I falliti del ‘77. Un’intervista a Maurice Bignami, di Angelo Picariello
Riprendiamo da Avvenire del 10/3/2012 un’intervista a Maurice Bignami di Angelo Picariello. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Di Maurice Bignami, vedi anche su questo stesso sito «Don Ruggero, il cappellano delle Nuove di Torino, mi lascia I promessi sposi. Mi colpisce la lassitudine, la stanchezza morale dell’Innominato. Io ora leggo il libro una volta ogni due anni» (da Maurice Bignami, ex-terrorista di Prima Linea).
Il Centro culturale Gli scritti (11/7/2012)
«Tutta questa celebrazione degli anni ‘70 mi sembra una follia». Maurice Bignami, leader dell'autonomia e del movimento che nel '77 mise a fuoco e fiamme Bologna ringrazia il carcere che gli aprì gli occhi. «Questi continuano, invece. Il bene da un lato, il male (l'America, la Chiesa) dall'altro. E non parlo di pochi violenti, parlo di milioni di persone che non hanno mai staccato la spina da quella follia».
Trenta anni fa, a Bologna, l'11 marzo, il tentativo di interrompere un'assemblea di Cl in università culminò con gli scontri di piazza e la morte di Francesco Lorusso, 25enne militante di Lotta Continua. La rivolta divampò in tutta Italia, con altre devastazioni e altri morti. Bignami, con Sergio Segio, fu fra i fondatori di Prima linea. Oggi dirige una casa famiglia per anziani, gestita dalla Caritas di Roma.
Domanda banale: ma come si diventa terroristi? Come si arriva a decidere di fare tanto male a se stessi e agli altri?
«La domanda me la faccio anch'io, ne parlavo proprio ieri con mia moglie. È come un sortilegio. Ma non vuol dire che lo si diventa per caso, ci devi mettere del tuo, ci arrivi passaggio dopo passaggio, non in una botta sola. Ti senti come in una toboga, in uno scivolo dettato della storia: la Resistenza, l'ottobre russo, la rivoluzione francese. Vivi un tempo mitico, e pensi: stavolta tocca a noi. Poi le cose diventano pesanti, ti accorgi che i giochi sono finiti: il '77 è questo. I fatti di Bologna erano per noi l'esempio di ciò che doveva accadere in tutta Italia. Vennero poi ad arrestarmi a fine marzo a casa di Toni Negri, uscii in novembre ed era tutto finito. Rimasi sconvolto».
Che cosa rappresentò, quel marzo '77, a Bologna?
«Fu il momento in cui sparare tutte le nostre munizioni. Teorizzavamo da anni la presenza delle armi nelle organizzazioni di massa, avevamo già alcune decine di pistole, qualche mitra, le reperimmo in giro o rapinammo delle armerie. Anche il Pci aveva un'organizzazione parallela, a scopo difensivo, avevano le cosiddette "case pulite", rifugi segreti da usare in caso di colpo di Stato. Noi invece ritenevamo che questa scelta andasse fatta apertamente».
Quindi il movimento era armato?
«Sì, ma in quegli scontri a Bologna, per quello che so, nessuno fece uso di armi. Anzi, la critica che facemmo a Lotta Continua fu di avventurismo: non si va a interrompere un'assemblea universitaria aprendo lo scontro con la polizia, senza predisporre una risposta armata, senza capire che ci può scappare il morto».
Dall'avventurismo si passò alla lotta armata. Ma che cosa scatenava quella violenza?
«C'era la convinzione che i fascisti non fossero appartenenti al genere umano, che non fosse reato ucciderli. Come nei genocidi. Allo stesso modo ci sembrava intollerabile che dei cattolici avessero la pretesa di dire la loro, in università, sugli stessi temi su cui eravamo impegnati noi. A peggiorare le cose c'era la provenienza dalle file cattoliche della maggior parte dei militanti di Lotta Continua, per loro c'era l'aggravante di voler mettere in discussione un percorso fatto. Non si spiega altrimenti quell'odio viscerale verso persone che ricordo civili e gentili, dedite a opere buone, alloggi, libri, gruppi di studio».
Trent'anni dopo, vede analogie?
«Altro che. Portare avanti in certi ambiti culturali o accademici un punto di vista cattolico, sui Dico o sulla fecondazione assistita, incontra lo stesso ostracismo, anche se non armato».
Colpisce il duro attacco del Pci nel '77 contro le azioni del movimento a Bologna. Vi definirono squadristi.
«Era un modo per respingere il legame oggettivo e soggettivo che avevano con noi. Poi, dopo il "sorpasso" della Dc, il Pci sposò la linea del rigore e non le riforme. Ci sentimmo traditi, ci convincemmo che l'unico sbocco era la lotta armata. Ancora oggi mi chiedo come possiamo essere stati tanto ciechi: il bene tutto da una parte, mentre i fatti dicevano il contrario, fra noi non c'era niente di pace, tolleranza e cultura di cui parlavamo».
Eppure si dice: fantastici quegli anni...
«È pazzesco, non c'è stato periodo più buio di quello, non ha lasciato niente, neanche sotto il profilo architettonico: le case costruite in quell'epoca le trovo allucinanti. Riconoscerlo è doloroso, vuol dire che hai fallito e devi ricostruire. Perciò è stato fondamentale finire in galera, sono felice di esser stato costretto a riflettere».
Forse per questo Scalzone ancora fa il cattivo maestro.
«Scalzone non ha sopportato il carcere, si è ammalato, è uscito e poi è scappato. Ed è ancora in preda al sortilegio: il re è nudo e lo vedono ancora vestito».
E i neoterroristi? Se l'aspettava che fossero ancora in giro?
«Se noi eravamo politici criminali, questi sono criminali politici. Certo, bastano tre deficienti a fare del male, certo si avvalgono anche loro di pericolose contiguità, ma basta arrestarli, fermarli prima. Mi sembra più preoccupante semmai il fenomeno degli ultrà, l'esperienza in Bosnia insegna che se certi fenomeni sconfinano nella violenza politica diventano pericolosi. I cattivi maestri? Sono innanzitutto cattivi maestri di se stessi. In preda a una nostalgia autocelebrativa e ai preconcetti».