Un'introduzione a San Giovanni. File audio di un corso tenuto da Andrea Lonardo (I lezione)
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio la registrazioni della prima lezione tenuta da Andrea Lonardo presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore ad una classe di seminaristi, il 23/3/2012. Per altri files audio, come per le altre lezioni, vedi la sezione Audio e video.
Il Centro culturale Gli scritti (8/4/2012)
Ascolto Riproducendo "san giovanni". Download: |
ANTOLOGIA DI TESTI UTILIZZATA DURANTE LA LEZIONE
Una introduzione a Giovanni
Andrea Lonardo www.gliscritti.it
I incontro
La grande questione: Giovanni ci parla del vero Gesù?
forse il passaggio più importante del I volume del Gesù di Nazaret di J. Ratzinger-Benedetto XVI
sembrano apparentemente parlare due lingue diverse!
Ma chi è Giovanni? Vale lo stesso discorso che si fa per Paolo: chi ha inventato il cristianesimo?
noi saremmo paolinisti e giovannei e non cristiani?
nota bene che lo si afferma della figliolanza di Gesù e non del Dio è amore (si preferisce dimenticarlo!)
Una chiave di lettura
non sono due lingue diverse, bensì modi diversi di esprimere la stessa realtà
5,23 chi non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha mandato
8,52 io sono la luce del mondo
8,58 prima che Abramo fosse, io sono
14,6.9 io sono la via, la verità e la vita... chi ha visto me ha visto il Padre
14.8 Mostraci il Padre e ci basta
Lc 10, 21-22
inno di giubilo
“linguaggio giovanneo”... ma è la fonte Q!
Fil 2,5 ss.
ma anche Mc 1!
1,1Inizio del vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio Mc 1,11 Tu sei il mio figlio prediletto
sintesi, prima della narrazione storica! importantissimo per la catechesi... la pretesa di Gesù!
da R. Penna, Letture evangeliche. Saggi esegetici sui quattro vangeli, Borla, Roma, 1989, p. 194
Il modo di sviluppare le idee non è quello di un dialettico, ma di un intuitivo, di un mistico.
2 esempi di intuizione (seminarista e spostamento del parroco!)
Le immagini di Giovanni lo hanno colto
aquila
Giovanni “il teologo”
Dio è amore, proprio per la figliolanza divina di Gesù
1 Gv 4,9-10 In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi. Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
1 Gv 4,8 e 1 Gv 4,16 Dio è amore
Rm chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo
cfr. Luca 15 Padre misericordioso
cfr. nei sinottici ultima cena
Il Logos si è fatto carne
cristianizzazione dell’ellenismo
Eraclito (VI sec. a.C.)
Fr. 1 Di questo logos che sempre è gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato, sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadono secondo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte.
Fr. 2 Bisogna seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare saggezza.
Fr. 50 Ascoltando non me, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno.
Cleante, Inno a Zeus (II sec. a.C.), 19 ss.
Tu adattasti in unità tutte le cose buone con le cattive,
così che si formasse un logos unico di tutte le cose sempre esistente,
che fuggendo abbandonano quanti mortali sono malvagi,
infelici,
non vedono, né ascoltano la legge universale di dio.
Filone d’Alessandria, Opif.
Come il progetto di una città elaborato nel pensiero di un architetto, non era in alcun luogo esteriore, ma era impresso nell’anima dell’artista, così il mondo fatto di idee non potrebbe avere altro luogo che il Logos divino, il quale le ha organizzate...
La luce invisibile e intelligibile è stata creata come immagine del Logos divino, che ne spiega la genesi...
Per costruire l’anima Dio si è servito di alcun altro modello sottoposto a nascita, ma soltanto del suo propri Logos, di cui Mosé dice che l’uomo è diventato un ritratto e un’imitazione.
Filone d’Alessandria, Post C. 127
Il logos divino inabita e circola in coloro che onorano la vita dell’anima.
Filone d’Alessandria, Conf. ling. 146
Se c’è qualcuno che non è ancora degno di essere chiamato figlio di Dio, si affretti a mettersi in ordine secondo il logos, suo primogenito, il più antico degli angeli, quasi come l’arcangelo; egli ha molti nomi: lo si chiama Inizio, nome di Dio, Logos, l’Uomo secondo l’immagine e il Veggente Israele.
Filone, Fug. 112
Il Logos di colui che è serve come vincolo universale, tiene insieme tutte le cose.
Filone, Somn. I,229
Mosè designa il vero Dio con l’articolo, dicendo: “Io sono il Dio” e chiama Dio [senza articolo] il suo Logos più venerabile.
da Il vangelo secondo Giovanni, di C.M. Martini, Borla, Roma, 1981, pp. 26-30
Vi propongo di riflettere sui vari significati. che può avere la parola logos, che fa da protagonista nell'azione del dramma rappresentato brevemente nei 18 versi del prologo. Questa parola logos è una parola disperante, perché forse è la parola greca che ha più significati: la mente, la ragione, il conto della spesa, e molte altre cose estremamente disparate. C'è da domandarsi perché mai Giovanni abbia scelto questa parola invece di sceglierne altre più precise. Per esempio, se voleva indicare la «parola di Dio», perché non ha scelto rema, che forse era il termine più adatto per indicare espressamente la parola creativa di Dio? Se voleva indicare la «sapienza», perché non ha scelto sophia o altre parole analoghe? Ci troviamo invece qui di fronte ad una vera e propria ridda di significati; mi sembra tuttavia non inutile prendere in considerazione i principali fra essi, senza pretendere in nessun modo di collocarci sul piano esegetico, bensì su quello della nostra meditazione esistenziale. Probabilmente Giovanni, dandoci una visione «telescopica» di tutti questi significati, ha voluto appunto offrirci una specie di scala per salire, grado a grado, fino a dove egli ci vuol portare.
I significati della parola, dunque, sono molti: per un greco il significato più evidente, che egli recepiva dal diffuso contesto filosofico, era quello di logos delle cose, cioè la ragione ultima d'essere della realtà. Benché gli esegeti, di solito, non insistano su questo significato, perché sostengono che la derivazione del logos giovanneo sarebbe piuttosto di tipo sapienziale, o in genere veterotestamentaria, è impossibile immaginare che un presbitero di Efeso di quel tempo, sentendo parlare del logos in senso assoluto, non pensasse alla ragione ultima delle cose, al perché del mondo, e quindi non cominciasse di qui la sua riflessione. Elenco allora cinque fondamentali significati:
1. ragione d'essere della realtà; 2. parola creatrice: Dio creò tutto con la parola; 3. sapienza che presiede alla creazione, quindi sapienza ordinatrice; 4. parola illuminante e vivificante; 5. parola rivelatrice: il Figlio di Dio viene fra noi in Gesù (s'incarna), ed è Gesù che rivela il Padre.
Mi sembra che Giovanni veda l'intera serie di questi cinque significati - tra altri che forse si potrebbero aggiungere - come se essi fossero ordinatamente infilati l'uno nell'altro; perciò noi possiamo prenderli in considerazione uno dopo l'altro, e così ricostruire il disegno giovanneo.
1. Logos, ragione ultima delle cose
La ragione ultima della mia esistenza così com'è in Dio. Questo è certamente un primo messaggio, forse implicito, ma evidentissimo, da cui deve partire il presbitero. La mia esistenza così com'è - e tutta la situazione umana - ha una ragione, ha un perché, ha un significato. E questo significato ultimo è in Dio.
2. Logos, parola creatrice
Dove sta questo significato ultimo di tutta la realtà, di tutte le cose, della mia situazione umana? Sta nella dipendenza da Dio. Dipendenza da riconoscersi, con Ignazio, nella lode e nella riverenza. Se la ragione ultima di ogni cosa è una parola creatrice di Dio, questo senso di dipendenza totale da Dio, da riconoscersi con riverenza e lode, è il primo atteggiamento sul quale gli altri si possono costruire e senza il quale nessuna disciplina spirituale può essere costruita.
3. Logos, sapienza ordinatrice
Presso Dio è la ragione ultima non solo dell'essere delle cose, ma dell'essere «qui e adesso». Cioè: tutte le situazioni dell'esistenza, tutto ciò che gegonen («è avvenuto») e avviene ora, ha un significato nella sapienza ordinatrice di Dio. Tutto il cosmo, di cui si parla nel v. 9, ha questo significato.
Questa considerazione è amplissima e chiarificatrice, perché a partire da essa nessuna situazione umana è priva di senso, anche la più strana apparentemente; sia la mia situazione di uomo, sia la situazione dell'umanità e del mondo, sia la situazione della Chiesa: tutto ha un significato nella sapienza ordinatrice di Dio. Solo se si confida in questo, può aver inizio la formazione del presbitero. Se manca questa fiducia, si comincia con l'amarezza e con la deprecazione, e si rimane preda dello spavento che ci prende di fronte all'impressione del disordine illimitato. Dunque presso Dio è la ragione ultima di tutte le situazioni dell'esistenza: dell'essere il cosmo oggi così.
4. Logos, phos e zoè
Questa ragione dell'esistenza è logos, nel senso di phos (luce) e zoè (vita); tutto ha un senso, e questo senso è luminoso e vivificante. Ossia, malgrado le oscurità della situazione presente dell'uomo, malgrado la tragedia umana che ci circonda, malgrado le prove della Chiesa e le situazioni quasi assurde nelle quali si trova il mondo e possiamo trovarci anche noi, esiste al fondo di tutto un euaggélion (un «vangelo»), che ci assicura esserci una ragione luminosa e vivificante di tutte queste cose, se solo sappiamo coglierla e lasciarci trasformare da essa.
5. Questo Logos è Gesù Cristo fra noi che ci parla del Padre
Le parole di Gesù, che ascoltiamo nella Scrittura, e la sua stessa realtà personale costituiscono il senso luminoso ed edificante di tutta l'esperienza umana, così come noi la percepiamo. È questo lo sfondo sicuro - e necessario - su cui si innesta tutta la costruzione successiva. Senza questa fiducia di fondo nella sapienza creatrice, che regola le situazioni presenti e si manifesta in Cristo come «vangelo», non c'è speranza di fare meglio, non c'è speranza di cambiare se stessi e non c'è speranza per il mondo. La nostra speranza, infatti, sta tutta in questo radicarsi di ogni cosa nella ragione ultima, che è la creazione divina e la presenza fra noi di Gesù Cristo, il quale rivela le parole di Dio e crea una situazione di verità e di grazia nel mondo: Gesù «pieno di grazia e di verità» (1, 14).
Ecco dunque l’atteggiamento da assumere di fronte al Vangelo di Giovanni - del tutto corrispondente per altro a quella solidità del principio e di appoggio, che Ignazio voleva offrire col suo Principio e Fondamento - un atteggiamento ispirato al senso che tutto da Dio dipende e a Dio va, e che la nostra azione può inserirsi in maniera sensata, ragionevole, giusta, in questo movimento, qualunque sia la nostra condizione presente.
in principio en arche
personale pros ton theon
Brown alla presenza di Dio de la Potterie rivolto verso Dio
tutto è stato fato per mezzo di lui, neanche una cosa è stata fatta senza
in lui era la vita
contro di lui il mondo delle tenebre...
1,17 perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità per mezzo di Gesù Cristo
1,18
Dio nessunoi l’ha mai visto
il Figlio unigenito monoghenes, il generato
che è nel seno del Padre eis ton kolpon Brown sempre accanto al Padre
exegesato lo ha rivelato, narrato manifestato, spiegato
La carne di Cristo
da R. Penna, le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi, forme, credenze, Carocci, Roma, 2011, p. 210
Questo livello cristologico così alto si coniuga tuttavia con un intento antidocetista che sottolinea significativamente l’incarnazione
1,14 e il Verbo si fece carne sarx
4,6 Gesù stanco del viaggio
11,5.35-36 Gesù voleva molto bene a... Gesù scoppio in pianto. Dissero allora i giudei: “Vedi come lo amava”
13, 5 versò dell’acqua nel catino
18,22 una delle guardie diede uno schiaffo a Gesù
19,1-3 corona, mantello di porpora e gli davano schiaffi
Gesù discende, ma senza allontanarsi mai dal Padre!
da Il “circolo giovanneo” e il cammino della chiesa verso la Gerusalemme celeste, di Ugo Vanni (www.gliscritti.it)
La ricchezza del contenuto teologico-biblico del IV vangelo è impressionante e dà la sensazione netta di aumentare a ogni lettura. E’ impossibile però individuare un filo conduttore che unifichi in sintesi la sua teologia. Tra quelli proposti, lo schema discesa-ascesa illustrato da G.C.Nicholson[2] è particolarmente aderente. Un’espressione posta in bocca a Gesù lo esprime con tutta chiarezza: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo. Ora lascio il mondo e vado al Padre” (Gv16,28). L’affermazione decisa “sono uscito dal Padre” colloca inequivocabilmente Gesù a livello stesso del Padre. Se può partire dal cospetto del Padre ciò vuol dire che vive accanto a lui, faccia a faccia con lui. Questa intuizione teologica è familiare alla Chiesa di Giovanni, al punto da diventare oggetto di una celebrazione liturgica che poi confluisce nel prologo del vangelo (Gv1,1-18).
Il prologo è costituito da un inno prima a sé stante che il redattore riprende e incorpora nel testo del vangelo, con l’aggiunto di alcune indicazioni esplicative. Proprio all’inizio dell’inno primitivo che coincide con l’inizio del IV vangelo leggiamo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo” (Gv1,1). Quando nel IV vangelo troviamo, come accade qui, “Dio” con l’articolo (ho theos), si ha un’implicazione semantica trinitaria: Dio significa il Padre. La Parola che, come viene precisato nel seguito dell’inno (Gv1,14), diventa uomo e che, fatta uomo, sarà chiamata Gesù, si trova allo stesso livello trascendente che compete al Padre e – si afferma esplicitamente – è Dio come il Padre.
Gesù “esce” dal Padre per venire nel mondo, per essere, cioè, un uomo a contatto con gli uomini. Questo passaggio – più tardi la teologia lo denominerà “incarnazione” – comporta un contatto articolato con la situazione degli uomini e ce ne dovremo occupare. Intanto c’è da sottolineare che questo “uscire” di Gesù non solo non abbassa il suo rapporto con il Padre, ma tende addirittura a esplicitarlo. A contatto con gli uomini, Gesù guarda costantemente al Padre. Il Padre con cui Gesù sta in contatto permanente è per lui il paradigma irrinunciabile su cui modella il suo agire. Non saprebbe prendere un’iniziativa, non saprebbe assumere un atteggiamento senza “vederlo” prima nel Padre (Gv5,19).
Inviato dal Padre, Gesù possiede in pieno la vitalità del Padre, vive in forza e in funzione di lui (Gv6,57). Proprio perché possiede questa vita e perché guarda al Padre, Gesù potrà dare la vita come fa il Padre ed esercitare a nome del Padre il giudizio sugli uomini (Gv5,19-30). Il rapporto tra Gesù e il Padre non potrebbe essere più stretto ed è tutto basato sull’amore: “Il Padre”, dichiara Gesù, “ama il figlio e gli mostra tutto ciò che egli fa” (Gv5,20). All’amore del Padre, Gesù Figlio corrisponde in maniera adeguata. Ricerca la volontà del Padre e il compimento dell’opera sua con avidità: la volontà del Padre è il suo cibo (Gv4,34; cfr.Gv8,29; 11,9-10). Concerterà col Padre il dono della sua vita a favore del suo gregge (Gv10,18), e, pur sentendo tutto il peso della sua “ora” (Gv12,27), non esiterà ad affrontarla per dimostrare agli uomini che lui ama il Padre e si comporta come il Padre gli chiede (Gv14,31).
Riassumendo, potremo dire che Gesù parte dal Padre e viene nel mondo nel senso preciso che diventa uomo e si rende visibile e accessibile agli uomini, ma, in realtà, lui il Padre non lo lascia mai.
L’antico inno liturgico dice: “E il Verbo si fece carne e dimorò tra noi e abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv1,14). Gesù, venuto a contatto con gli uomini – nel “mondo” qui nel senso di “umanità” - agisce per gli uomini e vive per loro. Mette la sua dimora in mezzo a noi con l’intento di condividere tutto. Divenuto “carne”, accetta la condizione umana, con tutti i risvolti che comporta: gioirà con gli uomini, soffrirà con loro, si turberà e scoppierà in lacrime vedendoli piangere (Gv11,33-35). Si stancherà, avvertirà lo stimolo della sete e della fame (Gv4,6-7).
La manifestazione del Padre, la «verità», passa tutta attraverso Gesù, al punto che potrà dichiarare, con un massimo di personalizzazione, di essere proprio lui la «verità» (Gv14,6). Rivelando il Padre, Gesù rivela se stesso, quello che lui è, la sua realtà, in una parola, per usare la terminologia del IV vangelo, la sua «gloria».
Il paradosso: Giovanni è più storico!
i 3 viaggi a Gerusalemme
termini aramaici
kephas 1,42
messias 1,41
gabbata 19,13
luoghi 3,23 Ennon vicino Salim
usanze
18,28 non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua
le diverse feste /festa delle capanne, ecc. )
la questione della cronologia della Pasqua!
Gv non conosce i sinottici, ma le tradizioni orali precedenti
R. Penna, Letture evangeliche. Saggi esegetici sui quattro vangeli, Borla, Roma, 1989, p. 194
Rispetto ai Sinottici, si riconosce a Gv un quadro storico più fedele.
Due virtù e due peccati
P.de la Potterie: Nell’ultima cena Gesù dice: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9). E’ il versetto centrale del quarto Vangelo. Vedere fisicamente Gesù non bastava, ovviamente: anche i suoi nemici lo vedevano eppure lo ritenevano semplicemente un uomo di Nazareth, anzi un impostore. Ma vedere e udire fisicamente Gesù, un uomo con un volto, una carne, era indispensabile, per pervenire progressivamente a contemplare in lui, con l’occhio della fede, il Figlio di Dio, cioè a scoprire in lui il Verbo fatto carne. E’ Gesù, con le parole, i gesti, i miracoli, con tutta la sua presenza, che introduce al Mistero e conduce dal “vedere” un uomo di carne al riconoscere, in quella carne, il Verbo di Dio. Il “vedere” fisico, per tutto il Vangelo, è la via d’accesso al Mistero. Questa pedagogia del vedere diventa esplicita – è Gesù stesso che la spiega – nel capitolo 20. E pochi finora sembrano averlo capito.
Partiamo adesso da un altro celebre testo giovanneo: «Dio è amore» (1 Gv 4, 8. 16). Qui di nuovo dobbiamo insistere sull’assoluta novità di una tale affermazione. Nelle altre religioni si parla per esempio della profondità del mistero di Dio, della sua grandezza, della sua eternità, della sua giustizia, ecc. Ma solo il cristianesimo ci insegna: “Dio ha tanto amato il mondo che ha mandato il suo Figlio unigenito affinché chiunque crede in lui [...] abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).
Una tale rivelazione trasforma la morale cristiana. Gesù ci ha lasciato un solo comandamento, che è un comandamento nuovo, quello di amarci gli uni gli altri, come lui ha amato noi (Gv 13, 34). Solo così si spiega il fatto, a prima vista paradossale, che tutta la morale giovannea è praticamente “una morale della verità”. Si compendia in due precetti fondamentali: la fede (che ci apre al Mistero) e l’amore (che ci fa vivere nel mistero della rivelazione).
L’incontro col fatto cristiano rivela l’apertura o la chiusura del cuore di ognuno di fronte alla scelta di Dio, di fronte al modo storico in cui il Mistero ha scelto gratuitamente di rivelarsi. Per questo, per Giovanni l’unico peccato mortale è l’incredulità, che si trasforma in odio. Un’incredulità che non è più indifferenza di fronte a ciò che non si conosce, ma rifiuto e negazione di ciò che si è visto. Può odiare il cristianesimo solo chi in qualche modo lo ha incontrato, chi ha visto e odia ciò che ha visto. Lo dice Gesù stesso, sempre nel capitolo 15: “Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio” (Gv 15,23-24).
L’antiCristo
1 Gv2,22 L’antiCristo è colui che nega il Padre e il Figlio. Chiunque nega il Figlio non possiede neanche il Padre.
Il problema affrontato da Giovanni appare molto simile a quello odierno: come discernere gli spiriti per vedere se provengono effettivamente da Dio? La risposta fondamentale di Giovanni è che il riferimento a Gesù Cristo è la misura su cui basarsi. “Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio” (1 Gv 4,2). E’ interessante notare che è precisamente in questo contesto che Giovanni introduce, primo fra tutti, il termine “anticristo” (1 Gv 2, 18); come altrettanto interessante è considerare qual è la situazione storica che Giovanni ha di fronte. Il fatto è molto attuale: c’è uno scisma all’interno della comunità giovannea, alcuni sono andati via. L’evangelista non ne fa una questione sociologica – sul genere dei discorsi sulla secolarizzazione così in voga nel nostro tempo – bensì colloca questo evento nella prospettiva teologico-escatologica: “Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi” (1 Gv 2, 18). Questi anticristi sono appunto coloro che, pur appartenendo esteriormente alla comunità, non possedevano più lo Spirito di Cristo. “Non erano dei nostri” dice Giovanni; perciò è bene che se ne siano andati, perché “doveva rendersi manifesto che loro, tutti quanti, non sono dei nostri”. Dunque il pericolo di uno spirito separato da Cristo, il pericolo dell’anticristo, è un pericolo eminentemente interno alla comunità dei credenti, cioè alla Chiesa. Anche se Giovanni parla di “spirito del mondo” (“il mondo giace sotto il potere del maligno”), è quel “mondo” penetrato nel seno della Chiesa a costituire la vera insidia per la fede.
Non si può andare oltre Cristo
2 Gv 7-9
Lo Spirito che è lo Spirito di Cristo
cfr. de la Potterie
vi guiderà alla verità tutta intera... vi ricorderà quello che vi ho detto!
lo Spirito, il sangue e l’acqua... valenza sacramentale del vangelo di Giovanni!
Così, nel secolo III, si esprimeva Origene d’Alessandria: “A che ti serve, infatti, che il Cristo sia venuto un tempo nella carne, se non è venuto anche nella tua carne? Preghiamo che la sua venuta sia per noi quotidiana e che possiamo dire: – Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20)” (In Luc. hom. 22,3).
In termini analoghi si è espresso, nel secolo XVII, il mistico tedesco Angelus Silesius: “Mille volte nascesse Cristo a Betlemme, / ma non in te, sei perduto in eterno!” (Il Pellegrino cherubico I,61).
Il discepolo che Gesù amava e la redazione del vangelo (note introduttive)
duplice conclusione 20,30-31 e 21, 24-25
in 21,24 sappiamo che la sua testimonianza è vera
cacciata dalle sinagoghe 9,22 12,42 16,2
con un vocabolo specifico aposynagogos
legata con la XII benedizione, la Birkat haminim (maledizione dei separati), inserita da rabbi Gamaliele tra l’80 e il 90 d.C. (comportava la scomunica e l’esclusione dai diritti della religio licita)
il discepolo che Gesù amava 21,24 e 21,20-23
la risposta di Achille Tronconi (vedi www.gliscritti.it )
cfr. DV 18 origine apostolica