I media raccontano la realtà o la alterano? di Marina Corradi
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Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione di un intervento di Marina Corradi tenuto in occasione della tavola rotonda organizzata nel corso del Seminario “Cronaca: Bambini, adolescenti e giovani”. Ruolo della famiglia, della scuola e del territorio nella società mediatica, svoltosi a Verolanuova (Brescia) il sabato 6 ottobre 2001. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Anche il titolo è nostro. Di Marina Corradi vedi su questo stesso sito la pagina Articoli di Marina Corradi.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2012)
Sono giornalista da vent’anni, ho tre figli ancora piccoli, e dunque il mio intervento è a metà tra queste due posizioni: giornalista, e madre.
Comincio da un esempio concreto: il 12 settembre, il giorno dopo l’attentato a Manhattan, ho accompagnato a scuola mio figlio di nove anni e l’ho sentito discorrere coi suoi compagni di quello che aveva visto. E mi ha ferito nel sentire un’ombra di eccitazione nel raccontare: – “Hai visto l’aereo cosa ha fatto? L’ha colpita… è crollata!” – che mi ha turbato molto.
Allora, quando sono tornata a casa, l’ho preso da parte, quasi per la collottola e gli ho detto: “Guarda che dentro quei grattacieli c’era gente che si affannava per scappare, c’erano delle madri che non sono tornate più dai loro figli. Tu hai visto una cosa straordinaria, che forse sembrava un film, ma non hai visto molte altre cose che la Tv non ti poteva fare vedere”. Lui mi ha guardata in silenzio, colpito, perché la televisione, in tempo reale, gli aveva mostrato tutto, non poteva mostrargli di più, però non gli aveva mostrato i pensieri e l’angoscia di quelle migliaia di persone che dentro correvano e scappavano pensando ai loro figli e telefonavano al marito “Ti amo”… “Non ti vedrò mai più”.
Questo mi ha confermato un limite dei media, soprattutto della televisione, e cioè di farci vedere “tutto”, ma non poter farci vedere quello che non può essere mostrato. È il contrario della tradizione orale.
Mio padre è stato in Russia, è uno di quelli che son tornati dalla Russia con la Julia e mi ha raccontato pochissimo, però quel poco era tutto incentrato sul suo vissuto interiore personale: “Volevo tornare per vedere mia madre… avevo paura… avevo freddo… lottavo per conquistarmi un posto in un’isba e scampare alla notte…” . Per cui quel pochissimo che mio padre mi ha detto mi è stato trasmesso in maniera fortemente interiorizzata. Io non ho mai visto riprese, che non c’erano, e solo poche foto in bianco e nero della ritirata di Russia, però quello che me ne è rimasto è estremamente profondo, tanto quanto, secondo me, è esteriore quello che è rimasto a mio figlio che ha visto semplicemente, in tempo reale, il crollo delle torri in Tv.
Questo mi fa pensare che una conseguenza possibile sui nostri figli, esposti a una continua informazione televisiva, sia quella di vedere “tutto”, ma non necessariamente in maniera partecipe e profonda, vedere come degli spettatori affacciati al balcone, e non avvertire il dolore, la sofferenza, l’anima vera di chi è coinvolto.
Nei testi universitari di criminologia c’è una categoria di criminali che si chiamano “delinquenti per mancanza di immedesimazione”. Sono persone che fanno del male in quanto hanno la patologica incapacità di immedesimarsi nella sofferenza della vittima. Allora, questa è una categoria criminologica estrema, però mi chiedo se il continuare a vedere delle cronache, della violenza e del male, solo in maniera esteriore, senza esserne partecipi, non possa indurre questa sorta di estraneità per cui vedi il male e puoi anche farlo in quanto non hai capito che cosa avviene oltre ciò che vedi.
C’è un famoso sociologo americano, Meyrowitz, che ha detto che da trent’anni l’umanità subisce una mutazione antropologica. Mentre una volta i bambini venivano cresciuti dalle mamme, le ragazzini crescevano con le sorelle più grandi o con le donne, gli uomini stavano con gli uomini; ciascuno aveva un ambito di educazione suo, in cui si sviluppava; da trent’anni invece c’è questa “madre globale” che è la Tv, che insegna a tutti le stesse cose, superando ogni barriera.
Meyrowitz parla di una mutazione, non dice che è né buona né cattiva, però è una mutazione. Per la prima volta l’uomo viene educato in maniera totalmente diversa. È un po’ una sorta di globalizzazione dell’educazione: non ci sono più aree mirate, ma una cosa omogenea estesa a tutti.
Credo che trent’anni fa, quando Pasolini diceva che la Tv sarebbe stata “un trattore sulle coscienze degli italiani”, forse profeticamente pensasse a questo passaggio di un mezzo pesante che ci allinea tutti.
E non parlo tanto di violenza, né di sesso. Io, lavorando in un giornale cattolico, mi rammarico quando vedo che le reazioni di molte famiglie si registrano solo di fronte a qualche spettacolo scandaloso o scabroso, quasi che quello fosse il male e tutto il resto… pazienza. Invece quella è la punta di un iceberg. Secondo me, l’eventuale danno di una superesposizione televisiva non è quello di assistere a una scena con delle donne nude, è una cosa molto maggiore, molto più profonda, è un intervenire nel sentire comune della gente. Il nostro sentire comune viene profondamente modificato, senza che spesso ce ne accorgiamo.
Un esempio: vent’anni fa Miss Italia era un concorso in via di decadenza che le femministe giustamente prendevano in giro, e nessuna ragazza con un minimo di sale nel cervello avrebbe pensato seriamente di poter andare a sfilare in costume davanti a dei giudici. Questo vent’anni fa. Dopodiché, alcuni anni fa, la Rai ha cominciato [...] a fare ampie trasmissioni sul concorso; ore, ore e ore, le controfinali, le semifinali, le sottofinali, per cui quel concorso che era moribondo, che era roba da medioevo, vecchia e ridicola, è diventato televisione. Con la promessa, adesso, di raddoppiare, di mandare alcune vincitrici a fare soap operas.
Così è diventato un richiamo colossale e l’ideale di molte ragazzine è quindi di andare a Miss Italia, cosa che altrimenti non si sarebbero sognate. Le loro madri sognavano un buon matrimonio e la Cinquecento. Il cambiamento, la metamorfosi, c’è stato: un recente sondaggio, di cui hanno scritto i giornali, dice che quasi la metà delle madri italiane sogna che il proprio figlio abbia successo, più ancora che sia felice: e identifica il successo con il comparire in Tv, quindi la metamorfosi è già avvenuta.
C’è un famoso studioso della comunicazione, Gianfranco Bettetini, che in un bel libro, “Quel che resta dei media”, ha posto una domanda provocatoria e interessante della società: “I media ci raccontano la realtà, o la alterano? Sono uno specchio fedele, oppure deformante?”.
Ed è una domanda che io, da madre e da giornalista, mi faccio spesso quando guardo la televisione. Penso che la TV abbia effettivamente un potere di alterare molto forte, in parte nemmeno del tutto colpevole negli stessi operatori. Per esempio, la categoria giornalistica è mediamente più benestante, più liberal, più consumista, più aperta alla modernità rispetto all’italiano medio, per cui produce una “cultura” a sua immagine e somiglianza .
Però c’è anche a volte un disegno, secondo me, non così inconscio. Quando vedo certi talk show sulle verità familiari, sui segreti familiari messi in piazza, mi chiedo se non c’è una volontà di catechizzare, di liberarci del nostro vecchio, oscuro residuo di cattolicesimo, se non c’è proprio un intento “pedagogico”, in un certo tipo di trasmissioni.
Concludo. A fronte di queste cose, come avete capito, io non amo la televisione, la guardo il meno possibile. La tentazione di difendersi è forte, la tentazione del giardino dei Finzi Contini, di chiudersi nel proprio giardino e di dire “arrivederci, noi stiamo qua chiusi e tranquilli”. Però, nel giardino dei Finzi Contini va a finire molto male. Il mondo preme ai nostri confini, non siamo un’isola; i nostri figli se anche non facessimo vedere loro la Tv – cosa impossibile – avrebbero amici e insegnanti che sono esposti comunque. Quindi il problema è molto più complesso.
Tra l’altro io trovo pericolosissimo proibire la Tv ai bambini perché vedo i figli di certi miei amici integralisti che non possono vedere la Tv: arrivano a casa nostra a giocare e si buttano davanti al video come gli assetati in un’oasi nel deserto. Questa proibizione ha reso ai loro occhi terribilmente attraente questa cosa, che in sé non lo sarebbe tanto. Anzi io sono tentata da un’ipotesi paradossale: lasciare tanto accesa la TV, che i bambini si abituino a guardarla come una vecchia zia, che parla, parla e nessuno sta ad ascoltarla.
Però, secondo me, la vera difesa [...] è una difesa interiore, cioè è un essere presente, guardare e giudicare. Giudicare non blandamente, non nel modo “politicamente corretto”: giudicare con durezza e con nettezza, dire anche una parola forte, dire “questa è un’idiozia, non ci credere, questa è una balla”, arrabbiarsi, essere netti. Magari sbagliando, però, almeno offri a tuo figlio qualcosa su cui può confrontarsi. Può dire “sono d’accordo con te”, oppure no. Ci sei, non sei un fantasma.
L’ultima cosa che voglio dire nasce, anche questa, da un’esperienza familiare: quest’estate in campagna, la televisione è rimasta sempre spenta, e non per mio intervento. I miei figli avevano scoperto la bellezza di costruirsi una casa con dei vecchi mattoni, con delle vecchie assi. E quando io, siccome pioveva a dirotto e questi erano bagnati fradici, ho detto “per favore, accendete la televisione, guardate un cartone” ,mi hanno risposto: “Ma, mamma, abbiamo una cosa importante da fare!”.
Allora m’hanno insegnato una cosa, quando un bambino, un uomo, ha un impegno serio, qualcosa che gli piace veramente, che lo appassiona, è meno permeabile alla suggestione della televisione. Allora rientra in campo il problema di cosa siamo noi, e che idea abbiamo del tempo e per cosa lo vogliamo spendere. Vi ringrazio.