formativi per tutte le prefettura

La diocesi propone a tutti i catechisti della pastorale pre e post-battesimale uno stage di formazione sugli itinerari di catechesi rivolti alle famiglie che battezzano i bambini, a partire dal Sussidio di pastorale battesimale che sarà disponibile entro la fine di luglio.
Gli stages saranno organizzati dalle prefetture in collaborazione con l’Ufficio catechistico e l’Ufficio liturgico. 

La diocesi propone, inoltre, a tutti i catechisti tre incontri di formazione in occasione dell’Anno della fede.
Gli incontri saranno organizzati dalle diverse prefetture ed avranno per tema:
- Credo in Dio Padre creatore onnipotente: parlare oggi della creazione.
- Credo in Gesù Cristo unico Figlio: la rivelazione del volto di Dio ed il Credo.
- Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita: le quattro dimensioni dell’esistenza cristiana (fede confessata, celebrata, vissuta e pregata) ed il Catechismo della Chiesa Cattolica. 

Itinerari di formazione e spiritualità

Siena: il Credo nell’arte. Giornata di studi, sabato 3 novembre. Occorre prenotarsi presso l’Ufficio catechistico per organizzarsi con il pullman (circa 25 euro più gli ingressi). Partenza alle 7.30 dal Seminario Minore, via Aurelia 208, pranzo al sacco, rientro per le 19.30.

Viaggio di studio in Terra Santa – 20-28 luglio 2013.

Anno della fede. La catechesi e il Concilio Vaticano II

Sabato 10 novembre 2012 – ore 9.45-12.00
Santi Michele e Magno: Credo perché Cristo è presente nei santi segni: la Sacrosanctum Concilium. 

Sabato 15 dicembre 2012 – ore 9.45-12.00
San Giovanni a Porta Latina: Credo perché l’uomo è stato creato da Dio a sua immagine: la Gaudium et spes. 

Sabato 19 gennaio 2013 – ore 9.45-12.00
Palazzo Lateranense (Sala della Conciliazione): Credo perché la Chiesa è sacramento universale di salvezza: la Lumen gentium.

Corso sulla storia della Chiesa di Roma (VI anno): il Concilio di Trento e la controriforma

Sabato 23 febbraio 2013 – ore 9.45-12.00
Santa Maria in Vallicella: San Filippo Neri. 

Sabato 23 marzo 2013 – ore 9.45-12.00
San Girolamo dei Croati a Ripetta: Il Concilio di Trento. 

Sabato 11 maggio 2013 – ore 9.45-12.00
San Lorenzo in Panisperna: Il Catechismo Romano ed i Catechismi di Lutero e Calvino. 

Anno costantiniano

Lunedì 8 aprile 2013 – ore 21.00-22.30
Santa Maria degli Angeli e dei Martiri: Diocleziano e le persecuzioni dei primi secoli. 

Lunedì 15 aprile 2013 – ore 21.00-22.30
Sant’Agnese fuori le Mura: l’avvento di Costantino e l’editto di Milano. 

Lunedì 22 aprile 2013 – ore 21.00-22.30
Santa Croce in Gerusalemme: Costantino, la chiesa e la teologia. 

Lunedì 29 aprile 2013 – ore 21.00-22.30
Santi Quattro Coronati: il potere temporale del vescovo di Roma. 

In data da stabilire sarà proposta anche la visita agli scavi della basilica di San Giovanni in Laterano.

Eventi

Pascal 350 anni dopo
Lunedì 26 novembre 2012 – ore 21.00-22.30
Sant’Andrea al Quirinale. 

Una Bibbia da amare – La Genesi ed i Racconti della creazione
Venerdì 8 marzo 2013 – ore 21.00-22.30
Sabato 9 marzo 2013 – ore 10.00-12.30

La Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla Divina Rivelazione del Concilio Vaticano II,
18 novembre 1965

Premessa/ In questo luogo Giovanni XXIII dette l’anunzio del Concilio Vaticano II

1/ Piacque a Dio rivelare se stesso: il Verbum Dei, la Parola di Dio è il Figlio, è Gesù Cristo

Dei Verbum 2. Natura e oggetto della Rivelazione
2. Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona (Seipsum revelare) e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione.

da Romano Penna, Dialettica tra ricerca e scoperta di Dio nell’epistolario paolino, in Penna Romano, L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pp
. 593; p. 612; 628-629, (articolo in cui il prof. Penna si sofferma su 1 Cor 1,20, Dov’è il ricercatore di questo mondo?, e su Rm 10,20=Is 65,1, Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano)
Nell’epistolario, il vocabolario di ricerca (ζητεω, επιζητεω, εκζητεω, συζητεω, ζητησις) non presenta mai «Dio» come oggetto dell’azione di ricerca; anzi, quando i due termini sono accostati è per negare esplicitamente la possibilità o almeno la fruttuosità di una tale ricerca. Certo, il concetto viene espresso pure con un altro e abbondante lessico del ricercare, ma esso riguarda normalmente non più il Dio «naturale», bensì quello «rivelato», «cristiano»; allora, la ricerca qualifica lo stato postbattesimale e pistico del cristiano. La stessa osservazione vale analogamente per il correlativo vocabolario del ritrovamento (ευρισκω, καταλαμβανω, επιτυγχανω ecc.). [...]
La ricerca di Dio, che pur è una dimensione connaturale all’uomo, fallisce il risultato perché, imprevedibilmente, lo specifico Dio cristiano si colloca al di fuori della sua prospettiva (cfr. Rom 9,16). Egli viene scoperto solo per autorivelazione, non per ricerca. La sua attingibilità è essa stessa un fatto gratuito. [...]
Nelle lettere paoline ricorre sette volte questa formula [εις αυτον; ad es. «per lui sono tutte le cose» e «noi siamo per lui»] [...] Lo εις αυτον afferma che l’autorivelazione di Dio presuppone e si innesta proprio su quella nativa capacità, anche se essa da sola resta improduttiva.
Veniamo pertanto a costatare, nel pensiero dell’Apostolo, l’esistenza di un’originale dialettica tra ricerca e scoperta; essa si configura come segue.
Il primo momento che è dato rilevare consiste nello sforzo umano, apparentemente autonomo, di porsi alla ricerca di Dio, della sua natura o della sua volontà; tale movimento, però, si svolge in termini inadeguati rispetto alla «sapienza di Dio misteriosa, nascosta, da lui predeterminata prima dei secoli» (1Cor 2,7); quindi, anche ciò che viene trovato risulta inadeguato sia ai progetti di Dio sia alla vera liberazione dell’uomo.
Il secondo momento (logico, ma anche cronologico) consiste in una autonoma autorivelazione di Dio, il quale, con una insospettata proposta non solo di se stesso quanto anche del proprio piano salvifico (incentrato sulla giustificazione dell’empio mediante la fede nella fecondità del sangue di Cristo), supera e sconfigge l’a priori della ricerca umana facendosi vedere ben più grande dei suoi presupposti e delle sue possibilità sia intellettuali che ascetiche; Dio diventa così, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata (cfr. Rom 10,20).
A un dono siffatto, tuttavia, come terzo momento, consegue non la stasi soddisfatta di chi può cullarsi nella contemplazione passiva di un possesso ormai tranquillamente padroneggiato. La ricerca, infatti, non è interrotta, ma solo prosegue in termini nuovi: davanti al cristiano stanno pur sempre «le profondità di Dio», che il Pneuma battesimale aiuta a indagare (1Cor 2,9-10), con una preoccupazione non di fuga ma di inserzione delle «cose di lassù» nella comune cornice della vita quotidiana (Col 3,1 e contesto). Ogni momento dell’esistenza cristiana, in questo modo, può rappresentare una possibilità di accesso al Dio che, mediante Cristo e nello Spirito, ha sconvolto i nostri modi naturali di tensione verso di lui soltanto per venirci incontro nella sua vera identità di Salvatore storico e gratuito, quale l’uomo da solo avrebbe fallito. Potremmo dire, in un certo senso, che il nativo εις αυτον si tramuta semplicemente nel più preciso e biblico προς τον θεον.
Ma rimane ancora sempre una scoperta da fare, poiché Dio (non solo il Dio naturale ma anche e ancor più il Dio cristiano) è «insondabile e ininvestigabile» (Rom 11,33). Si giustifica quindi ogni cammino anche a tentoni della fede stessa: credere, infatti, tutt’altro che disporre boriosamente di Dio, significa solo collocarsi con umiltà nell’onda del suo mistero. Non per nulla, l’autore paolino di Ef prega «affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi conceda uno Spirito di sapienza e di illuminazione per conoscere… quale sia la traboccante grandezza della sua potenza verso di noi credenti» (1,17.19; cfr. 3,18).

cfr. il “mysterion” in Paolo: 1Cor 2,1.7; Rom 16,25; Col 1,26.27; 2,2; 4,3; Ef 1,9; 3,3.4.9; 5,32; 6,19

cfr. l’inserzione all’inizio del CCC dell’uomo “capax Dei”

CCC 27-29
L'uomo è “capace” di Dio
27 Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l'uomo e soltanto in Dio l'uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa.
La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio
. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 19].
28 Nel corso della loro storia, e fino ai giorni nostri, gli uomini in molteplici modi hanno espresso la loro ricerca di Dio attraverso le loro credenze ed i loro comportamenti religiosi (preghiere, sacrifici, culti, meditazioni, ecc). Malgrado le ambiguità che possono presentare, tali forme d'espressione sono così universali che l'uomo può essere definito un essere religioso:
Dio creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17,26-28).
29 Ma questo “intimo e vitale legame con Dio” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 19] può essere dimenticato, misconosciuto e perfino esplicitamente rifiutato dall'uomo. Tali atteggiamenti possono avere origini assai diverse: [Cf. ibid., 19-21] la ribellione contro la presenza del male nel mondo, l'ignoranza o l'indifferenza religiosa, le preoccupazioni del mondo e delle ricchezze, [Cf Mt 13,22 ] il cattivo esempio dei credenti, le correnti di pensiero ostili alla religione, e infine la tendenza dell'uomo peccatore a nascondersi, per paura, davanti a Dio [Cf. Gen 3,8-10 ] e a fuggire davanti alla sua chiamata [Cf. Gn 1,3 ].

da J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pp. 32-47
Il panorama della storia delle religioni ci pone di fronte soprattutto a una scelta di fonda tra due vie che io [...] – abbastanza inadeguatamente – avevo designato coi termini “mistica” e “monoteismo”. Oggi invece parlerei piuttosto di “mistica dell’in-distinzione” e di “comprensione di Dio come persona”. In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia “Dio”, qualcuno che ci sta di fronte – così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità (“Dio tutto in tutti”, 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell’ “io” e del “tu” – o se il divino stia al di là della persona e il fine dell’uomo sia l’unirsi a e il dissolversi nell’Uno-tutto... [...]
Nell’ultimo stadio di [alcune esperienze orientali invece], il “mistico” [N.d.C. nel senso critico precedentemente esposto] non dirà più al suo Dio: “io sono tuo”, ma la sua formula sarà: “io sono Te”. La distinzione è relegata nella sfera del provvisorio, lo stadio definitivo è la fusione, l’unità. “Il monismo assoluto è il compimento del dualismo, con il quale inizia la coscienza devota”, dice Radhakrishnan. Quest’esperienza interiore di in-distinzione, in cui ogni separazione affonda e diventa velo irreale che cela l’unità col fondamento di tutte le cose, è poi il motivo della conseguente teologia dell’in-distinzione... nella quale tutte le diverse religioni, appunto perché sono diverse, vengono assegnate al mondo del provvisorio, in cui la parvenza della separazione copre ancora il mistero dell’in-distinzione. L’equiparazione di tutte le religioni, che riscuote tanta simpatia presso l’uomo occidentale contemporaneo, svela qui il suo presupposto dogmatico consistente nell’asserita identità di Dio e del mondo, del fondo dell’anima e della divinità. Al tempo stesso risulta chiaro perché, per la religiosità asiatica, la persona non sia un che di ultimo e perciò Dio stesso non sia concepito come persona: la persona, l’ “io” e il “tu” contrapposti, appartiene al mondo della separazione; anche il confine che distingue l’ “io e il “tu” sprofonda, si rivela provvisorio nell’esperienza che fa il mistico dell’Uno-tutto.

da A. Lonardo, Il Catechismo della Chiesa Cattolica per imparare “la forza e la bellezza della fede”, in M. Cozzoli (ed.) Pensare, professare, vivere la fede, LUP, Roma, 2012, pp. 476-477.
La presentazione abituale della rivelazione, prima della redazione della Dei Verbum, insisteva sulla comunicazione da parte di Dio di una serie di verità «soprannaturali»
[1]. L’accento era poi posto sulla pluralità di queste affermazioni dogmatiche e sul loro valore oggettivo. La Dei Verbum, invece, scelse di privilegiare un approccio molto diverso, sottolineando che nella rivelazione Dio svelava il suo proprio “mistero”: «piacque a Dio rivelare se stesso». Il testo latino della Dei Verbum afferma testualmente placuit Deo Seispsum revelare[2]. Dio, cioè, non dava a conoscere delle verità astratte, bensì se stesso.
Con questa affermazione è detta immediatamente la libertà di Dio. Il verbo piacque lo sottolinea in maniera straordinaria: la rivelazione avviene per il “piacere” di Dio, per il suo godimento. Dio si rivela perché Egli, nel suo amore e nella sua saggezza, gode nel farsi conoscere. Egli non è una divinità impersonale, che agisce per necessità, guidato da ferree leggi che lo costringono. Egli non è semplicemente il Tutto – secondo una visione che potrebbe essere accolta da molte visioni religiose dell’estremo oriente abituate ad un Dio che non ha né passione, né libertà –  perché sostanzialmente identico con la natura o con lo spirito. No, Dio desidera farsi conoscere, Dio desidera essere amato.

da H. de Lubac – E. Cattaneo, La Costituzione «Dei Verbum» vent’anni dopo, in «Rassegna di teologia», 26 (1985), p. 394
«Il Concilio, a proposito della rivelazione, non sostituisce semplicemente un’idea fatta di verità astratte e atemporali con l’idea dello sviluppo di una storia della salvezza. Ciò che afferma è l’idea di una verità concreta al massimo: l’idea della Verità personale, apparsa nella storia, operante nella storia, nella persona di Gesù di Nazaret, “pienezza della rivelazione”».

Tintoretto, Gesù tra i dottori, 1542 circa, Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano.

da H. de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, I, Paoline, Roma 1972, pp. 344; 353-354
[Cristo,] sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, “brevissimum”, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia
. [...] Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è la “religione biblica”: è la religione di Gesù Cristo”.

da H. de Lubac, Les responsabilités doctrinales des catholiques dans le monde d’aujourd’hui, in Paradoxe et mystère de l’Église, Cerf, Paris, 2010, p. 265. La traduzione è nostra.
È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano.

da F. Varillon, Beauté du monde et souffrance des hommes: entretiens avec Charles Ehlinger, Le Centurion, Paris 1980, p. 115.
La divinizzazione della persona non è possibile che tramite l’Incarnazione, e l’Incarnazione non è possibile se Dio non è Trinità. Tutto il resto, in un modo o nell’altro, deve ricondursi a questo. Dunque che si parli di peccato o di virtù cristiane, che si commenti questa o quella scena dell’Evangelo, questo essenziale è sempre sullo sfondo.

2. La storia della salvezza e la definitività della rivelazione in Cristo

Dei verbum 3. Preparazione della Rivelazione evangelica
Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20); inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo.

Dei Verbum 4. Cristo completa la Rivelazione
Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio
«alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2
). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini », « parla le parole di Dio » (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13).

dalla relazione Gesù di Nazaret: realtà storica e potenza salvifica. Un approccio teologico al libro di Benedetto XVI , di S.Em. il cardinal Camillo Ruini al Clero della Diocesi di Roma, tenuta presso la Pontificia Università Lateranense, il 6 dicembre 2007
Termino con una considerazione più personale, che riguarda i rapporti tra la nostra conoscenza di Gesù e la nostra conoscenza di Dio. Nella relazione dello scorso anno (N.d.R. Relazione al clero di Roma), dedicata alle strutture del pensiero di Benedetto XVI, osservavo che, in concreto, la via che conduce a Dio è Gesù Cristo: soltanto in lui infatti possiamo conoscere il volto di Dio, il suo atteggiamento verso di noi e il mistero della sua vita intima, e soltanto nella croce del Figlio – manifestazione radicale ed estrema dell’amore di Dio per noi – può trovare una risposta, misteriosa ma convincente, il problema del male e della sofferenza, che è la fonte del dubbio più grave circa l’esistenza di Dio. Vorrei ora percorrere, per così dire, la strada inversa, mostrando che per conoscere davvero Gesù Cristo è necessario fare spazio a Dio. Se infatti Dio non c’è, o comunque non può agire nella storia e manifestarsi personalmente a noi, il Gesù dei Vangeli, in concreto il Gesù reale e storico, perde consistenza e svanisce inevitabilmente: non solo non potrebbe aver operato dei miracoli e tanto meno essere risorto dai morti, ma il suo stesso rapporto intimo, anzi unico con Dio e il suo porsi come colui nel quale si incontra Dio potrebbero essere al massimo una nobile illusione.

3. La fede è risposta e grazia (oggettiva e soggettiva)

Dei Verbum 5. Accogliere la Rivelazione con fede
A Dio che rivela è dovuta «l'obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l'uomo gli si abbandona tutt'intero e liberamente prestandogli «il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà» e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia «a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità». Affinché poi l' intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni.

da «Si dimenticò la brocca»: la donna samaritana incontra Gesù al pozzo, di Bruno Maggioni (su www.gliscritti.it)
Se parti dall'inquietudine dell'uomo non vai lontano; alcuni sono inquieti, alcuni non lo sono, (magari ti dicono che lo saranno nella terza età...). Non è questo il punto, secondo me. Il punto è presentare Gesù Cristo, attirare l'attenzione su di Lui. Non è detto che affascini tutti, lo so benissimo, ma è come quando uno è abituato alla cattiva musica e gli fate sentire della bella musica: c'è caso che vi dica "Non mi piace più quella di prima", proprio perché ha scoperto qualcosa di nuovo, qualcosa di più bello.
Un esempio che racconto sempre, (perché mi sembra così vivo e così comune), è quello dei due ragazzi che si sposano e che, come spesso accade, vogliono aspettare ad avere un figlio per prima pagare il mutuo (i bambini oggi son tutti figli del dopo mutuo!); se però per caso "scappa" un bambino (e i due ragazzi brontolano, perché è un problema, perché cambia tutti i loro progetti, ecc ecc), quando poi il bambino è nato son lì tutti e due che gli muoiono addosso, incantati, "...ma come facevamo a vivere prima, senza questo bambino!". Ma lo dicono adesso, perché hanno avuto l'incontro, prima vivevano benissimo! Questo mi pare davvero il succo, il succo di tutto.
Ecco perché io non parto più dalle domande dell'uomo. Certo, cerco di utilizzarle, là dove c'è un uomo che ha domande o comunque dove sospetto che ci siano domande; però parto dall'annuncio di Gesù Cristo, sperando di riuscire a comunicarne il fascino, la bellezza, sperando che sia Lui poi a far sorgere le domande importanti.
È Gesù Cristo che crea le domande, che fa nascere il desiderio. Non sempre, guardando dentro di te, cogli questo desiderio, può essere tacitato per tanti motivi... Non possiamo partire solo da quello.

cfr. in Hans Urs von Balthasar l’amore come miracolo e l’estetica musicale

4. La Parola di Dio nella Tradizione e nella Scrittura

CAPITOLO II. LA TRASMISSIONE DELLA DIVINA RIVELAZIONE
Dei Verbum 7. Gli apostoli e i loro successori, missionari del Vangelo
Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello Spirito Santo, quanto da quegli apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza.
Gli apostoli poi, affinché l'Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi, ad essi «affidando il loro proprio posto di maestri». Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com'egli è (cfr. 1 Gv 3,2).

La sacra tradizione
8. Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi. Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto, ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce che per iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per sempre. Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.
Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio.
Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega. È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).

Relazioni tra la Scrittura e la Tradizione
9. La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio (locutio Dei) in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio (Verbum Dei) affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza.

Relazioni della Tradizione e della Scrittura con tutta la chiesa e con il magistero
10. La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa; nell'adesione ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera assiduamente nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle orazioni (cfr. At 2,42 gr.), in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, si stabilisca tra pastori e fedeli una singolare unità di spirito.
L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio.
È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime.

da Umberto Betti, La trasmissione della divina rivelazione, in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, LDC, Torino-Leumann, 1967, pp. 219-262, le pp. 250-255 scritte a commento dei paragrafi della Dei Verbum che trattano del rapporto fra Scrittura e tradizione.
(p. 234)
A differenza della Scrittura, la predicazione viva traduce in pratica quanto annunzia e ne attualizza, per quanto possibile, la realtà intera. Una cosa, per esempio, è raccontare l’istituzione e la celebrazione dell’eucarestia; altra cosa è celebrarla e parteciparne. Il racconto rimane sul piano storico e nozionale; la celebrazione ne dà esperienza spirituale e conferisce la grazia che salva. La trasmissione della predicazione apostolica al di fuori della Scrittura, come pure tutto ciò che ne è oggetto, si chiama Tradizione.
(pp. 250-255)
L’elemento fondamentale che la tradizione e la Scrittura hanno in comune è la stessa origine da Dio e lo stesso fine da lui assegnato a tutt’e due: quello di trasmettere la Rivelazione, cioè tutta l’economia della salvezza. Questa trasmissione però avviene in modo diverso, e quindi ha anche espressione diversa. La Scrittura, perché divinamente ispirata, è parola di Dio non solo quanto al contenuto, ma anche quanto alla sua espressione verbale. La Tradizione invece, pur contenendo ugualmente la parola di Dio, intesa nel senso più vasto di tutto ciò che proviene da lui in ordine alla salvezza, non è parola di Dio nelle sue manifestazioni: queste non sono divinamente ispirate, e quindi rimangono sempre semplicemente umane. [...] Rigettato ancora una volta il principio protestante della Scrittura sola, non contrappone ad esso il principio, divenuto comune nella teologia controriformista, della Tradizione sola, quasi che questa abbia in esclusiva la proprietà di trasmettere qualche verità rivelata. Nella linea dei precedenti documenti del magistero, esso afferma semplicemente che la Chiesa per entrare nella certezza di tutto il deposito rivelato ricorre né alla Scrittura soltanto né alla Tradizione soltanto, ma a tutt’e due insieme (4). Secondo i casi, ora l’una ora l’altra potrà offrire il criterio determinante di rivelazione di una data verità. [...] La Scrittura, appunto perché parola di Dio scritta, contiene la divina Rivelazione non altro che in forma di notizia; ciò comporta, per forza di cose, una certa parzialità. La Tradizione invece, per il fatto stesso che ne è trasmissione viva e concreta, la riproduce integralmente, nel senso che insieme alla notificazione verbale trasmette anche le realtà oggetto di quella notificazione. Perciò questa integralità del deposito rivelato, che nel senso ora spiegato è ad essa esclusiva, non indica necessariamente un apporto del tutto nuovo, cioè un’eccedenza numerica nei confronti di quello offerto dalla Scrittura. Si tratta piuttosto di gradazione diversa, in forza della quale le indicazioni soltanto verbali della Scrittura ricevono dimensione completa dalle realtà divine alle quali si riferiscono e che solo la Tradizione trasmette.
La Tradizione quindi si distingue dalla Scrittura non tanto per la maggiore quantità dell’oggetto trasmesso quanto per la più intensa espressione e rappresentazione del medesimo. Questo è il titolo sufficiente e necessario perché tutt’e due siano ugualmente impegnative per la fede, e debbano quindi essere accettate con pari sentimento di pietà ed uguale rispetto.

da J. Ratzinger, La mia vita San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pp. 72-74; 89-93
Avevo constatato che in Bonaventura (e, anzi, nei teologi del secolo XIII in generale) non c'era alcuna corrispondenza con il nostro concetto di «rivelazione», che eravamo soliti usare per definire l'insieme dei contenuti rivelati, tanto che anche nel lessico si era introdotta l'abitudine di definire la Sacra Scrittura semplicemente come la «rivelazione». Nel linguaggio medievale una tale identificazione sarebbe stata impensabile. In esso, infatti, la «rivelazione» è sempre un concetto di azione: il termine definisce l'atto con cui Dio si mostra, non il risultato oggettivizzato di questo atto. E dato che le cose stanno così, del concetto di «rivelazione» fa sempre parte anche il soggetto ricevente: dove nessuno percepisce la rivelazione, lì non è avvenuta nessuna rivelazione, dato che lì nulla è stato svelato. L'idea stessa di rivelazione implica un qualcuno che ne entri in possesso. Questi concetti, acquisiti grazie ai miei studi su Bonaventura, sono poi divenuti molto importanti per me, quando nel corso del dibattito conciliare vennero affrontati i temi della rivelazione, della Scrittura e della tradizione. Perché se le cose stanno come le ho descritte, allora la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplicemente identica a essa. Questo significa inoltre che la rivelazione è sempre più grande del solo scritto. Se ne deduce, di conseguenza, che non può esistere un mero «sola Scriptura» («solamente attraverso la Scrittura»), che alla Scrittura è legato il soggetto comprendente, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della tradizione. [...]
Determinante per la forma concreta che assunse questo dibattito [sulla rivelazione] si rivelò una presunta scoperta storica che il teologo di Tubinga, J. R. Geiselmann, riteneva di aver fatto negli anni Cinquanta. Negli atti del concilio di Trento egli aveva scoperto che, nell'elaborazione del decreto sulla tradizione, in un primo tempo era stata proposta una formula secondo cui la rivelazione sarebbe «in parte nella Scrittura, in parte nella tradizione». Nel testo finale, però, l'«in parte - in parte» fu evitato e sostituito da «e»: Scrittura e tradizione ci trasmettono insieme la rivelazione. Geiselmann ne deduceva che Trento aveva voluto insegnare che non esiste alcuna divisione dei contenuti della fede tra Scrittura e tradizione, ma che, piuttosto, ambedue - Scrittura e tradizione - contengono, ciascuna per conto proprio, il tutto, siano cioè in se stesse complete. Ora, però, in quel momento non interessava la presunta o reale completezza della tradizione; quel che interessava era l'affermazione che secondo la dottrina di Trento la Scrittura conteneva l'intero deposito della fede. Si parlava della «completezza materiale» della Bibbia nelle questioni di fede.
Questa formula, che ora girava dappertutto e che era considerata la nuova, grande scoperta, si svincolò ben presto dal suo punto di partenza, che era l'interpretazione del decreto tridentino. L'inevitabile conseguenza fu che si cominciò a ritenere che la Chiesa non potesse insegnare nulla che non fosse espressamente rintracciabile nella Sacra Scrittura, dato che quest'ultima contiene appunto in modo completo tutto ciò che riguarda la fede. E dato che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate, ciò significava che la Chiesa non poteva insegnare nulla che non reggesse alla prova del metodo storico-critico. Con ciò era ampiamente messo in ombra il principio luterano della «sola Scriptura», che era poi ciò di cui si era trattato a Trento. Infatti, questa nuova tendenza significava che nella Chiesa l'esegesi doveva diventare l'ultima istanza, ma, dato che per la stessa natura della ragione umana e della ricerca storica non può sussistere la piena unanimità tra gli esegeti di testi tanto difficili (poiché in gioco ci sono sempre delle opzioni pregiudiziali, siano esse conscie o inconscie), la conseguenza era che la fede doveva ritrarsi nell'indeterminatezza e nella continua mutabilità di ipotesi storiche o apparentemente tali: alla fine «credere» significava qualcosa come «ritenere», avere un'opinione soggetta a continue revisioni. Naturalmente il Concilio dovette opporsi a teorie così formulate, ma nell'opinione pubblica ecclesiale la parola d'ordine della «completezza materiale», con tutte le sue conseguenze, era ben più forte del testo finale del Concilio.
Il dramma dell'epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d'ordine e dalle sue conseguenze logiche. Personalmente avevo già avuto modo di conoscere le tesi di Geiselmann nell'aprile del 1956, durante il già citato convegno dogmatico di Königstein, in cui il professore di Tubinga presentò per la prima volta la sua presunta scoperta (che, peraltro, egli non estendeva fino alle conseguenze fin qui descritte, che si sono sviluppate in questi termini solo nella «propaganda conciliare»).
All'inizio ne fui affascinato, ma molto presto mi balzò agli occhi che il grande tema del rapporto tra Scrittura e tradizione non poteva essere risolto in maniera così semplice. In seguito ho io stesso minuziosamente studiato gli atti di Trento e ho potuto constatare che la variante redazionale, che Geiselmann considerava di importanza centrale, non era stata che un insignificante aspetto secondario nel dibattito tra i Padri conciliari
, che si spinse molto più a fondo per illuminare la questione fondamentale di come la rivelazione possa tradursi in parola umana e, quindi, in parola scritta. In questo fui aiutato dalle conoscenze acquisite con i miei studi sul concetto di rivelazione di Bonaventura. Trovai che l'orientamento di fondo dei Padri di Trento nel modo di pensare la rivelazione nella sostanza era rimasto lo stesso del tardo medioevo. Proprio a partire da queste acquisizioni, che ora non posso certo sviluppare oltre, le mie obiezioni nei confronti dello schema conciliare che ci era stato sottoposto erano di tutt'altra natura rispetto alle tesi sostenute da Geiselmann e alla loro grossolana volgarizzazione nell'eccitato clima conciliare. Tuttavia vorrei almeno accennare al suo aspetto essenziale: la rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l'uomo, il Suo venirgli incontro, è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura.
Come si è già visto a proposito dei miei lavori su Bonaventura, nel medioevo e a Trento sarebbe stato impossibile definire la Scrittura semplicemente come «la rivelazione», come invece oggi avviene nel linguaggio corrente. La Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di vivo, di più grande - perché sia tale essa deve giungere a destinazione e deve essere percepita, altrimenti essa non è divenuta «rivelazione». La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli. La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge. Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini, di unirli tra loro - per questo essa implica la Chiesa. Ma se si dà questa sporgenza della rivelazione rispetto alla Scrittura, allora l'ultima parola su di essa non può venire dall'analisi dei campioni minerali - il metodo storico-critico -, ma di essa fa parte l'organismo vitale della fede di tutti i secoli. Proprio questa sporgenza della rivelazione sulla Scrittura, che non può a sua volta essere espressa in un codice di formule, è quel che noi chiamiamo «tradizione». [...]
Dopo complesse discussioni, solo nell'ultima fase dei lavori conciliari si poté arrivare all'approvazione della Costituzione sulla parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno
. All'inizio si impose in pratica solo quello che era passato come la presunta novità nel modo di pensare questi argomenti da parte dei Padri. Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare.

da una lettera di J. R. R. Tolkien a Michael Tolkien in J. R. R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.442.
I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il rapporto diretto... la “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero. Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via. (Con trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal male.

5. L’ispirazione della Sacra Scrittura

CAPITOLO III. L'ISPIRAZIONE DIVINA E L'INTERPRETAZIONE DELLA SACRA SCRITTURA
Ispirazione e verità della Scrittura

Dei Verbum 11. Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte.
Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto «ogni Scrittura divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera buona» (2Tim 3,16-17).

Come deve essere interpretata la sacra Scrittura
12. Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole.
Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani.
Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio.

Unità dei due Testamenti
16. Dio dunque, il quale ha ispirato i libri dell'uno e dell'altro Testamento e ne è l'autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio fosse svelato nel Nuovo. Poiché, anche se Cristo ha fondato la Nuova Alleanza nel sangue suo (cfr. Lc 22,20; 1 Cor 11,25), tuttavia i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5,17; Lc 24,27), che essi a loro volta illuminano e spiegano.

6. L’apostolicità e la storicità dei Vangeli

CAPITOLO V. IL NUOVO TESTAMENTO
Origine apostolica dei Vangeli

Dei Verbum 18. A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica. Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni.

Carattere storico dei Vangeli
19. La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2). Gli apostoli poi, dopo l'Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano. E gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o già per iscritto, redigendo un riassunto di altre, o spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia alla testimonianza di coloro i quali «fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della parola», scrissero con l'intenzione di farci conoscere la «verità» (cfr. Lc 1,2-4) degli insegnamenti che abbiamo ricevuto.

dalla Lettera, firmata il 18 ottobre 1965, indirizzata a nome del Santo Padre Paolo VI, dal cardinal A. G. Cicognani, segretario di Stato, al cardinal A. Ottaviani, presidente della Commissione de doctrina fidei et morum del Concilio Ecumenico Vaticano II
Postremo, Beatissimus Pater aequum esse iudicat, a Commissione postulare ut verba (ad p. 33, lineam 19) ita ut semper vera et sincera… hisce, quae sequuntur verbis, mutentur: ita ut semper vera seu historica fide digna… Etenim in priore formula Evangeliorum historica fides non satis constare videtur; ideoque, ut patet, Sanctitas Sua in hoc doctrinae capite talem formulam probare nequit, quae historicam sanctissimorum illorum Librorum auctoritatem in dubio ponat.

L’origine apostolica dei vangeli e la loro storicità al Concilio Vaticano II, di don Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
«Immaginate in questa navata centrale della basilica di San Pietro le sessioni del Concilio Vaticano II e gli oltre 2500 vescovi seduti a destra ed a sinistra che nel 1965 approvano la Dei Verbum». Raramente le guide dei tanti pellegrini e turisti che giungono in Vaticano si soffermano a raccontare e far rivivere questi momenti decisivi. Il Vaticano I fu celebrato nel transetto destro della basilica, mentre il Vaticano II richiese l’intera navata centrale per permettere a tutti i partecipanti di prendere parte alle diverse sessioni.
Fra i passaggi decisivi della Dei Verbum troviamo l’affermazione dell’origine apostolica dei vangeli (DV 18): «La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica».
Con questa felice espressione i padri conciliari hanno voluto, da un lato, lasciare libero campo alla ricerca su chi siano gli ultimi redattori degli scritti neotestamentari. Dall’altro hanno insegnato che, chiunque sia stato l’effettivo estensore finale dei singoli scritti e quali siano stati i passaggi che hanno preceduto la loro redazione ultima, tutto è avvenuto in conformità alla predicazione apostolica.
L’ipotesi più accreditata sulla formazione dei sinottici afferma l’esistenza di una raccolta scritta di detti di Gesù (in greco loghia) precedente la redazione di Matteo e Luca e da loro utilizzata. I passi paralleli di questi due vangeli mostrano che entrambi debbono aver usufruito di questa fonte a loro anteriore, tesa anch’essa a far sì che potessero essere conservate le parole pronunciate da Gesù. Questa raccolta (indicata convenzionalmente con la maiuscola Q, dal tedesco Quelle che significa appunto fonte) non la possediamo più come testo a sé stante, ma inserita in Matteo e Luca che l’hanno intrecciata nel tessuto del vangelo di Marco ed arricchita con fonti a loro proprie.
L’affermazione dell’origine apostolica dei vangeli indica che questa ipotesi, come altre consimili, è assolutamente legittima per la fede cattolica. Essa, infatti, non inficia minimamente l’affermazione che ciò che è contenuto nei vangeli risale alla predicazione apostolica.
I vangeli e gli altri testi neotestamentari vengono scritti mentre sono certamente ancora in vita alcuni degli apostoli. La loro redazione avviene, comunque, in comunità di fondazione apostolica nelle quali la memoria della loro testimonianza è certamente forte. Affermare che la chiesa ha sempre ritenuto e ritiene l’origine apostolica dei vangeli vuol dire, da parte del Vaticano II, confermare che la sostanza di ciò che i vangeli ci trasmettono rispecchia fedelmente la parola degli apostoli anche se i testi non avessero direttamente la loro paternità, ma fossero opera di loro discepoli o in maniera più estesa di “cerchie” di persone tramite loro generate alla fede.
Paolo VI in persona intervenne nella discussione conciliare facendo preparare una lettera il 17 ottobre 1965: chiedeva che il testo della Dei Verbum affermasse da un lato il triplice stadio – Gesù, gli apostoli, i redattori - che ha portato alla scrittura dei vangeli e dall’altro la fedeltà storica del Nuovo Testamento al “Gesù reale”. Il suggerimento del Papa fu accolto ed i padri conciliari si trovarono d’accordo nel dire, in Dei Verbum 19, che la chiesa “afferma senza esitazione la storicità” dei vangeli.
Su questa linea si muove il volume Gesù di Nazaret di J.Ratzinger-Benedetto XVI in tutta la sua impostazione ed anche quando, riflettendo sull’importanza della testimonianza giovannea che concorda pur nelle sue peculiarità con tutto il resto del Nuovo Testamento, afferma che dietro il quarto vangelo “vi è ultimamente un testimone oculare e anche la redazione concreta è avvenuta nella vivace cerchia dei suoi discepoli e con l’apporto determinante di un discepolo a lui familiare”. Più che l’individuazione precisa di questa figura ciò che sta a cuore all’Autore è evidentemente l’origine apostolica dell’evangelo giovanneo.
Il Nuovo Testamento è così testimone non di molti cristianesimi, ma di un unico cristianesimo nel quale i differenti autori arricchiscono l’unità con la percezione di sfumature differenti ricchissime ma mai divergenti sul nucleo centrale, tutti confessanti insieme che solo in Cristo avviene la piena rivelazione di Dio e che non vi è altro Salvatore al’infuori di Lui.

7. La Sacra Scrittura, “Libro” della catechesi

CAPITOLO VI. LA SACRA SCRITTURA NELLA VITA DELLA CHIESA
Importanza della sacra Scrittura per la Chiesa
Dei Verbum 21. La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai
, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra Tradizione, ha sempre considerato e considera le divine Scritture come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo. È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell'anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale. Perciò si deve riferire per eccellenza alla sacra Scrittura ciò che è stato detto: «viva ed efficace è la parola di Dio» (Eb 4,12), «che ha il potere di edificare e dare l'eredità con tutti i santificati» (At 20,32; cfr. 1 Ts 2,13).

Si raccomanda la lettura della sacra Scrittura
25. Perciò è necessario che tutti i chierici, principalmente i sacerdoti e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della parola, conservino un contatto continuo con le Scritture mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato, affinché non diventi «un vano predicatore della parola di Dio all'esterno colui che non l'ascolta dentro di sé», mentre deve partecipare ai fedeli a lui affidati le sovrabbondanti ricchezze della parola divina, specialmente nella sacra liturgia. Parimenti il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo» (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. «L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo» (S.Girolamo, Commento ad Isaia, Prologo). Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l'approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l'uomo; poiché «quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini». Compete ai vescovi, «depositari della dottrina apostolica», ammaestrare opportunamente i fedeli loro affidati sul retto uso dei libri divini, in modo particolare del Nuovo Testamento e in primo luogo dei Vangeli, grazie a traduzioni dei sacri testi; queste devono essere corredate delle note necessarie e veramente sufficienti, affinché i figli della Chiesa si familiarizzino con sicurezza e profitto con le sacre Scritture e si imbevano del loro spirito. Inoltre, siano preparate edizioni della sacra Scrittura fornite di idonee annotazioni, ad uso anche dei non cristiani e adattate alla loro situazione; sia i pastori d'anime, sia i cristiani di qualsiasi stato avranno cura di diffonderle con zelo e prudenza.

da Roberto Benigni
La Bibbia è il libro più venduto e più letto da tutti, anche perché, quando si sanno i gusti dei lettori...
La Bibbia è l'unico libro e l'unico esempio in cui l'autore del libro è anche l'autore dei lettori

da Un instancabile maestro della “lectio divina”, dell’allora cardinal Joseph Ratzinger nel volume “Carlo Maria Martini da 15 anni sulla cattedra di Ambrogio”, Casa Editrice San Paolo, 1996, pp. 101-103
In occasione della Pasqua del 1981, quando mi capitò tra le mani la traduzione tedesca del libro di Martini Vita di Mosè - Vita di Gesù. Esistenza pasquale, ebbi modo di capire come [...] nel caso di Martini l’esegesi e la pastorale fossero tra loro congiunte. In quel piccolo libro trovai quella capacità di rendere attuale la parola biblica, che sempre avevo auspicato. Gli aspetti più propriamente specialistici dell’esegesi erano stati messi da parte, tuttavia non si poteva non riconoscere che essi erano ben familiari all’autore.
La competenza dello specialista veniva però sottratta a quel suo isolamento che, non di rado, fa sì che la Scrittura non riesca a risalire la china dei secoli. In tempi recenti, quando ci si è resi conto di questa carenza, si sono spesso tentate attualizzazioni arbitrarie e prive di adeguato fondamento. Si percepisce così solamente la voce dello studioso; la Bibbia finisce con l’illustrare solo le sue opinioni, invece di offrire qualcosa di proprio e di nuovo, che non proviene da noi stessi. Nelle sue letture della storia di Mosè, Martini recepisce le interpretazioni dei padri e dei rabbini. In questa storia della recezione si rispecchiano interpretazioni applicative del testo che, indubbiamente, non sempre reggono dal punto di vista storico-critico; esse, tuttavia, sono in grado di rivelare qualcosa di quel dinamismo spirituale che si cela nella storia.
Così si apre il messaggio interiore della figura di Mosè: la guida di Israele durante l’esodo parla con noi; nel suo itinerario e nei suoi destini si rispecchiano le grandi domande dell’esistenza credente. La tipologia Mosè-Cristo perde ogni carattere artefatto; corrispondenze e analogie interiori si rendono manifeste. Il contesto vitale cristiano e giudaico, a partire dal quale Martini coglie quella figura, viene contemporaneamente a porsi come un contesto mediato in modo fortemente personale: le tentazioni e le sofferenze, il cammino e gli smarrimenti di questo grande testimone di Dio si rivelano come esperienze originarie dell’uomo, che hanno a che fare con la nostra personale lotta per la fede e che ci mostrano la via che dalla “vita inautentica” conduce alla gioia: Mosè diviene così, in modo molto personale, la guida per questo esodo dall’inautentico all’autentico.
Ecco perché mi sono rallegrato di poter finalmente conoscere di persona l’autore di queste meditazioni sulla Sacra Scrittura, che erano divenute per me una compagnia nel mio personale cammino spirituale
.

da L. Bouyer, La Bible et l’Evangile..., Lectio divina, 8, Parigi, 1951, pp. 11-12
La tradizione e la Scrittura non sono due fonti indipendenti, che si completano dal di fuori
. Se talvolta siamo tentati di crederlo, è perché non siamo sfuggiti alle dannose disgiunzioni del protestantesimo. Per i primi cristiani, al contrario, la Bibbia è così poco separabile dalla tradizione, che ne fa parte addirittura: ne costituisce l’elemento essenziale, il nucleo, se si vuole. Ma, d’altra parte, strappata dall’insieme vivente dei molteplici fattori tradizionali, conservati e trasmessi dalla coscienza della Chiesa, sempre attenta e sempre attiva, la Bibbia diventerebbe incomprensibile. Verrebbe, effettivamente, staccata dalla vita degli oggetti di cui parla. Bibbia e tradizione non rappresentano, dunque, per un cattolico, Bibbia più un elemento estraneo, in mancanza del quale essa resterebbe incompleta. È piuttosto la Bibbia ricollocata, o meglio, mantenuta, nella sua atmosfera propria, nel suo ambiente vitale, nella sua luce nativa. È la Bibbia e nient’altro che la Bibbia, ma la Bibbia tutt’intera, e non solo nella lettera, ma con lo Spirito che l’ha dettata e non cessa di vivificarne la lettura. Dove infatti - si domanda S. Agostino - si troverebbe lo Spirito del Cristo, se non nel Corpo di Cristo? È dunque nella Chiesa, corpo della Parola vivente di Dio fatto carne, che la Parola, già ispirata a uomini di carne, resta spirito e vita. La tradizione cattolica, lungi dal dare scacco, come troppo spesso si crede, all’importanza unica della Scrittura sacra, le conserva tutto il suo valore, svelando tutto il suo senso»

da J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, p. 26
I Simboli [della fede], intesi come la forma tipica ed il saldo punto di cristallizzazione di ciò che si chiamerà più tardi dogma, non sono un’aggiunta alla Scrittura, ma il filo conduttore attraverso di essa; sono il canone nel canone, appositamente elaborato; sono per così dire il filo di Arianna, che permette di percorrere il Labirinto e ne fa conoscere la pianta. Conseguentemente, non sono neppure la spiegazione che viene dall’esterno ed è riferita ai punti oscuri. Loro compito è, invece, rimandare alla figura che brilla di luce propria, dar risalto a quella figura, in modo da far risplendere la chiarezza intrinseca della Scrittura. [Contro questa visione del dogma] una tendenza molto più forte considera la fede della comunità in maniera completamente diversa: poiché, si dice, ciò che è comune ed oggettivo non può più essere fondato e colto, la fede allora è, di volta in volta, ciò che la comunità presente pensa e, nello scambio delle idee («dialogo»), raggiunge come convinzione comune. La «comunità» prende il posto della chiesa, la sua esperienza religiosa quello della tradizione ecclesiastica. Con una siffatta concezione si è abbandonato non solo la fede, nel senso vero e proprio del termine, ma si è rinunciato logicamente anche ad una reale predicazione ed alla chiesa stessa; il «dialogo», di cui ora si parla, non è una predicazione, ma un dialogo con se stessi, seguendo l’eco di antiche tradizioni. 

dal Direttorio generale per la catechesi, 128
La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede. La Sacra Scrittura e il Catechismo della Chiesa Cattolica debbono ispirare tanto la catechesi biblica quanto la catechesi dottrinale, che veicolano questo contenuto della Parola di Dio.

Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo e/o ignorare Cristo significa ignorare le Scritture? Esegesi storico-critica ed esegesi tipologica nella famosa espressione di San Girolamo. Breve nota di Andrea Lonardo (da www.gliscritti.it )
«Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo». Il Concilio Vaticano II rilegge in chiave allegorica e morale questo testo di Girolamo, quasi che esso volesse stimolare i cristiani alla lettura personale della Bibbia (il riferimento è ovviamente a Dei Verbum 25).
Se, però, si legge con attenzione storico-critica il Prologo al Commento di Isaia del quale la famosa espressione fa parte, ci si accorge immediatamente che il senso del testo nel suo contesto originario è tutt’altro: Girolamo vuole dire che solo cogliendo la presenza di Cristo nell’Antico Testamento lo si è compreso veramente.
Per Girolamo, colui che “ignora le Scritture”, non è colui che non le conosce materialmente, bensì colui che, pur leggendole, le interpreta da pagano o da ebreo
e, quindi, non si accorge che Cristo si rivela già nell’Antico Testamento.
Girolamo afferma in proposito, indicando la finalità del suo commento:
«Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo».
Ed ancora:
«Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l'Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti».
Se, invece, non si coglie Cristo presente nelle profezie veterotestamentarie, secondo la prospettiva di Girolamo,
«sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Leggilo. Ma quegli risponde: “Non posso, perché è sigillato”. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggilo, ma quegli risponde: “Non so leggere” (Is 29, 11-12). (Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: “Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture”».
Ecco il paradosso di una corretta ermeneutica dei padri della Chiesa. Ogni approccio storico al loro pensiero implica che si entri nel mondo dell’allegoria tipologica
.
Lo stesso vale, ovviamente, per le Sacre Scritture. Una seria esegesi storico-critica neotestamentaria deve accettare l’interpretazione spirituale dell’Antico Testamento, perché il Nuovo Testamento legge l’Antico esattamente in questa prospettiva. Ad esempio, Paolo nella Lettera ai Romani non legge i brani di Genesi su Adamo con il metodo storico-critico, bensì secondo il “sensus plenior” che vi coglie a partire da Cristo e, quindi, l’esegeta, deve continuamente passare da un senso all’altro proprio per essere storicamente fedele a Paolo.
Per leggere in maniera storico-critica il Nuovo Testamento bisogna accogliere la sua lettura “spirituale” dell’Antico – ma anche già per comprendere le ri-letture veterotestamentarie degli eventi biblici.
Essere coerenti con il metodo storico-critico implica assumere il “senso spirituale”
.
Questo il brano di Girolamo:
(dal "Prologo al commento del Profeta Isaia" di san Girolamo, sacerdote, nn. 1. 2; CCL 73, 1-3)
Adempio al mio dovere, ubbidendo al comando di Cristo: "Scrutate le Scritture" (Gv 5, 39), e: "Cercate e troverete" (Mt 7, 7), per non sentirmi dire come ai Giudei: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio" (Mt 22, 29). Se, infatti, al dire dell'apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, colui che non conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio, né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo. Perciò voglio imitare il padre di famiglia, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e vecchie, e così anche la Sposa, che nel Cantico dei Cantici dice: O mio diletto, ho serbato per te il nuovo e il vecchio (cfr. Ct 7, 14 volg.). Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo. Egli infatti ha detto anche di sé quello che dice degli altri evangelisti: "Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace" (Is 52, 7). E Dio rivolge a lui, come a un apostolo, la domanda: Chi manderò, e chi andrà da questo popolo? Ed egli risponde: Eccomi, manda me (cfr. Is 6, 8). Ma nessuno creda che io voglia esaurire in poche parole l'argomento di questo libro della Scrittura che contiene tutti i misteri del Signore. Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l'Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti. Che dirò della sua dottrina sulla fisica, sull'etica e sulla logica? Tutto ciò che riguarda le Sacre Scritture, tutto ciò che la lingua può esprimere e l'intelligenza dei mortali può comprendere, si trova racchiuso in questo volume. Della profondità di tali ministeri dà testimonianza lo stesso autore quando scrive: "Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Leggilo. Ma quegli risponde: Non posso, perché è sigillato. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggilo, ma quegli risponde: Non so leggere" (Is 29, 11-12). (Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture. I profeti però sapevano quello che dicevano e lo comprendevano). Leggiamo infatti in san Paolo: "Le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti" (1 Cor 14, 32), perché sia in loro facoltà di tacere o di parlare secondo l'occorrenza. I profeti, dunque, comprendevano quello che dicevano, per questo tutte le loro parole sono piene di sapienza e di ragionevolezza. Alle loro orecchie non arrivavano soltanto le vibrazioni della voce, ma la stessa parola di Dio che parlava nel loro animo. Lo afferma qualcuno di loro con espressioni come queste: L'angelo parlava in me (cfr. Zc 1, 9), e: (lo Spirito) "grida nei nostri cuori: Abbà, Padre" (Gal 4, 6), e ancora: "Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore" (Salmo 84, 9).

Note al testo

[1] H. de Lubac - E. Cattaneo, La Costituzione «Dei Verbum» vent’anni dopo, in «Rassegna di teologia», 26 (1985), p. 388.

[2] Come è noto il lungo iter conciliare del documento sulla rivelazione portò all’emergere del primo capitolo della Dei Verbum che non era originariamente previsto. La tematica della rivelazione personale di Dio pose così in secondo piano la questione del rapporto fra Tradizione e Scrittura che era la più sentita prima della bocciatura del primo schema, permettendo di illuminarla in modo nuovo; cfr. su questo R. Fisichella, Dei Verbum. Storia, in R. Latourelle - R. Fisichella (edd.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, pp. 279-284.