Filippo Neri prete romano, di Antonio Cistellini
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Riprendiamo da Memorie Oratoriane del dicembre 2000, n. 20, pp. 17-22 un articolo postumo di padre Antonio Cistellini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti su San Filippo Neri, vedi la sezione Maestri dello Spirito.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2012)
Questo articolo di padre Cistellini è una relazione tenuta al convegno «San Filippo Neri nella realtà romana del XVI secolo». Il testo si distingue per chiarezza espositiva e per il sintetico sguardo sulla vita e sullo spirito di San Filippo.
Filippo Neri si spense placidamente alla Vallicella, circondato dalla corona dei suoi come un antico patriarca, alle prime ore del 26 maggio 1595. Già da vivo era stato venerato, e non solo a Roma, come un santo; alla sua morte fu il popolo, insieme con personalità di primo piano, a proclamarne la santità.
Subito ecclesiastici autorevoli ottennero dal papa, Clemente VIII, che si avviasse il processo di canonizzazione. La deposizione dei testi si incominciò a raccogliere il 2 agosto e proseguì fino al 1601. Dopo una sosta di tre anni e mezzo, dovuta a vari motivi, durante la quale uscì la prima biografia del padre (1600 e 1601) a opera del p. Antonio Gallonio che si giovò molto delle già copiose testimonianze, l’attività processuale fu ripresa nel 1606, e vi ebbe anche merito, per buone ragioni, l’ambasciatore di Francia Carlo duca di Nevers.
Fu allora che il popolo romano si inserì ufficialmente in questa impresa. Il martedì 10 febbraio 1609, il magistrato del popolo romano in Campidoglio, in seduta segreta, deliberò di abbracciare la causa della canonizzazione, deputando quattro consiglieri ad occuparsene direttamente. (Ci furono 20 voti contrari su 125 consiglieri). Il giovedì 12 febbraio, in seduta pubblica - in un ambiente «pienissimo di nobiltà quanto mai sia stato» - fu confermata a gran voce la delibera.
Non solo, ma si stabilì che per la festa anniversaria il Comune offrisse un omaggio alla chiesa di S. Maria in Vallicella di un calice d’argento di 30 scudi con quattro torce: ciò che fu fatto quell'anno stesso il 26 maggio: rito che si continua tuttora.
Con tutto ciò il processo canonico, che sembrava sempre vicino alla felice sua conclusione, per varie e complesse vicende andò poi a rilento con altre incresciose interruzioni. Si giunse al 25 maggio 1615, quando Paolo V dichiarò Filippo beato e autorizzò a celebrarne l’ufficiatura. Ma soltanto cinque anni dopo, sotto il successore Gregorio XV; il 12 marzo 1622 il fiorentino-romano Filippo Neri fu proclamato santo. (Ma ancora, fino alla fine, a stento e fatica, sembra: pare che, fra l’altro, a ostacolarne l'esito abbiano concorso autorevoli esponenti spagnoli, sempre memori dell'intervento decisivo di Filippo nell’assoluzione di Enrico di Navarra, che solo alla fine si rassegnarono a veder aggiunto l'umile prete secolare della Vallicella ai quattro canonizzandi spagnoli: S. Ignazio, S. Francesco Saverio, S. Teresa, S. Isidoro).
Indicibile l’esplosione di giubilo di tutta Roma alla canonizzazione di padre Filippo, allora più che mai sentito santo romano. (Si diceva dalle malelingue che erano stati canonizzati quattro spagnoli e un santo!).
Abbondano le narrazioni particolareggiate delle interminabili festose celebrazioni che si svolsero in quei giorni in Roma, dopo S. Pietro, a S. Maria in Vallicella, a S. Giovanni de’ Fiorentini, a S. Girolamo della Carità e altrove, con processioni dietro ai variopinti stendardi, panegirici, musiche, spari e girandole.
Il fiorentino Filippo Neri era dunque davvero santo romano? La traduzione della giustamente celebrata biografia del santo dei francesi L. Ponnelle e L. Bordet (pubblicata in Francia nel 1928-29), uscita in Italia nel 1931, recava la bella prefazione di Giovanni Papini, nella quale si moveva agli autori dell'opera un solo appunto: quello di non aver abbastanza lumeggiato la «fiorentinità» di Filippo. Ne sorse una disputa curiosa, nella quale, fra altri, alzò la voce il compianto filippino p. Carlo Gasbarri con una sua biografia, intitolata appunto, polemicamente, «Filippo Neri santo romano». Che cosa dirà di tale disputa campanilistica, curiosa e forse alquanto oziosa e oggi di scarso interesse?
E certamente vero che Filippo, non solo era fiorentino (da quattro generazioni la famiglia era scesa da Castelfranco di Sopra nel Valdarno), e lui stesso gradiva che gli altri sapessero «che e’ lo fusse», ma da quando, nel 1534, era giunto a Roma, in veste di pellegrino, l’Urbe fu la sua patria. Anche se una indicazione precisa della sua vocazione gli verrà data più tardi, fin da principio egli è soprattutto affascinato e conquistato dagli aspetti sacri di Roma: sono le chiese, che egli visita continuamente (proseguendo la pratica di Firenze), le catacombe - quella di S. Sebastiano, la sola accessibile allora -, le memorie dei martiri, i riti religiosi.
Ma c’è un episodio che lo fa decidere a fissarsi per sempre in Roma, per una vocazione tutta sua singolare. Fu qualche anno dopo la sua ordinazione sacerdotale (1551) e l’avvio dell’Oratorio da S. Girolamo della Carità, che, alla lettura all'Oratorio delle lettere dei primi evangelizzatori del nuovo mondo (di S. Francesco Saverio particolarmente, che si disse lo abbia conosciuto poco dopo giunto in Roma), prese a interrogarsi se non poteva anch’egli esser chiamato a quella straordinaria impresa.
Con un gruppetto dei suoi figli spirituali, fra i quali emergeva fervido Francesco Maria Tarugi, si recò per consiglio a S. Paolo da un religioso che lo indirizzò all'abbazia delle Tre Fontane da un monaco fiorentino di santa vita, il cistercense Vincenzo Ghettini. Questi, dopo aver preso tempo, alla fine gli dichiarò con estrema sicurezza che le sue Indie erano Roma! Sarebbe stato l’apostolo di Roma.
Questa eccezionale qualifica - apostoli di Roma da sempre designati i santi Pietro e Paolo - ora, ricorrendo il quarto centenario del suo pio transito, è stata solennemente riconfermata dal pontefice nella lettera commemorativa del 7 ottobre 1994: «Qualificato come il santo della gioia per antonomasia, S. Filippo dev’essere pure riconosciuto come "l’apostolo di Roma", anzi come il "riformatore della città eterna". Lo divenne quasi per naturale evoluzione e maturazione delle scelte operate sotto l'illuminazione della Grazia. Egli fu veramente la "luce" e il "sale" di Roma, secondo la parola del vangelo (Mt 5,13-16). Seppe esser luce in quella civiltà certamente splendida, ma spesso soltanto per le luci oblique e radenti del paganesimo. In tale contesto sociale Filippo rimase ossequiente all’autorità, devotissimo al deposito della verità, intrepido nell’annunzio del messaggio cristiano. Così fu la sorgente di luce per tutti».
«Filippo - osservava un grande filippino, il p. Guglielmo Faber, fondatore dell’oratorio di Londra - venne in Roma in uno dei momenti più gravi della chiesa. La capitale contava molti santi ma era anche piena di corruzione. Egli era il più quieto uomo nell’ardua opera sua che mai si fosse veduti; nondimeno, per così esprimermi, magnetizzava l’intera città. Quando cessò di vivere la lasciò tutt’altra di quello che era stata, anzi con l’impronta del suo spirito e del suo genio, tanto in essa profondi, che fu nominata città sua, ed egli apostolo di Roma».
Un genere di apostolato, che fu di riforma, tutto di suo genio, contemporaneo a quello di grandi personalità, coevo e prosecutivo del concilio, ma assai singolare, e ripetiamo, circoscritto al perimetro dell’Urbe. Esso avrà la sua lucida espressione nella sua azione ministeriale (nel confessionale, alla cattedra della parola di Dio, all' altare), concentrata nell' oratorio. E cioè: colloqui cuore a cuore, commenti di letture, sermoncini in stile familiare, illustrazione di storia della Chiesa e di vita di santi, dialoghi intervallati da laudi, canzoncine sacre, e poi passeggiate per colli e per chiese.
L’oratorio, sbocciato da lui nella casa ospitale di S. Girolamo, attirerà sempre più gente d’ogni sorta e condizione: finirà per diventare una delle meraviglie di Roma del tempo, addirittura! E la congregazione dell’oratorio poi, sorta accanto a Filippo fra i più intimi discepoli - a S.Giovanni de’ Fiorentini, poi alla Vallicella - costituirà con quello il cenacolo filippino, rappresentazione suggestiva della primitiva comunità gerosolimitana nella chiesa nascente. Appunto come la intesero, con Filippo, fin dal principio, il Baronio, i primi memorialisti e giù fino al Faber e al Newman.
A Filippo diventano così familiari tutte le strade di Roma: le conosce tutte e le pratica spesso, di solito col gruppetto dei suoi più vicini, di giovani soprattutto. Tenuto conto, che al dire del Montaigne (che fu a Roma giusto in quegli anni, 1580-81), «l’occupazione dei romani consiste nell’andare a spasso per le vie; di solito quando si accingono a uscire lo fanno solo per andare di strada in strada, non perché abbiano una meta dove fermarsi».
La gente che egli accosta e che lo avvicina - di solito, per non staccarsene più - appartiene alle più svariate categorie: un mondo variopinto, di artigiani giovani di bottega, professionisti, musici, artisti, uomini dell’aristocrazia e cortigiani: poi su ecclesiastici insigni, cardinali, fino al pontefice, che gli concede dimestichezza e riverenza. La Roma del suo tempo, che in certo modo è sua, è meravigliosamente rappresentata nei resoconti del lungo processo canonico (una ventina d'anni), verbalizzati e stilati con immediata vivacità e fedeltà.
Il messaggio pontificio gratifica ancora padre Filippo del prestigioso titolo di «riformatore di Roma». Quanti lo hanno accostato con chiarezza d’idee e buona informazione hanno sempre escluso che nel suo programma (ammesso che un vero e proprio programma egli avesse mai formulato delle sue attività), ci fosse alcun proposito di riforma. Altri, e molti, in quel tempo perseguivano quell’ideale di restaurazione. Giusto nell’età di Filippo si sta realizzando nella chiesa una decisa azione di riforma, le cui tappe e momenti salienti sono noti: dall’elezione di Paolo III Farnese, al Consilium de emendanda ecclesia, al rinnovato collegio cardinalizio dove brilleranno uomini davvero degni e insigni, e soprattutto al concilio di Trento che sta come spartiacque dalla metà del secolo XVI.
Giova osservare che proprio incerti momenti di rilievo della vita di Filippo coincidono con i tre periodi conciliari e le loro solenni intraprese di riforma in capite et in membris, in cui s’iscriverà pure la sua mirabile operosità apostolica.
Nel novero dei grandi riformatori del suo tempo egli è unanimemente riconosciuto. «Filippo Neri - asseriva, ad esempio, il grande storico della spiritualità cattolica E. Brémond - fu il riformatore di Roma, il più grande forse, non avendo nessun altro, sembra, lavorato con maggior successo a cambiare la faccia della città eterna durante il periodo disperatamente critico che va dal sacco di Roma all’assoluzione di Enrico IV, dal Carafa ai due Borromeo. Quando Filippo giunse a Roma da Firenze nel 1534, la riforma della curia sembrava impossibile; quando egli morì, nel 1595, essa era un fatto compiuto».
Val la pena, tuttavia, di rilevare che alla Vallicella, né da parte di Filippo né di altri, si parla mai di riforma. Sarà verso la fine del secolo, intensificandosi le premure per l'avviato processo di canonizzazione, che uno dei più animosi soggetti della prima ora, il p. Antonio Talpa, prese a delineare la figura di Filippo in veste di riformatore, di Roma prima, per un’azione riformatrice di tutta la chiesa. «Stimolato dallo zelo ch'avea de la riforma de la chiesa, fu ispirato dal Signore d’incamminar in Roma, sotto la sua disciplina ne la vita spirituale, un numero di suoi devoti, ch’avea per mezzo de la confessione generati nello spirito, a promuoverli a lo stato clericale, e, a poco a poco con questo mezzo, la disciplina ecclesiastica e conseguentemente la riforma, con speranza che da Roma poi (questa) si avesse a diffondere per tutto».
Ma, come s’è detto, la sua azione di riforma non pare affiancarsi esplicitamente alla dichiarata attività riformistica che la chiesa ha seriamente avviato, soprattutto mediante il concilio. Di questo fra i padri e nel mondo oratoriano sembra che non si faccia mai parola; nessun documento (lettere, disposizioni, ecc.) ne fa cenno. Di quel gran movimento di idee, di propositi, di opinioni di quegli anni, che vanno appunto dall’esordio sacerdotale di padre Filippo: di quell’andirivieni di uomini di svariate condizioni (prelati, principi, politici) fra Roma e Trento, durante i tre periodi del concilio non sembra esserci sentore o interesse nel mondo filippino (peraltro appena abbozzato). L’orizzonte di Filippo e dei suoi è soltanto quello di Roma, e questo è il campo che essi si sentono impegnati a coltivare, consapevoli che i frutti ridonderanno in vantaggio della chiesa universale.
Una volta soltanto Filippo è ispirato ad allargare la sua visuale: nel momento drammatico riguardante l’invocata assoluzione di Enrico di Navarra (Enrico IV); dall’uccisione di Enrico III (1589) al 1593, al 1595. Questo suo eccezionale intervento ebbe luogo dietro impulso e incitamento di due suoi amici e figli spirituali, il cardinale Alessandro de’ Medici e il cardinale Gianfrancesco Morosini.
L’azione persuasiva presso il papa di padre Filippo (che, per suggerimento del card. Medici, già nunzio e legato in Francia durante le tragiche vicende, non rifiuta di introdursi perfino nella camera dove il papa è dolorante per la gotta) è subito da lui intesa per il bene dell’intera cattolicità. L’assoluzione verrà nel settembre 1595, con la bolla stesa dal card. Silvio Antoniano (un altro figlio spirituale di Filippo) e sarà davvero un gesto di immensa portata: salvezza della Francia dalla minaccia calvinista e dalle bramose spire della Spagna regalista di Filippo II.
All’infuori di questo episodio, non si sa che Filippo abbia guardato al di là di Roma nel suo ministero. Egli, per usare ancora l’asserzione del papa, è stato adottato da Roma; ma Roma pure è stata da lui adottata.
Filippo rimaneva in Roma quasi come oggetto di particolare attrazione, di incommensurabile affetto (il card. de’ Medici, che già diceva di trovare il paradiso nella stanzetta del padre, appena morto lui scriveva a G.B. Strozzi a Firenze che ormai, dopo la scomparsa di Filippo, nulla più lo confortava per rimanere in Roma).
E quanto Roma deve a Filippo, per tante cose belle e buone che egli le donò, che varrebbe la pena di inventariare e di cui tenere religiosa memoria! A cominciare, per esempio, dal rinnovato interesse per la chiesa antica, di cui affidò lo studio a Cesare Baronio, per l’archeologia cristiana, soprattutto per le catacombe. I nomi di Giovanni Severani, Antonio Bosio, di Paolo Aringhi, appartengono al vivaio culturale religioso della Vallicella, dove padre Filippo è ispiratore e maestro.
Mi basti qui soffermarmi su un dono tipicamente filippino, che peraltro adorna anche gli altri. La prima edizione della celebre biografia filippina di Luigi Ponnelle e Luigi Bordet, uscita nel 1928-29, recava una bellissima prefazione del card. Alfredo Baudrillard, nella quale l’illustre porporato oratoriano si rallegrava per quella pubblicazione che riteneva provvidenziale nell’immettere fra le correnti spirituali francesi, ancora alquanto immusonite e stagnanti relitti giansenistici, una ventata di fresca e gioiosa e ilare autenticità cristiana attraverso la figura incomparabile del fiorentino-romano Filippo Neri. Questa corrente di gioiosa interpretazione del vivere cristiano, Filippo la profuse in Roma fin da principio e per tanti anni. Philippus sive de christiana laetitia (Valier 1591) è un’equazione nota e ripetuta, che si deve anzitutto comporre nel suo preciso quadro storico, cioè nel tempo della cosiddetta «controriforma» e in quel contesto di severi provvedimenti, di austeri indirizzi di gravi personaggi.
Espressione viva di tale nota gioiosa che caratterizza l’apostolato filippino sarà la musica corale e monodica da principio, che resta una componente non trascurabile della pratica oratoriana filippina. La lauda, che scandisce il succedersi dei sermoni e della preghiera, recava un’antica origine fiorentina, savonaroliana: mentre, al dire del Razzi, nella sua patria era in decadenza, Filippo l’introdusse in Roma e la fece rifiorire fino, più tardi, a farla maturare in oratorio musicale.
La figura di Filippo si staglia, vigorosa e singolare, in quel clima revisionista e riformista dell’età post-tridentina, ma, è necessario rilevarlo ancora, i suoi occhi e il suo cuore restano sempre circoscritti all' orizzonte romano. Facile il confronto, specie con i gesuiti, che progettano un’azione planetaria. Tutt’altro indirizzo quello di Filippo. Ad alcuni dei suoi che, fin da principio, ambivano di emularli progettando missioni e fondazioni, egli si oppone con una sua bella massima che è insieme un assioma: «Chi fa il bene in Roma fa bene in tutto il mondo». E un pensiero denso di significati, e la storia l’ha convalidato più volte. Ma è pure un monito, anche per quelli che vivono e operano oggi in Roma: «Chi fa bene in Roma fa bene in tutto il mondo».