A quarant'anni da Sacrosanctum Concilium: audacia e pazienza nella riscoperta della centralità liturgica, di Andrea Grillo
Riprendiamo dal volume Il Concilio davanti a noi, a cura della Presidenza Nazionale FUCI, AVE, Roma, 2005, pp. 41-50 un testo di Andrea Grillo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti sulla questione liturgica, vedi la sezione Catechesi e pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2012)
"È venuta l'ora, a noi sembra, in cui la verità circa la Chiesa di Cristo deve essere esplorata, ordinata ed espressa, non forse con quelle solenni enunciazioni che si chiamano definizioni dogmatiche, ma con quelle dichiarazioni con le quali la Chiesa con più esplicito ed autorevole magistero dichiara ciò che essa pensa di sé."
Paolo VI, 29/09/1963
(Apertura II Sessione Conc. Vaticano II)
A quarant'anni dall'approvazione del primo dei grandi documenti conciliari - la Costituzione Conciliare De Liturgia "Sacrosanctum Concilium" (SC) - non possiamo dire di averne del tutto compreso gli intenti e gli orizzonti. Certo, come per nessun'altra tra le grandi espressioni del Concilio, SC ha avuto, nel giro di pochissimi anni, i suoi primi effetti diretti sul corpo ecclesiale, sull'esperienza dei singoli, sulla vita delle comunità, sull'immaginario e sulla lingua di milioni di credenti.
Ma questa immediata traduzione 'pratica' del Concilio non ha soltanto giovato alle 'ragioni' della liturgia. Forse, proprio per questa immediata trasformazione in 'riforma', la logica di se e le sue aspirazioni più profonde non sono ancora emerse chiaramente alla vista dei cristiani di oggi.
Vorrei cercare di ricordare SC anzitutto collocando il suo dettato nel clima del Movimento Liturgico, che ha preparato la cultura liturgica del Novecento, per poi indicare quali punti-chiave di SC abbiano conosciuto una recezione difficile e spesso siano rimasti quasi ignorati in questo quarantennio che ci separa da (e ci unisce) a SC.
1. Il Movimento Liturgico, Mediator Dei e Sacrosanctum Concilium: idee di fondo e grandi intuizioni profetiche
Bisogna anzitutto chiarire che SC fu non a caso il primo frutto maturo del Concilio, poiché aveva alle spalle una preparazione prossima e remota che non poteva essere confrontata con nessun altro ambito di vita e di pensiero della Chiesa. Il Movimento Liturgico, che aveva segnato pressoché tutto il XX secolo, a partire dal 1909, aveva prodotto una tale mole di "cultura liturgica", da indurre, già 16 anni prima di SC, nel 1947, il magistero di Pio XII ad affrontare toto corde la questione liturgica nell'enciclica Mediator Dei (MD).
Così non si può non restare sorpresi dal fatto che in soli 16 anni per ben due volte si sia sentito il bisogno di una grande sintesi complessiva in materia di liturgia. È legittimo chiedersi: che cosa era successo nella vita della Chiesa, per giustificare un così pressante interesse?
La risposta che dobbiamo dare è che non è possibile comprendere né il Movimento Liturgico, né MD e neppure SC, senza tener conto che dal 1800 si era aperta nel corpo ecclesiale quella che venne chiamata "questione liturgica", ossia una domanda radicale sul senso e sulla portata dei riti sacramentali nella vita della Chiesa. Oggi fatichiamo a comprendere quale fosse l'imbarazzo di quelle generazioni che, essendo state educate a emarginare la liturgia in una zona cerimoniale e lontana dalla fede e dalla spiritualità, lentamente cominciarono a riscoprire i testi antichi, non solo la Scrittura, ma anche i Padri, e poi anche i rituali del primo e del secondo millennio, ponendo l'esigenza di una riabilitazione della liturgia nel suo ruolo centrale e fontale per la vita della Chiesa.
All'inizio questo non fu affatto facile. Anzi, per una serie di decenni, almeno fino agli anni Quaranta, questo nuovo sguardo favorevole alla liturgia venne frainteso, sospettato, e quasi si ritenne di doversi difendere da esso: la stessa enciclica MD testimonia bene questo atteggiamento ambivalente, preoccupato di accogliere le novità positive del ML, ma non disposto a concedere alcuna svolta sul piano teologico e spirituale.
In certo modo, fino a MD, la riscoperta della liturgia sembra rimanere (almeno ufficialmente) lontana da ogni impatto sulla vita spirituale e sulla riflessione teologica della Chiesa. Lo stesso linguaggio di MD risente ancora di stili espressivi ed esperienziali in cui il linguaggio della contemplazione prevale sempre e sistematicamente sul linguaggio dell'azione.
Da questo punto di vista, SC costituisce un salto qualitativo che ci è difficile valutare, proprio perché manchiamo quasi del tutto del registro espressivo ed esperienziale precedente. Sarebbe sufficiente considerare tre aspetti-chiave di questo mutamento di stile e di registro:
a) dalla definizione del culto mediante categorie generali e astratte, di carattere strettamente neoscolastico (ancora dominante in MD) si passa a una esposizione del senso della liturgia narrata come prosecuzione della storia della salvezza nel tempo;
b) una tale presentazione della liturgia apre a una ecclesiologia del mistero e della comunione, nella quale la Chiesa "si riceve" nella liturgia: in certo modo, con se è chiaro che la liturgia non è anzitutto qualcosa che la Chiesa gestisce, quanto piuttosto la Chiesa è frutto della liturgia, che così appare come culmen et fons (SC 10) di tutta l'azione ecclesiale;
c) ciò significa, infine, una serena apertura al nuovo, nella riconsiderazione dell'essenziale dell’ecclesia, che non è semplicemente ciò che si è ricevuto dalla tradizione più recente, ma ciò che attraversa i secoli e che appare a volte offuscato da interferenze legate a contingenze di minore importanza. Questo comporta il bisogno di "riformare" i testi e i gesti per riportarli all'antica e sempre nuova verità essenziale;
d) ma ciò significa, nondimeno, che questo lavoro lungo e attento di "riforma dei testi e dei gesti" ha la funzione di permettere di nuovo alla liturgia di essere fonte e culmine di tutto ciò che la Chiesa fa. La Riforma serve all'Iniziazione, ossia a rinnovare la capacità del culto liturgico di stare alla base delle azioni e dei pensieri, delle parole e delle immagini con cui la Chiesa, lasciandosi guidare dal suo Signore, interpreta se stessa e il mondo.
2. La liturgia come "rito della fede" e il lavoro teologico
Considerando obiettivamente la vicenda degli ultimi quarant'anni, è evidente che il recupero di senso della liturgia ha avuto bisogno di una condizione umanamente elementare: prendere le distanze da quel passato che aveva oscurato questo suo senso, e aveva ridotto la liturgia a un meccanismo sacrale di concessioni di grazie e di etichette formali. Di fronte a questo passato era naturale che, per emancipare la liturgia da una pericolosa forma di cattività ritualistica, si sia ritenuto di dover giungere perfino a negarne la natura rituale. Per essere riscoperta come rivelazione, la liturgia doveva essere compresa ed esposta "senza il velo" del rito. Per essere rivelante doveva essere disvelata dalla sua veste rituale. Questo fenomeno di 'deritualizzazione' è avvenuto a tal punto, da far passare subito dopo questa negazione per una ovvietà, in realtà tutt'altro che ovvia.
Ma già oggi, a pochi decenni dal Concilio, appare chiaro il vicolo cieco in cui si era chiusa questa prospettiva: negare che la liturgia sia rito significa negare che la liturgia sia liturgia, e quindi che possa essere momento fondamentale della Rivelazione. Ancor oggi quello che nobilita la liturgia sembra essere tutto il discorso che si può fare sopra, dietro, sotto e comunque 'oltre' il suo aspetto rituale, e non la sua specificità di esperienza rituale.
Ebbene, se tutto ciò ha avuto una sua urgente verità, tuttavia non ha spostato di un millimetro il vero problema di cui la Riforma conciliare intendeva occuparsi: essa doveva affrontare la sfida per cui "il discorso teologico cristiano accade nel divenire della storia anche e fondamentalmente nella modalità del rito".
Tutte le resistenze nei confronti del rito - come anche i ciechi affidamenti ad esso - non erano che lo specchio di una situazione determinatasi in modo del tutto nuovo nel nostro secolo: lo sradicarsi dei soggetti, lo spegnersi di infinite tradizioni e il declinare di quasi tutti i riti. Di fronte a questa crisi del rito, la teologia pensava di trovare una via breve per autogiustificarsi in relazione al passato: pretendeva di rispondere alla crisi del rito facendone a meno, dicendo la propria verità indipendentemente da esso, addirittura contro di esso: potendo (o volendo) evitare di fare i conti con il rito, quasi che fosse soltanto il retaggio di un mondo ormai (giustamente) tramontato, scommetteva su una sua identità di cristianesimo liberato dai riti.
Ed è significativo che proprio la rimotivazione teologica della liturgia abbia spesso contribuito in modo determinante non a risolvere, ma soltanto a rimuovere il problema del rito, affidandone la soluzione o alla casualità della vita, o alle varie forme di iniziazione (clericale, monastica, movimentista-settaria), o al mascheramento del rito sotto le vesti del ritualismo, con ciò finendo per perdere la coscienza della sua radicale legittimazione teologica.
La liturgia del futuro potrà ritrovare la forza delle proprie radici solo ricomprendendo a fondo la propria natura di rito per la fede: senza questa ritrovata pregnanza del rito, la liturgia finisce per essere soltanto l'esposizione simbolica di ragionamenti teologici - di per sé sempre molto più chiari e persuasivi - oppure la meccanica esecuzione di precetti senz'anima.
3. Excursus: liturgia e linguaggio non verbale
Si è scritto di recente (P. De Clerck) che la nascita di una vera teologia liturgica si è verificata quando si è passati dall'attenzione soltanto per le parti scritte in rosso dei libri rituali (le famose "rubriche"), alle parti scritte in nero (i testi delle letture e delle orazioni). In realtà noi dobbiamo sapere che il movimento è molto più complesso:
a) anzitutto, si è trattato di riscoprire che la liturgia aveva qualcosa da dire, rispetto a una sua fondamentale impenetrabilità incomprensibile: si è passati così dal non- verbale al verbale;
b) poi ci si è resi conto che, per capire davvero ciò che potenzialmente era divenuto comprensibile, occorreva riscoprire la parte 'non-verbale' della liturgia. Insomma, dalle rubriche ai testi e poi, di nuovo, dai testi alle rubriche. Altrettanto interessante è interrogarsi sull'emergere attuale dell'interesse per il 'non-verbale' nella 'storia', del rapporto tra riflessione teologica e culto cristiano. Potremmo scandire anche qui in un doppio movimento, la vicenda che ci interessa.
Prima fase (fino alla Riforma)
1) All'inizio le uniche domande che si poneva la riflessione sul culto cristiano riguardavano il suo 'come': come si doveva celebrare quel determinato sacramento? Quale era il suo rito corretto? Questa, per lunghi secoli, è rimasta l'unica vera 'competenza' liturgica riconosciuta. Una competenza importante, ma eminentemente pratico-tradizionale;
2) in parte parallelamente a questa fase, ma poi soprattutto negli ultimi secoli è avanzata una seconda domanda, circa il 'che cosa' si celebra. Ci si interrogava non più sul modo, ma sull'oggetto (e sul soggetto) della celebrazione. Con questa domanda, nasce la vera riflessione teologica sul culto. Essa è certamente qualcosa di tradizionale, ma ha trovato negli ultimi due secoli un impulso nuovo e per certi versi inedito (basti pensare, a questo proposito, all'interesse del Magistero a partire dal XX secolo: MD e SC);
3) la domanda più recente - non assente nella tradizione, ma totalmente riformulata negli ultimi decenni - è quella che riguarda il 'perché' si celebra. Questa domanda è emersa soprattutto alla radice del ML e poi soprattutto dopo la riforma conciliare, a supporto della forza con cui la riforma poteva diffondersi e per potenziarne il 'lato iniziatico'.
Seconda fase (dopo la Riforma)
1) Si comincia dalla fine, dalla domanda sul 'perché', che fa quasi da ponte e da continuità: l'ultima della prima fase è la prima della seconda.
2) Si ritorna alla domanda sul 'che cosa', che subisce una profonda modificazione, proprio a causa del radicale interrogativo sul 'perché'. L'oggetto/soggetto della celebrazione acquisisce una più forte unità teo-antropologica, data la risposta alla domanda affrontata per prima.
3) Infine si arriva al 'come' con un occhio e un gusto nuovi: questo come si carica di tutte le ricchezze colte in quella risalita e in questa discesa. Nel 'come si celebra' nell’aspetto rubricale/non-verbale - si scoprono tesori prima insospettati/insospettabili e ora sorprendentemente a portata di mano, ma anche terribilmente imbarazzanti.
Pertanto, dal 'non-verbale' si era partiti, all'inizio della prima fase, e al 'non-verbale' si ritorna, alla fine della seconda fase. Ma se è vero che alla partenza sta la rubrica e all'arrivo sta il 'non-verbale', si potrebbe dire: tanta strada per nulla?
Niente affatto: nulla sarebbe più dannoso di un giudizio simile. Finché non si torna al punto di partenza (come nel Giro del mondo in 80 giorni o nelle Variazioni Goldberg di Bach) non si può dire di aver fatto veramente tutto.
Il 'non verbale' - rispetto alla rubrica - dice molto di più: non è semplicemente opposizione al verbale, ma sua delimitazione, integrazione e condizione; indica un 'primato dell'atto' rispetto al concetto; rivela un potenziamento dell'intersoggettivo sul soggettivo/oggettivo: riscopre la dimensione 'relazionale dell'atto di fede' rispetto a ogni sua obiettivazione o statica riduzione.
La rubrica aveva senza dubbio 'anche' questa funzione, nessuno può negarlo, e sarebbe paradossale proiettare su un tempo che non è il nostro tutti i nostri difetti (intellettualistici e astratti). Però è vero che se avessimo continuato a guardare il 'non-verbale' come 'rubrica', non avremmo mai capito la sua preziosità. Con SC abbiamo intrapreso un tale atto ermeneutico di rilettura della tradizione 'rubricale' come sporgenza 'non-verbale' rispetto a tutto ciò che può essere detto nella Chiesa.
4. Conclusione
Anche attraverso il breve excursus abbiamo cercato di osservare meglio la complessità delle questioni aperte dal nuovo sguardo sulla liturgia, che il Movimento Liturgico ha introdotto nel XX secolo e che SC ha assunto al più alto grado di autorevolezza come oggetto della 'sollecitudine' della Chiesa.
Un ritorno 'critico' a SC è dunque, per la Chiesa di oggi, una necessità di prima importanza. Per farlo, occorrono alcune semplici avvertenze, che formuliamo come una serie di consigli:
- uscire dalla 'retorica' conciliare, come unico modo per lasciar davvero la parola al Concilio;
- scoprire il valore della 'azione sacra' come fondamento, uscendo da una visione 'devozionale' della contemplazione;
- perciò praticare, sia pur faticosamente, ma con entusiasmo, un'autentica spiritualità liturgica;
- non scavalcare il rito cristiano con i valori, guardando alla fede come a una "wertlose Wahrheit” (Juengel);
- ritrovare il primato dell'iniziazione cristiana sul settenario sacramentale (ad es. per impostare il rapporto eucaristia/penitenza);
- ricordare ciò che è più essenziale: la Chiesa non è solo liturgia, ma è anzitutto e ultimamente liturgia!;
- riscoprire un'accezione (nuova e antica) di "Riforma Liturgica": non più anzitutto la riforma che la Chiesa fa della Liturgia, ma piuttosto, e soprattutto, la riforma che la Liturgia fa della Chiesa.
Audacia e pazienza sono le virtù necessarie per tutto questo. E troppo spesso, in fatto di riti e di liturgia, siamo troppo rinunciatari e, insieme, troppo impazienti. Forse l'atto di maggior coraggio, per il cristiano di oggi, sta proprio dell'avere il coraggio di celebrare il proprio Signore Gesù, come principio della propria trasfigurazione nel Corpo di Cristo. Mentre noi crediamo che il coraggio sia necessario soltanto 'dopo' la celebrazione ...
D'altra parte, se è vero che "la legge fondamentale della liturgia non è 'dire quel che si fa', ma 'fare quel che si dice'" (L. M. Chauvet), allora proprio in questa differenza sta la sfida più importante e più radicale che i prossimi decenni lanceranno a un'autentica recezione di SC, come autorevole risposta che la Chiesa ha voluto dare alla "questione liturgica" e da non intendersi soltanto come principio di una giusta Riforma della liturgia, ma anzitutto come impulso e sostegno a una nuova Iniziazione rituale alla fede cristiana.