L'amore coniugale sorgente dell'azione educativa per le nuove generazioni, di Eugenia Scabini e Marko Ivan Rupnik
Riprendiamo sul nostro sito dall’Agenzia di stampa Zenit il testo della relazione tenuta dalla prof.ssa Eugenia Scabini il 1° marzo 2012 nella cattedrale di San Giovanni in Laterano, presentando insieme alcuni appunti presi nel corso della successiva relazione di p. Marko Ivan Rupnik. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (7/3/2012)
1/ L'amore coniugale sorgente dell'azione educativa per le nuove generazioni, di Eugenia Scabini
Riportiamo di seguito l'intervento della psicologa Eugenia Scabini, direttore del Centro studi e ricerche sulla famiglia dell'Università Cattolica, durante la serata inaugurale dei "Dialoghi in Cattedrale", che si sono svolti ieri sera, giovedì 1 marzo, nella basilica di San Giovanni in Laterano.
Il tema che trattiamo oggi è tra i più impegnativi perché non solo mette al centro la parola amore, parola impegnativa, ma soprattutto perché di tale amore vede il versante della coppia. Oggi il legame coniugale è l’asse più debole della famiglia come testimoniato dal crescente numero di separazioni e di divorzi ma anche della diminuzione dei matrimoni.
Come sappiamo il numero delle separazioni e dei divorzi è in continua crescita. Per avere un’idea dell’ordine dei cambiamenti basti dire che nel 1995 il rischio che un matrimonio finisse in separazione era del 15,8% e il rischio che finisse in divorzio dell’8% mentre nel 2008 gli stessi indicatori sono saliti al 28,6% e al 17,9%. Il numero di matrimoni celebrato in un anno è passato da oltre 400mila nel 1971 a poco meno di 220mila nel 2010 e, nello stesso arco temporale, la propensione a sposarsi si è ridotta del 40% tanto da far dire che se dovessero sedimentarsi i modelli di comportamento osservati in questi anni giungerebbe a contrarre matrimonio non più del 50-60% dei giovani italiani.
Non solo quindi la relazione tende a spezzarsi, a non resistere al passare del tempo, ma addirittura tende a non nascere o a vivere in forma debole (si usa dire “coppia di fatto”) senza che l’impegno verso l’altro venga assunto pubblicamente, cioè con una responsabilità esplicita verso la società (salvo pretenderne i diritti).
Vorrei spendere qualche parola su quest’ultimo fatto e cioè la diminuzione dei matrimoni (non solo religiosi ma anche civili), indice della difficoltà di vedere l’importanza del legame di coppia, del coniugio, una difficoltà per così dire all’origine forse più sintomatica della più nota difficoltà a mantenere nel tempo il legame.
Possiamo dire che la difficoltà è addirittura nel formulare la promessa, nel dire “ti prometto”, prima ancora che essere una difficoltà nel mantenersi fedeli l’un l’altro.
Sappiamo che parte del fenomeno è da attribuirsi alla cosiddetta sindrome del ritardo che affligge i giovani soprattutto nel nostro Paese. Il prolungamento degli studi, (il nostro cosiddetto 3+2…), il difficile inserimento nel mondo del lavoro, spesso precario, la difficoltà di trovare una casa tendono a posporre il tempo della scelta del matrimonio, si finisce spesso così a logorare il legame affettivo indebolendo il desiderio di dare ad esso una forma definitiva. Attualmente la durata media del periodo di fidanzamento è di 5 anni mentre negli anni ’70 era poco più di 3 anni.
Va anche rilevato un ulteriore esito di questo ritardo nelle scelte, spesso non coscientemente valutato. Mi riferisco al fatto che con il passare degli anni, come è noto, diminuisce drasticamente la probabilità-capacità generativa, non ultima causa del calo vistoso della natalità. Vero e proprio dramma sociale come abbiamo rilevato nel volume “Il cambiamento demografico”, del Comitato del Progetto Culturale della CEI.
I fattori socio-strutturali che concorrono a creare questo ritardo nelle scelte definitive della vita vanno senz’altro tenuti in considerazione ma non sono tutto. Essi sono accompagnati e attraversati da una dimensione antropologico-culturale su cui vorrei soffermarmi: da che cosa dipende la difficoltà nell’assumersi un impegno definitivo?
Quello che è in gioco oggi è il concetto stesso di identità adulta. Cosa vuol dire essere adulti, cosa vuol dire essere una persona matura? Sono incerti nel rispondere a questa domanda sia i giovani che gli adulti, sia i figli che i genitori.
Essere adulti nella società odierna vuol dire fondamentalmente essere economicamente indipendenti. Il resto pare un optional. La scelta e l’impegno di dar vita a un progetto matrimoniale è vissuta prevalentemente come scelta rischiosa (e questo è comprensibile) ma, è questo è più grave, si tratta un rischio che non si sa se vale la pena di correre.
Il clima fortemente individualistico della nostra odierna società unitamente alla propensione al consumo veloce di tutto ciò che ci viene consegnato porta ad una idea di realizzazione di sé di tipo narcisistico ed emozionale che mette in ombra l’importanza dell’altro e della relazione come via della propria realizzazione. E questo si sente soprattutto nel legame coniugale che ha come sfida e compito quello di mettere insieme, collegare, armonizzare due persone che sono differenti, non solo per storia familiare ma anche per struttura di genere.
Un uomo e una donna sono invece in un certo senso due universi, due modi differenti di sentire il mondo e la società odierna così apparentemente aperta a far spazio al diverso è invece in difficoltà nel costruire un legame come quello coniugale che ha al centro la differenza sessuale.
E così, passato il tempo più o meno breve dell’innamoramento che tende per sua natura ad enfatizzare gli aspetti di somiglianza e di facile intesa, i due partner sono in difficoltà ad accettare l’alterità dell’altro, la sua differenza, la sua non omologabilità, la sua non totale coincidenza con le proprie aspettative. La relazione di coppia pare poter vivere solo sul versante affettivo e non su quello etico. A dire il vero il versante affettivo è vissuto in senso depotenziato come un fatto puramente emozionale.
Più che di affetti (parola che ha intrinsecamente il riferimento all’altro poiché etimologicamente afficio vuol dire essere colpito da) si tratta di emozioni. Il legame affettivo è in questo caso centrato su quello che il soggetto prova più che sulla presenza dell’altro che colpisce.
Diventa così cruciale il passaggio dall’innamoramento all’amore che richiede una trasformazione sia degli aspetti affettivi (che possono assumere altri toni oltre a quelli passionali) che di quelli etici, di impegno “ per sempre”. Occorre perciò un viraggio culturale forte e un recupero deciso dell’importanza e del valore del legame coniugale ai fini della realizzazione di sé.
Nella Familiaris Consortio è espresso chiaramente il concetto che una persona non si realizza da sé e che il rapporto con l’altro è fondamentale per la realizzazione di sé. Giovanni Paolo II, riprendendo l’enciclica Redemptor Hominis dice “l’uomo rimane per se stesso un essere incomprensibile se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta, se non lo fa proprio, se non vi partecipa veramente”. Egli poi con grande chiarezza afferma che questo principio generale trova una sua applicazione specifica nel rapporto di coppia.
Dice testualmente “l’amore tra un uomo e la donna nel matrimonio e, in forma derivata e allargata, l’amore tra i membri della stessa famiglia tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra parenti e familiari è animato e sospinto da un interiore e incessante dinamismo che conduce la famiglia a una comunione sempre più profonda e intensa, fondamento ed anima della comunità coniugale e familiare”.
Vorrei che non ci sfuggisse la centralità dell’amore coniugale che è fondamento anche dell’amore ai figli (dice infatti che quest’ultimo è derivata dal primo).
Oggi siamo psicologicamente in una posizione rovesciata su questo punto. Il legame coi figli è avvertito ancora dai più come indissolubile mentre quello coniugale è avvertito come facilmente scioglibile. E’ facile capire che non si può essere ex genitori, che il legame col figlio è per sempre, mentre siamo in difficoltà a capire che il legame col coniuge ha una sua eternità.
Ma forse possiamo lo stesso seguire la piega dei tempi e recuperare il rapporto di coppia attraverso il figlio. Infatti il figlio reclama i suoi genitori e ci richiama alla importanza del legame tra di loro.
I figli per crescere, per svilupparsi adeguatamente hanno bisogno non solo di avere un buon padre e una buona madre ma hanno anche bisogno di vedere, di sperimentare, un buon legame tra il padre e la madre. Il figlio è il frutto del loro amore e questo è la prima culla psichica che dà consistenza al piccolo dell’uomo che viene alla luce e che per potersi sviluppare adeguatamente ha bisogno di legami affidabili.
L’azione educativa nasce e può fiorire adeguatamente se può poggiare sulla base sicura di un legame coniugale forte che sa affrontare le prove. Ho detto appositamente che sa affrontare le prove. Penso che sia importante parlare di amore coniugale non nel senso di una retorica quanto irrealistica, automatica intesa d’amorosi sensi. Il rapporto coniugale vive di prove superate, non del compito impossibile di cambiare l’altro, né di idealizzarlo.
Ciascuno di noi ha bisogno di essere amato per quello che è ed il rapporto coniugale può essere una importantissima risorsa se sappiamo nutrirlo e rinnovarlo in ogni stagione della vita, sapendolo costruire quotidianamente, sapendo rinnovare il dono sincero di sé, anche attraverso il perdono reciproco.
A differenza della rappresentazione massmediatica della vita familiare che ondeggia tra immagini di rapporti coniugali fusionali ed edulcorati e rapporti violenti, la Chiesa ci propone con realismo una strada di paziente costruzione di un legame di comunione.
La Chiesa non ignora come “l’egoismo, il disaccordo, le tensioni e i conflitti aggrediscano violentemente e a volte colpiscano mortalmente la comunione” (Familiaris Consortio). Ma ci richiama a non soccombere a queste difficoltà e a far uso di comprensione, perdono, riconciliazione e anche di spirito di sacrificio. E’ capace di educazione verso i figli, non tanto un amore coniugale che non ha vissuto travagli e prove ma piuttosto un amore coniugale che ha saputo affrontarle. E’ anche di grande testimonianza ai figli un amore tenace che sa rilanciare la fiducia e la speranza dopo che si è momentaneamente persa.
Ma dove la coppia coniugale può trovare la forza per superare gli ostacoli, per ritrovare l’amore? Non solo da se stessa ma piuttosto facendo riferimento ad un amore che ci ha preceduto. “Dio ci ha amati per primi” così è l’esordio della Deus Caritatis Est. L’amore coniugale e familiare si radica nel grande mistero della paternità del nostro Dio.
La base sicura della famiglia umana sta in qualcosa che vive al suo interno, nel suo profondo, ma che la eccede radicalmente. Una dolce e al tempo stesso paternità (Giovanni Paolo II nella Lettera alle famiglie parla di dolcissime parole del Padre Nostro) ci precede: precede i figli ma anche i coniugi-genitori. E’ su questa base sicura che la famiglia umana, pur nelle sue incertezze, incoerenze, fragilità, può contare.
Il dono di sé dei coniugi tra loro e verso i figli non nasce dal nulla né pure è un atto eroico di generosità ma è piuttosto una risposta grata a un dono precedentemente ricevuto. Da questa prospettiva ampia e liberante può nascere un progetto educativo verso i figli che non sia solo preoccupato di appagarli nell’immediato, di soddisfarli in tutte le loro richieste per timore di perdere il loro affetto, ma che sappia anche lanciarli in avanti verso una mèta.
Il figlio in questa prospettiva assume una nuova dignità e valore, non è tanto e solo il bambino da possedere e controllare e in ultima analisi da attirare a sé. Daniel Marcelli parla in questo caso dell’educazione che si trasforma in seduzione, è il se-ducere che prevale e oscura il e-ducere. Il bambino-figlio è invece un soggetto in crescita da condurre fuori di sé per introdurlo nella realtà.
Questa bella espressione di Papa Benedetto XVI traduce benissimo l’etimologia della parola educazione. In questa concezione il figlio assume le caratteristiche di una nuova generazione da consegnare alla storia familiare e sociale. La coppia coniugale in questo suo compito educativo si trova a svolgere un ruolo importantissimo di mediatore generazionale. Essa è al centro del passaggio tra le generazioni poiché è chiamata a trasmettere e a trasformare, innovandolo, il patrimonio materiale, affettivo e morale delle generazioni precedenti e consegnarlo alle successive. Questo il suo grande compito educativo che è propriamente il proseguimento del dar vita, un modo di continuare a generare, rigenerando.
2/ L’amore coniugale sorgente dell’azione educativa per le nuove generazioni. Appunti da una relazione di p. Marko Ivan Rupnik
Riportiamo di seguito alcuni appunti presi ascoltando la relazione tenuta da p. Marko Ivan Rupnik il 1° marzo 2012 nella cattedrale di San Giovanni in Laterano durante la serata inaugurale dei "Dialoghi in Cattedrale". I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
N.B. Gli appunti non sono stati rivisti dal relatore e vengono quindi messi a disposizione da Gli scritti al solo fine di conservare memoria dell’intervento senza alcuna pretesa di esaustività.
Il tema dell’amore coniugale è un tema difficile. Molti di voi presenti hanno sofferto per questo amore. Per questo è difficile parlarne. Per questo dobbiamo parlarne affidandoci allo Spirito Santo.
Iniziamo dicendo che la vita segue la sapienza e non le teorie. Educare significa percorrere il sentiero della sapienza, ma la sapienza raccoglie il suo frutto alla fine. Si cammina ricordando la fine, il compimento. Per questo bisogna partire dalla fine: per noi la forma è Cristo, ma questa sarà solo la forma escatologica. Il problema è che l’escatologia è, però, scomparsa. Viviamo oggi nella piena dimenticanza dell’escathon. Noi viviamo totalmente assorbiti dall’al di qua. Mai si dice – ad esempio – che l’eucarestia è la convocazione di tutti i tempi.
Questo ha delle conseguenze drammatiche nella vita di tutti. Proprio perché non si considera la fine della vita, perché si dimentica la prospettiva del futuro, è difficile che un giovane vada da un anziano a chiedere: “Cosa conta nella vita?”. Gli anziani sono lontani, non vengono presi in considerazione. Ma così scompare la sapienza, che essi potrebbero insegnare. Essi potrebbero mostrare cosa vale nella vita alla fine.
Il nostro tempo si affida, invece, alle teorie pedagogiche e non alla sapienza. Ma se si disprezza la sapienza, la vita si vendicherà! Le teorie e gli ideali non reggono. La vita non funziona con teorie che la forza di volontà dovrebbe poi portare nella prassi. Questo modo di procedere genera solo una grande superbia ed un orgoglio che producono poi un prosciugamento interiore.
Una vita destinata alla morte non può mai provare la felicità. Può semmai dare “qualche soddisfazione”, ma non genera felicità. Lo ricordano la Sapienza, al capitolo secondo, ed il Qoèlet, sempre al capitolo secondo: la morte svuota tutto. E noi non possiamo cambiare le cose solo con il nostro sforzo. Noi difendiamo la vita legata al nostro sangue ed ai nostri propositi: la vita dell’uomo vecchio. Ma i propositi fondati sulla vita naturale, legata al nostro sangue e non a quello di Cristo, sono condannati a una permanente frustrazione.
Cosa è successo? È successo che il mondo ci ha preso tutto. Ci ha preso il nostro modo di arredare le case, il modo di vivere il lavoro, il modo di vivere il tempo e l’estate. Non si vede alcuna differenza fra il modo di arredare la casa di un cristiano e di uno che non crede, fra il modo di vivere l’esatte di un cristiano e di uno che non crede. Quasi tutti gli ambiti della vita familiare sono gestiti dal mondo. A noi rimangono alcune idee, qualche presunto valore, qualche modesta partecipazione a qualche attività, ma lo stile di vita e dunque il contenuto della vita è del mondo. Lo vediamo già nell’educazione del bambino, dal ruolo che assume in una casa il televisore o il computer: l’epicentro della vita familiare è l’opinione pubblica.
Dobbiamo, invece, riscoprire la novità del Battesimo. C’è un testo meraviglioso di San Giovanni Crisostomo che dopo avere rilevato che c’erano stati meno battesimi quell’anno, commenta: “Come viviamo la nostra vita, che non attira più?”. Noi non sappiamo più organizzare una sola serata che non sia secondo il mondo. C’è un’incapacità di creare la bellezza e di essere attraenti con la vita che si vive, con la cultura che si crea, e non si può fingere.
Il fatto è che noi non possiamo renderci felici da soli. La felicità è una realtà della comunione. Non la puoi produrre. Devi essere visitato dall’amore. Se non c’è l’amore non ci sarà la bellezza, perché la bellezza è l’amore realizzato. Ma l’amore è la verità, cioè la vita che rimane che è la comunione trinitaria.
Se l’amore è vero, questo amore trasfigura tutto secondo se stesso. Le cose, allora, rivelano l’amore che abita in quella cose. Ma questo non si forma con le idee! Pensate all’Europa. L’Europa ha imparato tutto dalla liturgia! Mangiando pane eucaristico mangiava l’amore di Dio. E nelle case, mangiando il pane della cena si mangiava l’amore della donna che l’aveva preparato.
Ecco il grande bivio: o il matrimonio è il sacramento che si fonda sulla vita divina ricevuta nel battesimo (come risulta dal rito sacramentale stesso) e dunque capace di assumere e trasformare tutto ciò che è della vita naturale nell’uomo oppure si pensa che il matrimonio sia un amore naturale che assume il sacramento, diventa il sacramento, cresce nel sacramento.
Ma se pensiamo che l’amore naturale possa diventare sacramento siamo fuori strada. Chi ti può convincere, da un punto di vista umano, che avrai la vita eterna sacrificando te stesso? Solo l’amore di Dio ti può convincere di questo!
Se pensiamo invece che questo amore cresce a partire dalla vita ricevuta al Battesimo, allora questo amore è sacramentale e può assumere anche la vita naturale e redimerla. Per questo il sacramento è solo per i battezzati.
Solo Dio unisce le persone. E solo passando per la morte di se stessi si diventa uno. Il cuore lo sa questo! Se l’unione tra uomo e donna parte semplicemente dalla vita naturale, quella ereditata dai genitori per intenderci, prima o poi si troverà su di uno scoglio drammatico, perché la reale comunione di due persone avviene in modo trinitario, divino.
Solo Dio unisce le persone e la forma dell’amore di Dio nella storia è la pasqua. A un certo momento l’amore solo naturale non è sufficiente argomento per sostenere e giustificare il sacrificio di sé. È Cristo stesso ad affermare che non si passa dall’umano al divino, perché non è l’uomo che si è fatto Dio, ma Dio che si è fatto uomo.
Il matrimonio è un sacramento, cioè è una reale partecipazione all’amore di Dio che si realizza nella pasqua delle persone, le quali vivono la loro parte della pasqua di Cristo, partecipano per mezzo dello Spirito Santo alla vita di Cristo cioè la figliolanza. La vita spirituale non è un accessorio. Noi non riusciamo ad essere cristocentrici se dimentichiamo lo Spirito.
Questo è necessario capire, se noi vogliamo educare, se vogliamo che i figli possano partecipare alla comunione pasquale dei genitori. Nell’AT l’unica cosa ferma è l’alleanza. Nel NT l’unica roccia è la figliolanza di Cristo.
In questa transizione dove tutto è liquido, instabile, fuggente e ingannevole l’uomo cerca i punti di sicurezza, di riferimento e di appoggio, anche i punti della sua stessa identità. Qualsiasi cosa l’uomo trova come suo riferimento e punto stabile, sia nel mondo materiale, economico, sociale culturale giuridico o ideale, sarà sempre qualcosa di esterno che mai in definitiva farà parte interiore della sua identità che lo potrà salvare dall’oblio e dalla morte. Solo la comunione nell’amore libero è il punto stabile come abbiamo visto prima, solo la comunione dell’amore pasquale è più forte della morte.
Perciò è il matrimonio il sacramento, perché è il sacramento dell’amore ed è l’unico punto veramente educativo. È un grande folle amore quello della croce e così quello che nasce da essa. Tutto il resto se non è innestato in questo fondamento è moralismo, è una violenza culturale o psicologica e prima o poi susciterà una reazione di rivolta.
Abbiamo caricato la famiglia con troppo peso giuridico morale e culturale, ma va ricordato che è l’amore coniugale il sacramento. Solo la partecipazione dei figli all’amore pasquale dei genitori cioè l’amore libero, sul modulo del battesimo e della pasqua, crea nei figli un fondamento incrollabile, aperto alla sapienza e alla vita. Tutto il resto va costruito su questo, ma questa dimensione non si può costruire su nessun altro fondamento perché questo è il fondamento.
Noi ci aspettiamo l’amore dai figli. Ma sono invece i genitori a dover amare i figli. La Scrittura dice che i figli debbono onorare e rispettare i genitori, mentre sono i genitori a dover amare i figli.
Abbiamo caricato la famiglia della perfezione formale e lo stesso l’educazione dei figli. Ma un’educazione basata sulle forme da proporre si rivela una trappola, un boomerang deformativo. Si tratta di trasmettere ai figli l’essenziale della vita e poi accompagnarli nelle prove. È la probazione la via dell’educazione, perché lì viene fuori l’unicità irripetibile della persona, la sua creativa forza vitale e la sua capacità di sacrificio, la sua continua capacità di motivazione.
Lo vediamo anche nell’arte. I cristiani non hanno sposato il classico – la perfezione della forma – nell’arte. L’arte cristiana rispecchia la croce: io, povero, ma aperto a Dio, accogliendo Dio, mi offro. Questa è la perfezione dell’arte cristiana. Se il sacramento del matrimonio è partecipazione alla pasqua, la pasqua è morte, prima di essere resurrezione. La pasqua smantella la perfezione formale.
Ricordo una madre che piangeva e amava Dio e il marito ed i figli: non è forse un matrimonio perfetto? Ricordo una donna poverissima, in Russia, moglie di un grande scienziato al tempo dell’URSS. Non avevano neanche i soldi per comprare la colazione. Andai io a prendere qualcosa per fare colazione. Ma mi disse. “Non abbiamo la colazione, ma siamo felici!”
Una volta sentii il cardinale Spidlik, che è stato mio maestro, raccontare la storia di una donna sposata con un marito che era diventato un ubriacone, violento ed adultero. Il marito un giorno se ne andò di casa. Dopo molto tempo, la moglie trovò un giorno un barbone vicino ad una panchina e si accorse che era suo marito. Lo portò a casa per curarlo. I figli la rimproverarono, ricordandole tutto il male che le aveva fatto. Ma lei lo curò in quegli ultimi giorni, perché poco dopo morì. E lui, prima di morire, disse ai figli: “Vi ho fatto tanto male. Io non sapevo cosa è il paradiso. Ma questo che mi ha fatto lei in questi giorni è il paradiso”.
Solo l’amore di Dio ti può convincere che questo ha un senso. È la prova che è la vera formazione. Il matrimonio diventa vero nella prova, nella probazione.
Per questo, io penso che si possa dire: “Amate le vostre mogli ed i vostri mariti, e farete il massimo per i vostri figli”. I figli non capiranno subito. Ma il figlio ad un certo punto si ricorderà i propri genitori - la sapienza viene sempre dopo. E penserà: “Loro hanno vissuto così, perciò è vero”. Conosco coppie che mi hanno detto: “Abbiamo passato momenti tremendi, ma poi ci siamo detti: crediamo ancora che Dio ci ha unito”.
Il triduo pasquale smonta ogni perfezione formale. E allora una famiglia ideale quale è? Solo quella che è eucaristica, che è pasquale (il matrimonio fu celebrato all’inizio come comunione eucaristica). Una famiglia naturalmente compatibile può essere una bella famigliola, una bella coppia, ma riesce a passare oltre la tomba? Non vive la morte come una tragica separazione? Mentre per i cristiani dalla vita spirituale autentica il matrimonio giunge al suo compimento nell’escathon. La morte è esattamente il confine che il matrimonio riesce a passare: anche se in lacrime i coniugi cristiani sanno che ora saranno uniti in pienezza e definitivamente.