Finché non sia formato Cristo in voi (Gal 4,19). Prendere la forma di Cristo. File audio di una relazione di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /03 /2012 - 14:07 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio la registrazioni della lezione tenuta da Andrea Lonardo presso il monastero dei Santi Quattro Coronati il 28/2/2012. Per altri files audio vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2012)

Ascolto

Download ss4_formazione.mp3.

Riproducendo "ss4 formazione".



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Premessa: prendere forma o essere informi? L’esperienza spirituale

da Giovanni Moioli
L’uomo «nuovo» è l’uomo secondo la fede. Cos’è la fede? Dobbiamo, anzitutto, cogliere la struttura caratteristica del credere cristiano, per non ridurre la fede a un assenso intellettuale, a una serie di enunciati che riteniamo essere veri. Bisogna ritrovare la struttura caratteristica dell’uomo di fede e questa struttura si può esprimere come un «soggettivo» che prende la forma di un «oggettivo».
I due termini sono astratti, ma si possono spiegare così: esiste un soggetto, il credente, nel quale la grazia della fede opera non solo facendo accettare delle verità, ma, prima che delle verità, facendo accettare il riferimento a Gesù Cristo. Di tale riferimento il soggetto credente dice: «Questo riferimento è la mia verità, io devo prendere la forma di questa verità».
Questa constatazione, che in sé può apparire elementare, è in realtà decisiva per la spiritualità, perché consente di capire come la fede non sia solo un sentimento religioso e un fatto soggettivo. Il cristiano non è l’uomo del senso religioso. Il senso religioso è importante, ma non è la fede. La fede è un atteggiamento complesso dell’uomo che dice a Gesù Cristo: «Tu sei la mia vita»; cioè: «Tu misuri la verità del mio modo di essere uomo». La verità dell’uomo, infatti, non è nell’uomo, ma nell’umanità di Gesù Cristo.
Caratteristica della fede cristiana è questa interazione continua tra soggettivo e oggettivo, tra il soggetto che dice: «Io cerco la verità» e «la verità sei Tu», dove il Tu è Gesù Cristo. Come se il soggetto dicesse: «Faccio verificare da Te quello che dico vero e quello che dico falso, quello che dico giusto e quello che dico sbagliato, quello che dico buono e quello che dico cattivo». Dalla Bibbia questo atteggiamento è chiamato ubbidienza.
Potrebbe nascere l’interrogativo: ma questa non è eteronomia? Cioè l’atteggiamento di un uomo che proprio lì dove è più uomo, negli aspetti più profondi, quelli della propria coscienza e della propria libertà, proprio lì dice: «Non sono io il padrone di me stesso, trovo il mio centro fuori di me».
In effetti, questo pone il problema della revisione critica circa la legittimità del modo cristiano di essere uomo. In fondo, l’Illuminismo, Kant, Lessing hanno sollevato il problema se questo modo, proprio del credente, è un modo illegittimo di essere uomo.
Per superare il problema bisogna recuperare il senso di Cristo come verità dell’uomo. 

-l’esempio del tennis: “esperienza” diverso da “esperimento”

II premessa: Le tre opzioni. Il corpo e l’anima

da C.M. Martini
1. E’ certamente possibile ordinare i sentimenti; ordinarli evidentemente con un dominio (lo diceva già Aristotele) non dispotico, bensì politico. Ordinarli infatti non significa schiacciarli o scatenarli o rimuoverli; esiste un giusto mezzo, un governo, una supervisione. E’ già un’acquisizione: c’è un cammino personale possibile del governo dei sentimenti.
2. Questo ordinamento dei sentimenti è in relazione a un fine, dice il libretto. Noi diremmo: un ordinamento dei sentimenti è possibile in relazione a un senso globale della vita, a una Weltanschauung. Non esiste un ordinamento senza un prima o un poi, senza priorità, senza un ordine dei valori, senza un cammino che va verso una meta. E’ il confronto tra il senso globale della vita e gli accadimenti oscuri del mio sentire tumultuoso e apparentemente incontrollabile e indecifrabile, che mi permette a poco a poco di tracciare delle coordinate di senso, di cominciare a capirci qualcosa, di separare alcune emozioni da altre, di riconoscerne alcune come costruttive, altre come distruttive, e di cominciare a darmi un ordine pratico nel confrontarmi con esse.

da K. Demmer, Introduzione alla teologia morale
Nell'uso comune la parola «libertà» assume anzitutto il senso di libertà di scelta (libertas arbitrii) ed indica la capacità di ciascuno di scegliere tra diversi oggetti. Limitarsi però solo a questo significato comporta necessariamente percepire la norma come restrizione, un «gravamen libertatis». Sorge il dubbio che questa non sia ancora la piena essenza della libertà.
La prospettiva cambia e ci permette di aderire maggiormente alla realtà se si inizia a comprendere la libertà come libertà essenziale; in altri termini come capacità di attuare il bene riconosciuto come tale e quindi di auto determinarsi. Questa visione permette di rischiare un progetto su degli ideali, su una meta di vita pienamente riuscita e sensata conferendo alla decisione morale, intesa come adempimento della norma, una sfumatura del tutto singolare.
Le norme in questo senso non restringono la libertà ma abilitano tutte le sue capacità, non sono un peso ma un dono, un gesto di solidarietà nell'ambito di una comunità fraterna. Prendere una decisione morale significa quindi non fuoriuscire da questo ambito, in cui il singolo non è abbandonato ad una norma, che forse lo impegna fino al limite delle sue forze, ma in cui la comunità lo accompagna per un tratto di strada. È in base a ciò che le norme devono essere trasparenti, altrimenti non assolvono il loro compito, non costruiscono ma schiacciano e conducono alla rassegnazione se non addirittura al cinismo.

1/ Formarsi vuol dire credere!

dallo spettacolo Guai a voi ricchi, di Giovanni Scifoni
Prende da terra delle vecchie fotografie di guerriglieri
Guardali, guarda che facce, guarda che belli che sono… oh, ci fosse un guerrigliero brutto, ma che facevano, i provini? Guarda questo come ride… ride! Lo sai perché ride? Perché capire chi è il tuo nemico… è bello. Molti  preti decidono di entrare negli eserciti di liberazione nazionale. I preti guerriglieri sono figure mitiche, leggendarie, mi sono letto un sacco di biografie, testimonianze, e poi ho letto le storie degli altri guerriglieri, quelli marxisti. Dicono esattamente le stesse cose, magari il prete mette la parola Cristo al posto di qualche altra parola, però combattono insieme, per lo stesso ideale, con gli stessi fucili. Solo che uno è prete e l'altro dice che la religione non ha senso. Perché dicevano “non si tratta di capire se l'anima è mortale o immortale, ma che la fame è mortale! Su Dio, non Dio, sulla verginità della Madonna discuteremo dopo, quando la gente avrà da mangiare, adesso non c'è tempo”. Questa gente ha dato il sangue. Sono morti… Però mi stanno dicendo una cosa che non mi da pace. E cioè che di fronte ai fatti cruciali dell’esistenza, le questioni di vita o di morte... credere che un uomo sia morto e poi risorto... o non crederci, è uguale? La fede cambia così tanto poco la vita? Se Dio esiste, a che serve? A chiacchierare di lui quando i casini li abbiamo già risolti? Che razza di Dio è? 

da Giovannino Guareschi, Don Camillo e don Chichì, in Tutto Don Camillo. Mondo piccolo, II, BUR, Milano, 2008, pp. 3114-3115
Don Camillo spalancò le braccia [rivolto al crocifisso]: “Signore, cos’è questo vento di pazzia? Non è forse che il cerchio sta per chiudersi e il mondo corre verso la sua rapida autodistruzione?”.
Don Camillo, perché tanto pessimismo? Al­lora il mio sacrificio sarebbe stato inutile? La mia missione fra gli uomini sarebbe dunque fallita perché la malvagità degli uomini è più forte della bontà di Dio?”.
“No, Signore. Io intendevo soltanto dire che oggi la gente crede soltanto in ciò che vede e tocca. Ma esistono cose essenziali che non si vedono e non si toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pu­dore, speranza. E fede. Cose senza le quali non si può vivere. Questa è l’autodistruzione di cui par­lavo. L’uomo, mi pare, sta distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L’unica vera ricchezza che in migliaia di secoli aveva accumulato. Un giorno non lontano si troverà come il bruto delle caverne. Le caverne saranno alti grattacieli pieni di macchine meravigliose, ma lo spirito dell’uomo sarà quello del bruto delle caverne […] Signore, se è questo ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi?”.
Il Cristo sorrise: “Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede e mantenerla in­tatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più, ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomi­ni di molte parole e di nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri. Uomini di ogni razza, di ogni estrazione, d’ogni cultura”. 

2/ Il “mistero” svelato: l’autorità che educa e forma

«Sia a un dio, sia a una dea consacrato, Caio Sestio, figlio di Caio Calvino pretore, per decreto del senato rifece». Così recita l’iscrizione di un altare romano della fine del II secolo a.C. che è ora custodito nel Museo Palatino, all’interno dell’area archeologica del Palatino, dove Augusto ed i suoi successori hanno avuto la loro residenza.
Anche san Paolo, giunto ad Atene, dichiara di aver trovato “un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto” (At 17, 23).

da Romano Penna, Dialettica tra ricerca e scoperta di Dio nell’epistolario paolino, in Penna Romano, L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pp. 593-629 (articolo in cui il prof. Penna si sofferma su 1 Cor 1,20, Dov’è il ricercatore di questo mondo?, e su Rm 10,20=Is 65,1, Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano)
Nell’epistolario, il vocabolario di ricerca (ζητεω, επιζητεω, εκζητεω, συζητεω, ζητησις) non presenta mai «Dio» come oggetto dell’azione di ricerca; anzi, quando i due termini sono accostati è per negare esplicitamente la possibilità o almeno la fruttuosità di una tale ricerca. Certo, il concetto viene espresso pure con un altro e abbondante lessico del ricercare, ma esso riguarda normalmente non più il Dio «naturale», bensì quello «rivelato», «cristiano»; allora, la ricerca qualifica lo stato postbattesimale e pistico del cristiano. La stessa osservazione vale analogamente per il correlativo vocabolario del ritrovamento (ευρισκω, καταλαμβανω, επιτυγχανω ecc.).

2A/ Non è stato Paolo a cambiare il cristianesimo, ma Gesù a cambiare Paolo: tutta la vita precedente viene assunta, criticata e portata a compimento! (il triplice rapporto della fede con la vita)

Ultimo fra tutti Cristo risorto apparve anche a me come a un aborto (1 Cor 15, 8).

Ha senso parlare di un Paolo ebreo, di un Paolo che conosce a menadito le Scritture, è lecito parlare di un Paolo impregnato di cultura ellenistico-romana, pensando ad episodi come la discussione avvenuta all’Areopago di Atene o ancora all’uso della Bibbia nella sua versione greca elaborata dai rabbini di Alessandria d’Egitto. Ma l’evento che è la chiave di volta per capire l’uno e l’altro è ormai il suo rapporto con il Signore Gesù, è l’incontro sulla via di Damasco.
È così importante quella svolta nella vita di Paolo che Luca, negli Atti, la descriverà ben tre volte (At 9, 1-18; 22, 1-21; 26, 2-23). Paolo stesso nel suo epistolario vi farà continuamente riferimento (1 Cor 9, 1; 1 Cor 15, 8; 2 Cor 4, 6; Gal 1, 11-16; Fil 3, 7-14; Ef 3, 1-12; 1 Tim 1, 11b-17). Se Paolo fu per nascita ebreo e romano, formato nella tradizione ebraica e nella cultura greca, ciò che lo segnò in maniera radicale fu il suo diventare cristiano. Vengono qui in mente le famose espressioni di G. K. Chesterton quando scriveva che l’eresia non è necessariamente una affermazione falsa, ma più spesso è una verità che dimentica tutte le altre verità. E continuava sostenendo che il cattolicesimo è l’unico luogo dove tutte le verità si danno appuntamento.

«So a chi ho creduto» (1 Tim 1, 12) questo si è ormai tramutata nel dono che Timoteo fa di se stesso come testimone della fede: «Soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio» (2 Tim 1, 8). Egli non è più come «coloro che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità» (2Tim 3, 7), ma può ormai sentirsi dire da Paolo: «Le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri» (2 Tim 2, 2).

dall’omelia dell’allora cardinal Joseph Ratzinger nella Messa pro eligendo Pontifice del 18 aprile 2005
«Soffermiamoci [... sul] cammino verso “la maturità di Cristo”; così dice, un po’ semplificando, il testo italiano. Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco, parlare della “misura della pienezza di Cristo”, cui siamo chiamati ad arrivare per essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste l’essere fanciulli nella fede? Risponde San Paolo: significa essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…” (Ef 4, 14). Una descrizione molto attuale!
Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.
Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1).

3/ La formazione è un debito! 

«Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma» (Rm 1, 14-15).

Ricordo come fosse ieri don Tonino D’Ammando, uno dei parroci “romani” della vecchia generazione, che spiegava cosa fosse per lui la gratitudine. Era stato chiamato al sacerdozio da adulto mentre era ingegnere presso le acciaierie di Terni ed aveva beneficiato di una borsa di studio per poter studiare al Collegio Capranica e pagare le tasse universitarie. Aveva compreso che non si trattava di dire “grazie” a chi aveva offerto a lui il denaro per prepararsi al sacerdozio, ma che il debito di gratitudine sarebbe stato saldato solo quando una nuova persona avrebbe ricevuto in dono una borsa di studio offerta da lui, don Tonino. Egli era in debito e l’azione del rendimento di grazie non riguardava semplicemente i suoi benefattori; era lui stesso a dovere ora rendere possibile per una nuova generazione ciò che a lui era accaduto.

Proprio la lettera ai Romani esprime, ancora una volta, con una straordinaria progressione retorica che vede il susseguirsi di incalzanti domande, il nesso che lega la salvezza dei nuovi credenti alla vocazione di chi la trasmette loro: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!» (Rom 10, 13-15).

cfr. esperienza di essere 50enni... dialogo con Paolo Giuntella!

cfr. esperienza di una suora lituana... l’ha salvata il suo essere materna!

4/ Formare un cuore che è diviso

«Io non riesco a capire ciò che io faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto» (Rm 7,15). «Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti l'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Così l'uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre» (GS, 13).

«Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell’uomo e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» (Ger 17,9).

G. K. Chesterton, ha voluto rispondere all’irrisione che spesso veniva - e viene - gettata sul tema del peccato originale: «Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato - cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno - ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto».

5/ Formati nello Spirito del Figlio, lo Spirito di Cristo, lo Spirito che dice Abbà

È lo Spirito del Figlio del Padre, è lo Spirito di Cristo (Fil 1,19; Gal 4,6; Rm 8,9).

«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,4-6).

«Diventare di nuovo bambino significa imparare di nuovo a dire Abba» J. Jeremias

«Avevo un gran desiderio di praticare la virtù, ma lo facevo in un buffo modo, ecco un esempio: mi accadeva talvolta, per far piacere al buon Dio, di rifarmi il letto, oppure, in assenza dì Celina, rimettere dentro, a sera, i suoi vasi da fiorì: era per il buon Dio solo che facevo quelle cose, perciò non avrei dovuto attendere il grazie delle creature. Ahimé! Le cose andavano ben diversamente; se per disgrazia Celina non aveva l’aspetto felice e stupito per i miei servizietti, non ero contenta, e glielo provavo con le lacrime. Ero veramente insopportabile per la mia sensibilità eccessiva. Così, se mi accadeva di dare involontariamente un po’ di dispiacere a qualcuno cui volessi bene, invece di dominarmi e non piangere, ciò che ingrandiva il mio errore anziché attenuarlo, piangevo come una Maddalena, e quando cominciavo a consolarmi della cosa in sé, piangevo per aver pianto.
Non so come io mi cullassi nel pensiero caro di entrare nel Carmelo, trovandomi ancora nelle fasce dell'infanzia! Bisognò che il buon Dio facesse un piccolo miracolo per farmi crescere in un momento, e questo miracolo lo compì nel giorno indimenticabile di Natale».
In quella notte del Natale 1886, Teresa si accorse che suo padre le preparava svogliatamente i regali. Venne presa dalla tentazione di piangere per questo, ma subito si rasserenò: «Sentii che la carità mi entrava nel cuore, col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice!»

6/ Formarsi ad assumere e ad essere fedeli ad uno “stato di vita”

Le due lettere a Timoteo non parlano astrattamente della condizione adulta, ma si rivolgono a mariti e mogli, a padri e madri, a vescovi e diaconi, a famiglie e vedove. La teologia moderna ha formalizzato nel concetto dello “stato di vita” ciò che è già evidente nella vita dei cristiani del Nuovo Testamento: se un giovane è tale perché è ancora in ricerca della propria vocazione, l’adulto si caratterizza proprio per quelle relazioni definitive che costituiscono la forma specifica del suo dono. Egli è adulto, proprio perché è marito e padre, o perché è vescovo o diacono o ancora perché ha accolto pienamente la condizione di vedovanza.
La definitività della vocazione non riguarda solo i presbiteri ed i diaconi, per i quali l’autore raccomanda di non aver fretta ad imporre le mani, e nemmeno semplicemente coloro che sono stati chiamati al matrimonio, ma addirittura è tratto essenziale di coloro che hanno subito la condizione vedovile e sono ora chiamate a sceglierla o ad uscirne risposandosi: «Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove... Desidero che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la casa, per non dare all’avversario nessun motivo di biasimo» (cfr. 1 Tim 4, 3-16).

7/ Formare una visione sintetica ed un cuore fraterno

cfr. Vanni un’intelligenza molle ed un cuore duro

Romano Penna ha scritto, sottolineando la specificità della Lettera ai Romani: «Essa si avvicina al genere che oggi chiameremmo un saggio. È come se Paolo, al punto in cui si trova della sua vita, volesse – una volta per tutte – chiarire anche a se stesso che cosa significa in definitiva ciò che da anni andava annunciando in giro per il mondo».

Il capitolo finale della lettera ai Romani, il famosissimo capitolo 16, presenta Paolo che, 2000 anni fa, conosce realmente fra le cento e le centocinquanta persone abitanti in una città che non ha ancora mai visitato. Sono, infatti, nominati diciassette nomi di uomini, sette nomi di donne, più due delle quali non compare il nome, più cinque gruppi di persone che si riuniscono nelle case di alcuni di loro.
Afferma il prof. Penna, nell’ultimo volume appena uscito del suo commentario alla lettera ai Romani, che le lettere dell’antichità contenevano ovviamente spesso saluti a terze persone, ma il numero massimo di esse attestato è nella lettera papiracea di una certa Diodora che, scrivendo ad un certo Valerio Massimo, lo prega di dare i suoi saluti a sei persone. La lettera ai Romani è così la lettera che contiene il maggior numero di persone da salutare in tutta l’antichità classica, superando di gran lunga il numero di sei.
Delle persone nominate Paolo sottolinea innanzitutto la loro attività evangelizzatrice. Febe, probabilmente la latrice della lettera ai Romani, la prima ad essere nominata, è definita “diacono della chiesa di Cencre” (Rm 16,1), dove “diacono” è da intendersi nella sua forza espressiva di servitrice. Paolo chiede ora ai romani di assistere Febe, come lei “ha protetto molti ed anche me stesso” (Rm 16,2).
Si parla poi di Maria “che ha faticato molto per voi” (Rm 16,6). Poi di Andronico e Giunia, “apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me” (Rm 16,7). Qui Paolo mostra di conoscere un ulteriore significato del termine “apostolo”: se egli sa bene che il ruolo dei Dodici è unico (cfr. ad esempio, 1 Cor 15,5), tuttavia utilizza il termine anche per altri missionari della prima generazione, forse appartenenti ai settantadue di cui parla l’evangelista Luca o agli “stranieri di Roma” presenti il giorno di Pentecoste. Andronico e Giunia potrebbero, forse, essere stati i primi evangelizzatori della comunità romana.
Si accenna poi ad Urbano, “nostro collaboratore in Cristo” (Rm 16,9), a Trifena e Trifosa che “hanno lavorato per il Signore” (Rm 16,12), poi a Perside che ha, anch’essa, “lavorato per il Signore” (Rm 16,12). Si ripetono i verbi che indicano il collaborare, il lavorare, l’affaticarsi per il vangelo e la sua diffusione, per il servizio dei fratelli. Se, nel capitolo 16, il numero degli uomini citati è maggiore, si sottolinea maggiormente il ruolo evangelizzatrice delle donne: sette donne e cinque uomini sono detti faticare nel Signore. Anche la persecuzione è stata motivo di fatica: Aquila e Priscilla “hanno messo in gioco il loro collo per la mia vita” (Rm 16,4), con riferimento alla possibilità della decapitazione che era riservata ai cittadini romani, mentre Apelle “ha dato buona prova in Cristo” (Rm 16,10).
Si sottolinea di alcuni l’essere punto di riferimento, anche per aver messo a disposizione la propria casa come luogo delle riunioni liturgiche e catechetiche. Sono citati subito dopo Febe, all’inizio del capitolo, Aquila e Priscilla “miei collaboratori in Cristo Gesù” (Rm 16,3) e “la comunità che si riunisce nella loro casa” (Rm 16,5), così quelli della casa di Narciso “che sono nel Signore” (Rm 16,11), Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma “e i fratelli che sono con loro” (Rm 16,14), Filogolo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpias “e tutti i credenti che stanno con loro” (Rm 16,15).
Soprattutto, emerge la fraternità che lega i cristiani di Roma e Paolo. La fede cristiana genera un nuovo tipo di relazioni. Non esiste più solo l’amore sponsale o amicale (vedi Aquila e Priscilla o i “diletti” Ampliato e Perside), ma viene esaltato pure il legame che unisce i fratelli in Cristo. Febe è definita “nostra sorella” (Rm 16,1), “fratelli” vengono chiamati coloro che sono con Asincrito e gli altri (Rm 16,14), “credenti” coloro che sono con Filogolo e gli altri (Rm 16,15). Tutti insieme sono “santi” (Rm 1,7) e “chiamati” (Rm 1,6) da Gesù Cristo (chiesa, ekklesia, deriva dal termine greco che indica l’essere chiamati da Dio, l’essere kletoi).
Questa fraternità si esprime in un tipico gesto che caratterizzerà da allora la fraternità nelle comunità cristiane: “salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo” (Rm 16,16). Lo scambio della pace, attraverso quel bacio santo, sarà il segno di una relazione di amore nata in Cristo che tutti abbraccia. La fraternità ecclesiale si pone come realtà che contraddistingue i credenti in Cristo. Essa viene offerto al mondo come segno che invita alla fede. Come ricorda Tertulliano, questa era l’espressione di stupore che sorgeva nei pagani che per la prima volta venivano in contatto con i cristiani: “Vedi come si amano fra loro e sono pronti a morire l’uno per l’altro” (Apologetico, XXXIX,7).

8/ Formarsi nella croce: la notte dello Spirito, la spina nella carne

In un famosissimo passaggio della seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo parla di una “spina nella carne” (2 Cor 12,7) che Dio non aveva voluto togliergli, nonostante le ripetute preghiere in merito. Il grande esegeta gesuita Ugo Vanni, così commenta questo termine misterioso, rifiutando quelle interpretazioni che vi avevano voluto leggere un peccato della sensualità: la spina nella carne è la «situazione di conti che non tornano: Paolo si sentiva inviato da Dio a portare il Vangelo, era guidato dallo Spirito anche nei suoi piani apostolici, faceva dei progetti apostolici e a un certo punto le circostanze esterne e poi le circostanze sue personali - la sua salute - non gli permettevano di realizzarli».
Nella stessa lettera Paolo enumera, in maniera impressionante, tutte le vessazioni che ha dovuto subire: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11,24-28).