Non siamo fatti per il 'no', di Davide Rondoni [dopo il suicidio di Maurizio Cevenini]
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Riprendiamo da Avvenire del 10/5/2012 un articolo scritto da Davide Rondoni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/5/2012)
Il suicidio di un uomo politico si aggiunge alla triste scia di questi giorni. Dopo imprenditori, commercianti e altri disperati, si aggiunge alla dura lista – dove ogni nome splende come un astro meraviglioso e tremendo – il nome di Maurizio Cevenini. Un politico molto popolare, che sarebbe stato oggi di certo sindaco della città, se una malattia non l’avesse bloccato nel momento delle primarie. Il suo gesto non c’entra con la 'crisi'. Ma riguarda una crisi più profonda. Quella a cui in modo sbrigativo, un po’ comodo e farisaico diamo nome 'depressione'. Facendo finta di non sapere che la depressione è a sua volta un effetto, non una causa.
Spostiamo il problema per non guardare la vita negli occhi. Non la morte – lei ha gli occhi chiusi, possiamo piangere e sognare, però i suoi occhi non li conosciamo. Ma la vita sì che ha gli occhi aperti, e cosa ci fa vedere? Il destino ha voluto che Cevenini non realizzasse il suo sogno di diventare sindaco della città che lo amava e che amava. Il caso – il mistero – interviene nelle nostre esistenze. Ma cosa significa caso, 'destino'? E cosa significa accettare o no il destino? Dove conduce l’abbraccio al destino e dove il rifiuto? E dove l’indifferenza alla sua vasta, infinita azione? Occorre dunque guardare cosa è la vita attraverso il dramma delicatissimo e violento di questa morte ennesima, di questa ennesima ferita inferta dalla disperanza.
E innanzitutto, se non nascondiamo il volto, vediamo che la vita è un bene. Inalienabile. Un bene fragile, ma un bene.
Quasi ci si sciolgono in bocca le parole 'bene della vita', tanto sono elementari, povere. Come pane, come bacio, come quasi un niente. E però inconfutabili, durissime, preziose. Ne è riprova il fatto che ciascuno di noi, qualunque posizione abbia, appena sente notizie di questo genere non pensa: ah, bene, beato lui, ha finalmente esercitato il suo diritto alla scegliere liberamente tra vita e morte.
Nessuno pensa: finalmente qualcuno che mette a frutto un diritto di scelta. Nessuno di noi ha pensato (spero): ok, signor Cevenini, scelta sacrosanta. Perché c’è nel morire, e di più nel morire per propria mano, una sorta di ingiustizia. Una specie di offesa. E infatti il primo moto del cuore e della ragione di fronte alla notizia che un uomo vola via dalla sua vita è: no! Un no! ancora più forte o sgomento se è morte data per propria mano.
Perché a differenza di quello che insegnano in molti (a parole, perlopiù) non è vero che la grandezza di un uomo sta nel fatto che 'può scegliere'. Tra un vino e un altro, tra un amore e un altro o tra la vita e la morte. Non è la libertà di scelta il segno supremo della nostra dignità. La vera grandezza umana sta nel poter abbracciare il destino.
Nel poter essere noi, così piccoli, così vani e brevi, l’ampiezza interiore per contenere l’idea, la concezione, l’immagine del destino di tutto. Nell’avere il senso del mistero e dell’infinito, noi che siamo così scontati, evidenti, e finitissimi. Potere avere coscienza della Grande Legge misteriosa del mondo – privilegio sconosciuto a coccinelle e a sedani. Qui sta la nostra dignità: nel lavoro di cercare con tutta la nostra dignità e il nostro amore, di ammirare la vastità del destino, di stare ai suoi piedi, di accoglierlo come un grande immenso ospite a cui dire 'sì', magari singhiozzando e stringendo i denti, ma dicendo 'sì'.
Quando un uomo si toglie da questo compito, quando abbandona il campo, sottraendosi a questo lavoro del 'sì', per compiere il gesto del 'no', rimaniamo costernati. Ci dispiace da impazzire. Per lui e per la ferita che lascia in tutti. E ne abbiamo pietà, riconoscendo che lui e noi tutti non siamo fatti per questo 'no'.