Anselmo sulla verità dell’uomo: da Aosta a Canterbury, origini e contenuti di una appassionata riflessione, di Matteo Zoppi
Riprendiamo per gentile concessione dell’autore da Tratti anselmiani tra fede e ragione. L’esperienza del Certamen e dintorni, a cura di M.-R. Colliard – M. Lucianaz, Tipografia Duc, Aosta 2010, pp. 67-77, un articolo di Matteo Zoppi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sulla filosofia medioevale vedi la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (31/1/2012)
Aosta e Canterbury sono i due poli topografici entro cui si è sviluppata la riflessione di Anselmo sull’uomo, oltre che, come è noto, essere le città in cui rispettivamente egli nacque nel 1033 e morì nel 1109. Per meglio comprendere come egli intese e condusse questa ricerca, può essere utile richiamare alla memoria quali furono i suoi ultimi pensieri.
Anselmo, infatti, nutriva un desiderio che rimase in parte irrealizzato e che verteva intorno ad un importante aspetto della verità sull’uomo: si tratta della comprensione dell’origine stessa della persona umana e della sua dimensione trascendente, cioè della questione sull’anima, che aveva tanto impegnato, prima di lui, Agostino di Ippona, restando, peraltro, per così dire, “aperta”.
Nella Vita di Sant’Anselmo, Eadmero di Canterbury, suo discepolo e segretario, così ci racconta circa le sue ultime parole, pronunciate qualche giorno prima di morire:
[…] [l’arcivescovo Anselmo] troppo debole nella carne, non era in grado di raggiungere a piedi la chiesa. Siccome però desiderava partecipare alla consacrazione del Corpo di Cristo, che venerava con devozione particolare, ogni giorno si faceva portare là, seduto su di una sedia. Per quanto noi che lo assistevamo cercassimo di dissuaderlo perché si sarebbe affaticato troppo, riuscimmo a stento a convincerlo cinque giorni prima della morte. Da quel momento rimase a letto in continuazione e, con un fil di voce, esortava tutti quelli che avevano il privilegio di essere condotti presso di lui a vivere per Dio, ciascuno secondo la propria condizione. Sorse il giorno della domenica delle Palme, e sedevamo intorno a lui come di consueto. Uno di noi gli rivolse queste parole: “Reverendo padre, da come ci è dato di capire, tu lasci questa vita per raggiungere la corte pasquale del tuo Signore”. Rispose: “E se davvero così si compie la sua volontà io mi uniformerò ad essa con gioia. Se invece Egli preferisse farmi rimanere ancora tra voi, almeno finché possa risolvere la questione sull’origine dell’anima, a cui sto riflettendo, accoglierò ciò con riconoscenza, poiché non so se qualcuno lo potrà fare dopo la mia morte. Spero appunto di poter guarire, se solo riuscissi a mangiare. Infatti non provo alcun dolore in nessuna parte del corpo, eccettuato il fatto che mi sento completamente debilitato a causa del mio stomaco a pezzi e incapace di assumere cibo.[1]
Anselmo, nonostante la malattia che lo stava consumando, era intento e desideroso di comprendere le dinamiche dell’origine della trascendenza umana, che nel corso della sua vita aveva in vario modo approfondito nella sua riflessione sul corpo e sull’anima dell’uomo, compreso come immagine e similitudine di Dio stesso.
Essa era cominciata molto presto, fin dalla sua infanzia, nella sua città natale di Aosta, ambiente urbano e alpino, dove abitò fino alla piena adolescenza, per poi, intorno al 1056, all’età di circa vent’anni, trasferirsi oltralpe, discendendo la Valle d’Aosta, risalendo per la Valle di Susa, e così poter valicare il Moncenisio.
Le circostanze e le dinamiche che accompagnarono quella che dai suoi biografi è presentata di fatto come una fuga dalla sua famiglia e, per giunta, dalla sua stessa città, sono assai oscure. Senza pretendere di risolvere quelle che restano pagine assai enigmatiche della sua vita, avremo modo di sviluppare in merito alcune ipotesi. Ma quello che qui è fondamentale notare riguarda invece l’immaginario dell’infanzia e dell’adolescenza di Anselmo che in Aosta e nelle sue montagne ha il suo ambiente vitale.
I biografi raccontano che, ancora bambino, Anselmo imparò da sua madre Ermenberga
[…] che c’è un solo Dio, creatore di tutte le cose, che regna nei cieli, che fa doni ai buoni e li premia: egli credette e ancora in tenera età aspirava a conoscerlo. Con fantasia di fanciullo riteneva che il cielo fosse sospeso sui monti vicini, che qui ci fosse il palazzo di Dio, del quale aveva sentito parlare, e che Dio vi dimorasse fisicamente insieme con gli angeli e i santi.[2]
Dobbiamo prendere atto, pertanto, che la riflessione di Anselmo prese le mosse inizialmente come un’appassionata ricerca di Dio, nella quale l’attenzione per l’uomo era per lo più inesistente. Anzi a ben vedere, possiamo addirittura spingerci fino ad affermare che originariamente man mano che in lui cresceva l’entusiasmo per il mistero di Dio, di contro faceva pen-dant un forte senso di disprezzo per l’uomo, giudicato non soltanto indegno, ma addirittura vergognosamente incurante della maestà del suo creatore, essendo ripiegato in una vita moralmente disordinata. Nel celebre sogno, fatto da bambino, della salita sulla vetta del monte di Dio, infatti, Anselmo vede uomini e donne che non si prendono cura del raccolto loro affidato dal gran re, e li biasima, giudicandoli colpevoli di negligenza.[3]
Si può rileggere, così, l’itinerario esistenziale e speculativo di Anselmo attraverso il fil rouge di una riflessione che inizialmente si concentrò sul mistero di Dio, escludendo, anzi disprezzando l’uomo e la sua piccolezza, ma che poi nei suoi sviluppi, attraverso una serie di tappe intermedie, si concluse con la ricomprensione positiva dell’uomo medesimo addirittura come espressione del mistero e della grandezza di Dio. In tal senso, la citata testimonianza di Eadmero sulle sue ultime parole legittima autorevolmente questa ipotesi di lettura. Come si è detto, Aosta e Canterbury sono, in un certo senso, i due poli topografici di questo avvincente itinerario.
Tra le motivazioni che indussero Anselmo a lasciare Aosta vi era probabilmente anche il desiderio di assicurarsi una formazione teologica rigorosa, assieme alla ricerca di una comunità religiosa dove vivere liberamente la vocazione monastica della ricerca e del servizio di Dio, da lui chiaramente avvertita fin dall’adolescenza; e non fu casuale che Anselmo, alla fine, sia approdato all’abbazia del Bec, dove la fama del priore Lanfranco, esperto giurista e teologo pavese, attirava alla scuola esterna del monastero studenti da tutta Europa; perfino da Roma, la curia papale vi inviava chierici, perché si specializzassero in diritto canonico.[4]
Alla scuola di Lanfranco Anselmo comprese una verità fondamentale, che fu poi determinante per la sua definitiva adesione al monachesimo. Egli comprese che la conoscenza di Dio non si esaurisce in una dimensione solo intellettuale. Questa fece maturare in lui il passaggio, appunto, dalla ricerca della scientia a quella della sapientia Dei: nella conoscenza di Dio non si può progredire se al conoscere non corrisponde anche il sentire, se la verità compresa non incide, al contempo nella vita vissuta. Come si comprende, si tratta di considerazioni che egli avrà modo di proporre poi nel Proslogion.
Ma una volta monaco, sempre alla scuola di Lanfranco, Anselmo ebbe modo di comprendere almeno altre due verità fondamentali in ordine alla ricerca di Dio: la prima è che la conoscenza e l’esperienza di Dio, per essere autentiche, debbono necessariamente passare attraverso un processo di autocomprensione da parte dell’uomo: si tratta della discussio sui. Le meditazioni che risalgono a questi anni ci danno uno spaccato di questa severa pratica, in cui riscontriamo il persistere di un pessimismo antropologico di fondo, che di lì a pochi anni però sarebbe profondamente mutato:
La mia vita mi fa paura.
Vagliata attentamente,
quasi tutta la mia vita
mi appare o peccato o sterilità.
E se qualche frutto in essa si vede,
è così simulato o imperfetto
o in qualche modo corrotto
che, sicuramente, o non piace o dispiace a Dio.
La tua vita, dunque, uomo peccatore,
non quasi tutta
ma certamente tutta
o è nel peccato e va condannata, oppure è senza frutto e va disprezzata.
[…]
“Provo nausea della mia vita”.
Mi vergogno di vivere, temo molto di morire
[…]
Tu forse credi che qualche peccato sia poca cosa.
Magari tenesse in poco conto qualche peccato
il Giudice rigoroso!
ma, ahimè. Ogni peccato,
con la trasgressione non disonora forse Dio?
Quale peccato dunque oserà chiamare piccolezza l’uomo peccatore?
Quando mai è cosa da poco disonorare Dio?
[…]
Quale tormento!
Da una parte i peccati che accusano,
dall’altra la giustizia che spaventa;
sotto si apre l’orrido caos dell’inferno,
sopra il giudice irato;
dentro brucia la coscienza,
fuori arde il mondo.[5]
Come si vede, qui abbiamo un netto contrasto, icasticamente descritto da Anselmo, sempre alla luce del suo personale immaginario che affonda le radici nell’infanzia: Dio è pensato in alto, come su di un’alta cima, mentre l’uomo sprofonda nel basso, come in un burrone infuocato, e alla grandezza della maestà divina è stridentemente accostata la miseria umana.
Nondimeno, la via che Anselmo percorre, in ordine ad una comprensione e rivalutazione dell’uomo, mantiene costante, anzi addirittura corrobora la sua angosciosa considerazione della gravità del peccato, che trova per giunta nei trattati morali, da lui composti tra il 1080 e il 1085, una opportuna giustificazione razionale. Ancora nel Cur Deus homo, la sua maggiore opera terminata nel 1098, egli non esiterà a scrivere: “[…] un solo peccato – che stimiamo piccolissimo – è così grande che non lo si dovrebbe commettere neppure se con un solo sguardo contrario alla volontà di Dio si potesse preservare dalla distruzione totale una infinità di mondi pieni di creature come lo è questo nostro”.[6]
Come a dire che l’ordine morale, che si fonda in Dio creatore e datore di ogni essere, non solo è prioritario e assoluto rispetto a qualsiasi altra tipologia di valore, ma è, altresì, la condizione stessa perché tutti gli altri valori, compresa la vita umana, possano sussistere. Proprio alla luce di quest’ultima considerazione circa l’urgenza di coltivare la libertà di aderire al bene, Anselmo avrà modo di prendere sempre più coscienza anche del valore, della grandezza e della dignità dell’uomo.
In una delle sue prime lettere,[7] scritta intorno al 1063, egli tratta con insistenza della beatitudine eterna cui l’uomo è per natura chiamato, e ripropone sovente queste considerazioni nel corso di tutto il suo epistolario. Tale tematica, però, è fatta oggetto di un decisivo approfondimento speculativo soltanto nel 1076-1077, appunto con la composizione del Monologion e del Proslogion, nei quali la beatitudine figura come esperienza propria di chi comprende la fede (intellectus fidei)[8] e realizza, al contempo, la propria umanità nella comunione con Dio (gaudium plenum et plus quam plenum).[9]
E, in tal senso, della beatitudine Anselmo sviluppa una considerazione molto più articolata e organica di quella comune al suo tempo. La beatitudine, infatti, è compresa come sperimentabile già nella dimensione del tempo e non soltanto in quella dell’eternità. L’uomo realizza se stesso già a partire dalla vita presente e concorrono a pieno titolo, a questo proposito, tutte le esperienze proprie del suo essere, tanto quelle della sfera fisica, quanto quelle della sfera spirituale.
È in questi testi che Anselmo scopre nell’uomo, ed in particolare nella sua anima, i riflessi della maestà divina, e riconosce in Dio quella verità di cui la stessa verità dell’uomo è espressione. I successivi trattati morali sulla verità, sulla libertà dell’arbitrio e sulla caduta del diavolo, approfondiscono semplicemente quelle che già in queste opere Anselmo comprende essere le implicazioni etiche (la rettitudine) proprie dell’eminenza della natura umana.
Seguendo uno schema tipicamente neoplatonico, non senza influssi dell’aristotelismo, Lanfranco aveva insegnato ad Anselmo che la realtà è gerarchica: al primo posto sta Dio, creatore e signore dell’universo, e tutte le creature seguono per grado di somiglianza e di partecipazione della perfezione del suo essere: prima viene l’angelo, la creatura a lui più simile in quanto dotata di razionalità e priva di un corpo fisico, segue l’uomo, anch’egli creatura razionale, ma dotata di un corpo fisico, poi la donna, giudicata inferiore all’uomo per natura in quanto dipendente dal suo essere, troviamo poi gli altri animali, le piante e, infine, tutte le restanti realtà, esistenti ma prive di vita.
Lo spazio che l’uomo e la donna, occupano in questo schema non è disprezzabile: Lanfranco presenta l’essere umano, in primis quello di sesso maschile, come una sorta di microcosmo in cui il principio vitale razionale proprio del divino e quelli propri degli animali e delle piante si incontrano, anticipando in tal modo una prospettiva antropologica che alcuni secoli dopo si sarebbe rivelata assai feconda nell’Umanesimo. Tale ottimismo antropologico, sicuramente, contribuì non poco a far maturare in Anselmo una decisiva rivalutazione del valore dell’uomo e, stavolta in eguale misura della donna, che fu poi da lui espressa in modo ancora più forte e articolato.
Infatti, già nel 1076 con la pubblicazione del Monologion, egli fa saltare lo schema appreso da Lanfranco, di fatto rifiutandolo, e discostandosi, così, in modo significativo dall’insegnamento del suo antico maestro. La riflessione anselmiana sul mistero di Dio, condotta appunto attraverso un cammino di discernimento e di autocomprensione, di cui Monologion e Proslogion sono le testimonianze scritte più mature, fece comprendere ad Anselmo che, nella gerarchia degli esseri creati, l’uomo e la donna sono, al pari degli angeli, i più simili a Dio.
I vincoli della corporeità fisica e della diversità sessuale sono lasciati straordinariamente cadere e addirittura saranno, in seguito, positivamente valorizzati in ordine alla comprensione di come la natura umana raggiungerà e vivrà la felicità, il fine per cui è stata creata da Dio. Possiamo con certezza affermare che in questi sviluppi più maturi del pensiero di Anselmo il luogo comune su un Medioevo sessuofobo e oscurantista rivela tutta la sua inconsistenza e ignoranza. La rigorosa riflessione anselmiana circa il valore della corporeità offre, in tal senso, elementi speculativi adeguati, per rivedere letture non del tutto corrette, perfino del pensiero stesso di Anselmo, capace di apprezzare assieme alla verginità, anzi proprio a partire da essa, anche il matrimonio e l’unione amorosa degli sposi.
Anselmo non scrisse mai una Meditazione o lamento per la verginità perduta, come recitano alcune erronee traduzioni di questo suo scritto giovanile, ma una Meditazione o deplorazione della verginità perduta male (Meditatio sive deploratio virginitatis male amissae).[10] Alla luce di un esame complessivo degli elementi che su questo tema si possono scorgere nei suoi scritti, la ricostruzione della sua visione della sessualità umana ci permette con sicurezza di considerare l’avverbio male, non epesegetico, ma determinativo, dal momento che, originariamente, in suo luogo, in diversi manoscritti figurava l’espressione per fornicationem,[11] a ulteriore conferma che in questo componimento la metafora utilizzata per descrivere l’infedeltà del peccato è l’amplesso adulterino, e non quello sponsale.
A questo proposito si può anche osservare che le invettive epistolari, in cui Anselmo deplora l’amplesso umano, sono tutte indirizzate sempre ad adulteri o a persone che avevano rinunciato al proposito monastico assunto, mai a sposi legittimi, come si può utilmente riscontrare nei casi della principessa Matilde, figlia del re di Scozia Malcom III,[12] e, ancora di più, della principessa Gunnilda, figlia di Aroldo II (ultimo re anglosassone, ucciso ad Hastings dai soldati di Guglielmo il Conquistatore il 14 ottobre 1066),[13] tutte e due membri della comunità femminile del monastero di Wilton. Intorno al 1093, ormai neoarcivescovo di Canterbury, Anselmo ebbe modo di indirizzare a Gunnilda le seguenti parole:
Considera dunque sin d’ora, o carissima, come gli amplessi d’un uomo e il piacere carnale siano ben altra cosa dagli amplessi di Cristo, dal piacere della castità, dalla purezza del cuore; sì gli amplessi di Cristo, non già il corpo, ma quelli a cui l’anima in amicizia con lui, lui amando e desiderando, consapevole della propria innocenza si abbandona. Considera, dico, quale differenza vi sia tra codesti due piaceri. Non parlo ora già del legittimo vincolo coniugale. Considera, dico, quale grande purezza vi sia nel piacere spirituale, quale impudicizia in quello carnale; cosa prometta l’uno e l’altro minacci; come ricco di speranza a gioiosa attesa di Cristo, perdipiù di sicurezza e conforto in questa vita, sia il piacere spirituale; quale grande timore del giudizio divino vi sia in quello carnale, perdipiù quale grande disordine in questa vita. Rifletti in ciò che significa avere in spregio Cristo, lo sposo che come dote promette il regno dei cieli, e al figlio di Dio, al re dei re, anteporre un uomo mortale, che null’altro dà e offre se non cose spregevoli soggette alla corruzione.[14]
Come si riscontra in questo testo, proprio nel solco delle rivisitazioni patristiche e altomedievali del Cantico dei Cantici, a differenza di quanto ha scritto Jean Leclercq,[15] Anselmo non si limita a spiegare la relazione di comunione tra Dio e l’uomo mediante la metafora dell’amplesso sponsale, ma la estende addirittura alla vita monastica.
Così, a trent’anni di distanza, egli si rivolge alla principessa Gunnilda, riproponendo un messaggio analogo a quello già sviluppato nella Meditatio sive deploratio virginitatis male amissae, da lui scritta intorno al 1070. La situazione personale di Gunnilda, infatti, era oggettivamente grave, e per giunta di dominio pubblico: rifugiatasi dall’infanzia nel monastero di Wilton, per trovare scampo dagli invasori normanni, aveva indossato il velo, ma successivamente era stata amante del conte Alano il Rosso, signore di Richmond, senza averlo ancora sposato, e senza averlo più potuto sposare a causa della sua prematura morte; dopo quest’ultima, la principessa intendeva unirsi al conte Alano il Nero, fratello minore del suo antico amante.[16]
Si comprende pertanto perché Anselmo le rivolga parole così severe, dal momento che davanti ad un rifiuto e ad un tradimento dell’amore di Dio, lo stesso amore umano finisce col perdere il suo valore e il suo significato, impedendo di viverne perfino la lecita modalità propria del matrimonio e diventando qualcosa di semplicemente carnale e caduco, macabro e pregno di morte appunto, perché vissuto al di fuori dalla prospettiva dell’eternità e dell’ordine delle cose:
Amasti il conte Alano il Rosso che t’amava. Dov’è egli ora? Dov’è finito l’amato che t’amava? Va’ ora, o sorella, e prendi posto nel letto in cui ora giace; raccogline i vermi nelle pieghe della tua veste, abbracciane il cadavere; baciane direttamente i denti messi a nudo, visto che le sue labbra sono già corrose dalla putredine. Certo egli non pensa a quel tuo amore che in vita gli dava diletto; mentre tu hai in orrore quella sua putrida carne del cui contatto avevi desiderio; ecco a ogni buon conto ciò che in lui amavi; ed ecco ciò che ami – non altro – in suo fratello.[17]
Alla luce delle considerazioni precedenti e diversamente da quanto ha sostenuto Robert Bultot,[18] occorre affermare risolutamente che in questi testi Anselmo non riduce a priori il desiderio del matrimonio a una passione carnale, né giudica tale l’amore umano, del quale, al contrario, riconosce la legittima espressione nell’unione sponsale, come ci testimonia Eadmero, nella puntuale descrizione dei suoi insegnamenti:
Ai coniugi [Anselmo] dava ragguagli sulla fedeltà, sull’amore, sull’intimità che in base alle leggi di Dio e del mondo avrebbe dovuto unirli insieme, dicendo che il marito doveva amare la propria moglie come se stesso [Ef 5,33], non conoscere nessun’altra donna all’infuori di lei, e averne cura come del suo corpo senza nutrire su di lei alcun vile sospetto; che la moglie obbedisse invece a suo marito con totale sottomissione ed amore ed instancabilmente lo incitasse a comportarsi bene e lo calmasse con dolcezza nel caso in cui il suo animo si accendesse d’ingiusta collera verso qualcuno.[19]
L’amore coniugale, che pure unisce nell’amplesso l’uomo e la donna, infatti, concorre, mediante la procreazione, la generazione e l’educazione dei figli, a completare il numero perfetto di creature razionali (angeli, santi uomini e donne) previsto ab origine da Dio per la città celeste.[20] Il seguente passo del Cur Deus homo, opera pubblicata nel 1098, offre una delle testimonianze più mature circa la riflessione anselmiana intorno a questi contenuti:
Anselmo: Benché la creatura non abbia nulla da sé, tuttavia, quando Dio le concede di fare o di non fare lecitamente una cosa, le dà la possibilità di scegliere l’una o l’altra. Per cui, sebbene una sia migliore dell’altra, la creatura non è obbligata in maniera determinata né all’una né all’altra; ma sia che compia quella migliore sia che compia l’altra, si deve dire che doveva fare ciò che fa. E se compie la cosa migliore essa ha un premio in quanto liberamente dà ciò che è suo. Per esempio, pur essendo la verginità migliore del matrimonio, nessuno dei due stati è imposto all’uomo in modo determinato, ma diciamo che sia chi usa del matrimonio sia chi preferisce conservare la verginità fa quello che deve fare. Nessuno affermerà che non si deve scegliere la verginità o il matrimonio; ma che ciascuno deve fare ciò che preferisce prima di scegliere l’uno o l’altro stato, e se sceglie la verginità può attendere una ricompensa per il dono che liberamente offre a Dio. Pertanto quando affermi che la creatura deve a Dio ciò che conosce come migliore e lo può attuare, se intendi “a titolo di giustizia” e non sottintendi “se Dio lo comanda” non sempre è vero. Perché come ho detto, l’uomo non deve praticare la verginità a titolo di debito, ma deve usare del matrimonio se lo preferisce.[21]
Di questo singolare itinerario sulla verità dell’uomo e della donna ci sono tantissime altre tappe che potrebbero essere messe in luce. Naturalmente non è qui possibile farlo in modo esaustivo, ma possiamo fare ancora un passo avanti e considerare un ultimo decisivo aspetto. La fuga dall’uomo a Dio del giovane Anselmo, iniziata ad Aosta, trovò nella quiete del chiostro dell’abbazia del Bec, in Normandia, il suo felice esito, con la ricomprensione però da parte sua dell’uomo stesso in Dio.
Appunto nel 1093, la nomina di Anselmo ad arcivescovo di Canterbury spostò il suo sguardo dal singolo uomo all’umanità: la molteplicità di uffici e di sfide politiche, religiose, culturali, che sconvolsero la sua quiete monastica, gli richiesero un ulteriore sforzo di ascesi e di discernimento speculativo: in gioco stavolta non c’erano semplicemente la sua pace, la sua rettitudine e la sua felicità, ma quelle del mondo stesso. In tal senso egli ha modo, nel solco del De civitate Dei di Agostino, di guardare alla città celeste, quale luogo di appartenenza dell’umanità, maturando peraltro una concezione collettiva della beatitudine, che con difficoltà ritroveremo negli sviluppi filosofici e teologici a lui successivi, e che l’odierna sensibilità culturale, di stampo individualistico, sembra ignorare.
Sulla necessità che gli uomini siano felici fa perno il suo capolavoro dottrinale, il Cur Deus homo,[22] in cui si propose di dimostrare con ragioni necessarie (rationibus necessariis) e messo da parte Cristo, come se non fosse mai esistito, come se non si sapesse quasi nulla di lui (remoto Christo, quasi numquam aliquid fuerit de illo; quasi nihil sciatur de Christo[23]), i misteri dell’incarnazione e della redenzione. Quest’opera, che ha un taglio prettamente apologetico, per quanto sia poi stata annoverata a giusto titolo tra i classici della dogmatica cristiana, richiede ad Anselmo uno sforzo di approfondimento sull’uomo e sulla sua dignità ancora più radicale, da lui realizzato mediante il ricorso appunto alla sola ragione.
Le categorie antropologiche qui contenute e la stringente logica con cui è tessuta finemente la trama del discorso danno ragione addirittura di un Dio che in Gesù Cristo si compiace di farsi e di essere uomo. E Anselmo già all’inizio del primo libro fa trapelare, in qualche modo, con lucida fierezza quella che sarà la conclusione delle successive argomentazioni, lasciando capire così chi siano i destinatari ad extra della sua ricerca: non tanto i non credenti, quanto piuttosto gli ebrei e i musulmani, che ritengono l’incarnazione di Dio un’empietà:
Gli infedeli ci obiettano, facendosi gioco della nostra semplicità, che noi offendiamo e oltraggiamo Dio quando affermiamo che è disceso nel seno di una donna, che da una donna è nato, che si è sviluppato nutrendosi di latte e di alimenti umani – passo sotto silenzio altre cose che paiono sconvenienti a un Dio – che ha sopportato la stanchezza, la fame, la sete, le battiture, la croce e la morte tra i delinquenti.[24]
Sullo sfondo si staglia netta la rivendicazione dell’altissima considerazione del valore e della dignità dell’uomo e della donna, propri della fede cristiana e, al tempo stesso, dell’umanesimo che da questi scaturisce: al Bec Anselmo aveva compreso ed esperimentato che l’uomo è capace di Dio, potendo riconoscerne la presenza nella natura e soprattutto nella propria interiorità – il Monologion, il Proslogion e gli altri scritti di questo periodo sono le testimonianze di questo percorso –; a Canterbury, Anselmo fa l’ultimo decisivo passo, e comprende, avendo sullo sfondo della sua ricerca razionale il mistero di Gesù Cristo, che l’uomo non solo è capace, ma che è addirittura degno di Dio, di un Dio-uomo.
Si ricompone così in un’armonia sorprendente quella netta sproporzione e separazione del suo immaginario infantile tra l’altezza incommensurabile di Dio e la piccolezza vergognosa dell’uomo, tra il palazzo di Dio della città celeste, collocato su un monte altissimo, e la città dell’uomo situata nel fondovalle. In tal senso, possiamo dire che la complessa riflessione sull’uomo sviluppata da Anselmo nell’arco di tutta la sua vita, che fa perno intorno ai concetti di verità, razionalità, beatitudine, giustizia, rettitudine della volontà, libertà dell’arbitrio, dignità, onore, debito, soddisfazione, corpo e anima, lo porta alla fine a ritenere che in quel palazzo, sull’alto monte, Dio non dimora più solo: assieme agli angeli, tutta l’umanità vi ha diritto di cittadinanza, ogni uomo e ogni donna. Egli può così anticipare all’inizio del Cur Deus homo:
In nessun modo noi offendiamo e oltraggiamo Dio [quando affermiamo che si è fatto uomo]; anzi rendendogli grazie, di tutto cuore lodiamo e proclamiamo l’ineffabile grandezza della sua misericordia. Quanto più meravigliosa e paradossale è la maniera con cui egli ci ha liberato dai grandi e meritati mali in cui ci troviamo e ci ha restituito i grandi e non dovuti beni che avevamo perduto, tanto più grande è l’amore e la pietà che egli ci dimostra.[25]
*Il presente articolo ripropone, opportunamente rivisto e ampliato, il testo della relazione tenuta dall’Autore il giorno 16 marzo 2009, ad Aosta, nell’Aula Magna “Sant’Anselmo” dell’Università, in occasione della presentazione del suo volume La verità sull’uomo. L’antropologia di Anselmo d’Aosta (Collana di teologia diretta da P. Coda, 62), Presentazione di mons. G. Anfossi, Prefazione di L. Mauro, Appendice: De beatitudine perennis vitae, ms. 24, ff. 107v-111r, Mediathèque “J.J. Rousseau” - Chambéry (France), Città Nuova, Roma, 2009, 164 pp., la cui pubblicazione è stata interamente finanziata dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta. La relazione ha fatto seguito agli interventi del Magnifico Rettore, prof. Pietro Passerin d’Entrèves, dell’Assessore all’Istruzione e Cultura, dott. Laurent Viérin, del Vicario Generale, can. Franco Lovignana, e alle relazioni del prof. Luciano Malusa (Ordinario di Storia del Cristianesimo nell’Università di Genova) e del prof. Letterio Mauro (Ordinario di Storia della Filosofia nell’Università di Genova).
Note al testo
[1] Eadmero di Canterbury, Vita di Sant’Anselmo, lib. II, cap. VII, § 72, a cura di S. Gavinelli, Jaca Book, Milano, 1987, pp. 157-158.
[2] Giovanni di Salisbury, Vita di Sant’Anselmo, cap. I, in Id., Anselmo e Becket. Due vite, a cura di I. Biffi, Jaca Book, Milano, 1990, p. 27.
[3] Cfr. ibid.; si veda inoltre Eadmero di Canterbury, Vita di Sant’Anselmo, lib. I, cap. I, § 2, op. cit., p. 36.
[4] R.W. Southern, Saint Anselm: a portrait in a landscape (1990), trad. it. Anselmo d’Aosta. Ritratto su sfondo, Jaca Book, Milano, 1998, pp. 21-22.
[5] Anselmo d’Aosta, I Meditazione per suscitare il timore, in Id., Orazioni e Meditazioni, a cura di I. Biffi - C. Marabelli, Jaca Book, Milano, 1997, pp. 429-437.
[6] Id., Perché un Dio uomo, lib. II, cap. 14, a cura di D. Cumer, Edizioni Paoline, Alba, 1966, p. 197.
[7] Cfr. Id., Epistola 2, in Id., Lettere, 1: Priore e abate del Bec, a cura di I. Biffi - C. Marabelli, Jaca Book, Milano, 1988, pp. 109-115.
[8] Cfr. Id., Proslogion, cap. II, a cura di I. Sciuto, Rusconi, Milano, 1996, pp. 96-99.
[9] Cfr. ivi, cap. XXVI, pp. 140-143.
[10] Cfr. Anselmo d’Aosta, II Meditazione o lamento per la verginità perduta, in Id., Orazioni e Meditazioni, op.cit., pp. 446-447.
[11] Cfr. J. Leclercq, Monks and Love in Twelfth-Century France (1979), trad. it. I monaci e l’amore nella Francia del XII secolo, Jouvence, Roma, 1984, pp. 66-68; cfr. anche Sancti Anselmi Cantuariensis Archiepiscopi Opera Omnia, ad fidem codicum recensuit F.S. Schmitt, F. Frommann Verlag (Günther Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt, 1968, II/3, p. 80.
[12] Cfr. Anselmo d’Aosta, Epistola 177, in Id., Lettere, 2/1: Arcivescovo di Canterbury, a cura di I. Biffi - C. Marabelli, Jaca Book, Milano, 1990, pp. 200-203. Cfr. anche R.W. Southern, op. cit., pp. 275-277.
[13] Per ulteriori informazioni cfr. C. Marabelli, Commenti alle Lettere 168 e 169, in Anselmo d’Aosta, Lettere, 2/1: Arcivescovo di Canterbury, op. cit., pp. 168-171; 174-175. Cfr. anche R.W. Southern, op. cit., pp. 277-279.
[14] Anselmo d’Aosta, Epistola 168, in Id., Lettere, 2/1: Arcivescovo di Canterbury, op. cit., pp. 168-171.
[15] Cfr. J. Leclercq, Monks on marriage: a Twelfth-Century view (1982), trad. it. I monaci e il matrimonio. Un’indagine sul XII secolo, Società Editrice Internazionale (SEI), Torino, 1984, p. 162; si veda anche G.R. Evans, St. Anselm’s images of Trinity, in “Journal of Theological Studies”, 27 (1976), pp. 46-57.
[16] Cfr. sempre C. Marabelli, Commenti alle Lettere 168 e 169, in Anselmo d’Aosta, Lettere, 2/1: Arcivescovo di Canterbury, op. cit., pp. 168-171; 174-175.
[17] Anselmo d’Aosta, Epistola 169, ivi, pp. 176-177.
[18] Cfr. R. Bultot, Christianisme et valeurs humaines. La doctrine du mépris du monde, IV, vol. 2, Nauwelaerts, Louvain-Paris, 1964, pp. 139-178, in particolare pp. 118-121.
[19] Eadmero di Canterbury, Vita di Sant’Anselmo, lib. I, cap. VI, § 46, op. cit., pp. 84-85.
[20] Cfr. Anselmo d’Aosta, Cur Deus homo, lib. I, cap. XVIII, in Sancti Anselmi Cantuariensis Archiepiscopi Opera Omnia, ad fidem codicum recensuit F.S. Schmitt, F. Frommann Verlag (Günther Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt, 1968, I/2, pp. 76-84; cfr. anche Id., De conceptu virginali et originali peccato, cap. X, ivi, pp. 151-152.
[21] Id., Perché un Dio uomo, lib. II, cap. 18, op. cit., p. 222.
[22] Cfr. ivi, lib. II, cap. 1, pp. 161-162.
[23] Cfr. Id., Cur Deus homo, Praefatio, in Sancti Anselmi Cantuariensis Archiepiscopi Opera Omnia, op. cit., I/2, p. 42.
[24] Anselmo d’Aosta, Perché un Dio uomo, lib. I, cap. 3, op. cit., pp. 73-74.
[25] Ivi, p. 74.