«Potremmo evitare metà degli aborti» dice Paola Bonzi del Centro di aiuto alla vita (Cav) della Mangiagalli di Milano. Un’intervista di Marina Corradi
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Riprendiamo da Avvenire del 13/1/2008, l’articolo di Marina Corradi, per il Progetto Portaparola
Il Centro culturale Gli scritti (18/1/2008)
Nel soggiorno della sua casa milanese la stanza è quasi buia, ma Paola non se ne accorge: è cieca da quando aspettava il suo secondo figlio. Il Centro di aiuto alla vita della Mangiagalli lo ha voluto e fondato lei. Paola Bonzi, 64 anni, ex insegnante, consulente familiare, dal 1984 dirige il Cav all’interno della più grande maternità di Milano.
È stata quella malattia piombatami addosso durante la gravidanza che mi ha spinto a occuparmi di maternità. Mio padre una mattina mi prese da parte: 'Ricordati, a questo bambino io voglio già bene'. Io non ho mai pensato di abortire, ma mi sentivo così fragile: come lo avrei cresciuto quel figlio?
Per questo ha scelto di 'lavorare gomito a gomito' con le donne. In questi 24 anni sono 9000 i bambini messi al mondo da madri aiutate da Paola Bonzi, fra mille difficoltà: fino a poco tempo fa il Cav era una sorta di ospite dimenticato nell’ospedale. Poi il recentemente scomparso primario Giorgio Pardi, che pure era abortista, si accorse che il 53% degli aborti riguardava extracomunitarie. E si adoperò perché le donne che arrivano per una Ivg venissero a conoscenza del centro. Nel 2006 i nati grazie al Cav sono stati ben 833, un aumento dell’83%. Perciò, mentre si discute di moratoria, abbiamo voluto chiedere a Paola Bonzi che cosa concretamente aiuta una donna a tenersi un bambino; visto che tante volte lei ci è riuscita.
Molte delle donne che abortiscono sono straniere e povere, e spesso basta un sostegno umano e economico perché cambino idea.
Ma parliamo invece di quell’altra metà, che abortisce perché un figlio non lo vuole. Lei a queste donne che cosa dice?
Io non 'dico' proprio niente. È questo l’errore di fondo, pensare che si debba predicare, quando occorre prima di tutto ascoltare. Se io dicessi alle donne cosa 'devono' fare, abortirebbero il giorno dopo. Invece, occorre lasciarle parlare, anche per ore, del loro 'no': di tutte le ragioni per cui di quel figlio non ne vogliono sapere. Con assoluta libertà. Perché – parlando di quante non hanno problemi economici o concreti – ci sono due obiezioni fondamentali alla maternità. La prima è una 'inadeguatezza' che la donna avverte di fronte all’idea di un figlio, la sensazione di 'non essere capace'. La seconda è una sorta di ambivalenza: un desiderare il bambino e nello stesso tempo negarlo, ma a un livello nemmeno cosciente. Ho conosciuto donne che hanno abortito figli lungamente desiderati. Esempio straordinario di questa ambivalenza è la Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci: che con suo figlio nel ventre parlava, e già lo amava, e però diceva: vedi, io ho tante cose da fare, non posso solo stare qui e pensare a te. E alla fine la Fallaci, cui i medici avevano ordinato il riposo, accetta un’inchiesta impegnativa all’estero, e finisce con il perdere il bambino. Ricordo una signora in visone che venne da me, incinta di due gemelli. Per averli si era sottoposta a una stimolazione ovarica. Mi disse: «Voglio abortire». A che mese è, chiesi. «Alla 22esima settimana », rispose. Sa che potrebbero nascere vivi, domandai? «Non importa, non li voglio». Il marito accanto disse con dolcezza che lui, invece, li voleva tantissimo. La signora prese a parlare. Quei figli li aveva cercati perché sua madre ci teneva tanto, a essere nonna. Ma ecco, la madre era morta pochi giorni prima. E ora la figlia di quei bambini non se ne faceva più niente. Li aveva fatti solo per compiacere la mamma. Parlò per due ore, io la ascoltai quasi senza una parola, se non per dire alla fine: «Se ha bisogno di aiuto, io qui ci sono sempre». I due se ne andarono, non ne seppi più niente per qualche mese. I due gemelli nacquero. La madre mi telefonò anni dopo, nel giorno del loro settimo compleanno, per dire: «Grazie, siamo felici».
Ambivalenza, un sì e un no insieme alla maternità. Perché?
Spesso dietro c’è una cattiva relazione con la madre – l’ombra della madre è presente dietro a moltissimi aborti. Ma direi che questa ambivalenza è in realtà insita nella stessa femminilità. Alla straordinaria capacità di dare vita della donna, che può volgersi in distruttività, se la sua ansia non viene contenuta. In questo senso, io dico che cerco di essere un 'utero' accogliente per queste madri, perché lo diventino anche loro. Perché, mi creda, si aiuta solo dentro una relazione. Da bambina quando andavo a scuola a Milano, in piazza Baracca, passavano due tram. Uno andava dritto e uno doveva girare, e il tramviere scendeva con una leva a azionare lo scambio a mano. È un’immagine che ho sempre in mente, quel 'clac' dello scambio che faceva andare il tram in un’altra direzione. Un pezzo di binario di pochi centimetri cambiava tutto. È quell’istante, che cerco ogni volta con una donna. E che può accadere quando capisce se stessa e illumina le sue risorse, che spesso non conosce.
Succede che una donna rinunci all’aborto all’ultimo momento?
Succede. Mi è capitato di essere chiamata alle sei e trenta del mattino, l’ora in cui le pazienti in reparto vengono avviate in sala operatoria. Mi trovai davanti una ragazza che piangeva, piangeva e non riusciva a parlare: diceva solo «Non posso» e riprendeva a piangere. Le altre già erano andate, e lei no. Alla fine una infermiera le disse su, andiamo, e lei andò. È una scena che non dimenticherò mai. È molto frequente che le donne in attesa dell’intervento piangano. Ed è un pianto che non trova ascolto, e questo è terribile. È terribile che non ci sia nessuno a ascoltarle, a dire: aspetta, pensaci ancora.
Che cosa cambierebbe della 194?
Premesso che ritengo l’aborto un male che produce nella donna un male devastante – negli Usa questi danni (depressione, autolesionismo, rottura col partner) sono studiati e documentati –, io devo dire che ho letto esegeticamente il testo della legge, e trovo che il legislatore avesse l’intenzione di scoraggiare l’aborto aiutando la donna a rimuoverne le cause, e di consentirlo solo per gravi problemi fisici o psichici della madre. La 194 però non è mai stata applicata nella sua interezza, in quelle parti che potrebbero aiutare la donna e diminuire gli aborti. Mai applicata: nei consultori spesso il lavoro preventivo non si fa, e quindi non si rimuovono le cause della scelta. Trovo inoltre molto grave che si voglia introdurre la Ru486, che da un lato banalizzerebbe l’aborto, e dall’altro lo riporterebbe in un ambito privato e nascosto.
Secondo lei, che cosa si può fare concretamente oggi in Italia contro l’aborto?
Io credo che se i consultori lavorassero davvero, se i colloqui con le donne fossero fatti da operatori preparati, se alle donne indigenti venissero dati aiuti come facciamo noi al Cav, metà dei 130mila aborti annui non ci sarebbero. Si salverebbero 60mila bambini. Il problema vero è il pregiudizio che accompagna un lavoro come il nostro, il fanatismo ideologico che da vent’anni ci osteggia accusandoci di terrorismo psicologico. Nel dicembre 2006 ci fu un presidio dei Radicali contro di noi in Mangiagalli, e tra i manifestanti ce n’era uno che alzava un cartello: «Grazie Paola, per Omar». Era l’amico di una donna che aveva partorito con il nostro aiuto. Però, quel ragazzo era ancora lì a manifestare contro di noi. L’ideologia, il credere di sapere già tutto delle ragioni degli altri, è la bestia più grama che ci sia. Ma, oltre alla attività nei consultori, io credo nell’educazione. Mostrare ai ragazzi le immagini di un embrione che si sviluppa, e come già a poche settimane ha la forma di un uomo. Educare a riconoscere la realtà, contro la cecità della ideologia».