Lavoro. Così si sgretola l’uomo di marmo, di Józef Tischner
Riprendiamo da Avvenire del 18/12/2011 un testo di Józef Tischner. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/12/2011)
Trent’anni fa, l’estate di Danzica e i successivi avvenimenti misero davanti agli occhi stupiti del mondo un movimento di popolo raccolto sotto il nome-programma Solidarnosc. A dare uno sfondo etico all’azione di Solidarnosc, il sindacato guidato da Lech Walesa, c’era Józef Tischner, il prete e filosofo polacco scomparso nel 2000 e spesso citato da papa Wojtyla, che con le sue riflessioni indicava il senso di quell’esperienza nata dalla «sofferenza del lavoro». Per l’uomo schiacciato dalla crisi economica che vede crescere la povertà, diminuire le possibilità di lavoro, mentre il grande capitalismo spadroneggia in barba alle leggi dei singoli Stati, le riflessioni di Tischner possono essere più che attuali. Le edizioni Itaca rieditano a distanza di decenni i saggi di Tischner su Etica della solidarietà e del lavoro (da cui abbiamo tratto il brano pubblicato in queste pagine).
Per capire la situazione etica del lavoro, sarà bene affrontarla dal punto di vista della malattia e non della salute del lavoro. La malattia e l’oscurità che circondano il lavoro, la sterilità del lavoro, la disgregazione del lavoro, i conflitti nel lavoro, tutto questo ci parla del lavoro con una forza di persuasione molto maggiore dei suoi processi normali.
Che cosa ci dice sulla natura del lavoro la sua malattia? Possiamo distinguere tre tipi di disgregazione dell’ethos del lavoro. Il primo è noto col nome di sfruttamento del lavoro, il secondo tipo dovrebbe essere chiamato non senso del lavoro. Il terzo tipo ha uno statuto tutto particolare: è innanzitutto una malattia del pensiero sul lavoro e solo attraverso il pensiero sul lavoro c’è una malattia del lavoro.
Essa dà segni di sé soprattutto nelle epoche di intenso lavoro sul lavoro, e dunque anche nel nostro tempo. Il pensiero sul lavoro fa parte integrante del lavoro sul lavoro. Quando riflettiamo sul lavoro, ci serviamo di una determinata idea di lavoro. Ebbene, la terza malattia del lavoro è una malattia dell’idea di lavoro, una malattia del pensiero sul lavoro.
Una cosa va sottolineata: tutti i mali del lavoro di cui abbiamo parlato si manifestano con l’esperienza del lavoro senza speranza. È proprio di questo lavoro senza speranza che parla un detto divenuto popolare da noi in questi ultimi tempi: lavoriamo al buio. Lavorare al buio è lavorare senza speranza.
L’ingiustizia si manifesta innanzitutto sulla linea del rapporto datore di lavoro-lavoratore. A un dato momento il lavoratore si sente sfruttato per via del compenso, che a lui sembra troppo basso, ricevuto in cambio della fatica che fa prestando la propria opera al datore di lavoro. Questo è il caso più frequente. Ciò non esclude peraltro una situazione nella quale il datore di lavoro si senta sfruttato per il troppo poco lavoro che riceve in cambio del compenso offerto al lavoratore.
In un caso e nell’altro una cosa è però sicura: lo sfruttamento qui è una malattia (un’oscurità) del rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. Tutto intorno, nel mondo del lavoro, c’è chiarezza, solo qui regna l’oscurità. Resta infatti intatto il rapporto che lega l’operaio all’altro operaio, e anche il rapporto tra l’operaio e il destinatario dei frutti del suo lavoro.
Ci possiamo rappresentare la questione in questi termini: nelle vetrine dei negozi vediamo una grande quantità di merci, di frutti del lavoro cioè, però le nostre tasche sono vuote. Vedendo la grande varietà di merci esposte, ci rendiamo conto della molteplicità e della forza dei nostri bisogni; mettendo la mano in tasca, ci rendiamo conto del torto che ci è fatto. Le merci sono segno del lavoro che porta frutti, le tasche vuote invece dimostrano che la giustizia è priva di forza. Da qui nasce la convinzione che abbiamo diritto a un compenso proporzionale a questi bisogni che avvertiamo dolorosamente.
Descrizioni di ingiustizie di questo tipo sono note principalmente dal Capitale di Marx. L’idea di ingiustizia è presente in Marx nella forma del concetto di pluslavoro, cioè del lavoro che serve unicamente alla moltiplicazione della ricchezza del datore di lavoro capitalista. Per il pluslavoro l’operaio non riceve alcun compenso. Leggiamo in Marx: «Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione».
Nell’antichità, però, l’aspirazione ad aumentare il pluslavoro non aveva toni così estremi (a parte situazioni eccezionali) come nell’epoca moderna. Continuiamo a leggere: «Però, appena popoli la cui produzione si muove nelle forme inferiori del lavoro degli schiavi, della corvée ecc., vengono attratti in un mercato internazionale dominato dal modo di produzione capitalistico, il quale fa evolvere a interesse preponderante la vendita dei loro prodotti all’estero, allora sull’orrore barbarico della schiavitù, della servitù della gleba ecc. si innesta l’orrore civilizzato del sovraccarico di lavoro. Perciò, negli Stati meridionali dell’Unione americana, il lavoro dei negri conservò un carattere patriarcale moderato, finché la produzione fu prevalentemente orientata sui bisogni locali immediati. Ma, nella stessa misura in cui l’esportazione del cotone divenne interesse vitale di quegli Stati, il sovraccarico di lavoro del negro, e qua e là il consumo della sua vita in sette anni di lavoro, divenne fattore d’un sistema calcolato e calcolatore. Non si trattava più di trarre dal negro una certa massa di prodotti utili. Ormai si trattava della produzione del plusvalore stesso».
Nell’immagine etica di questo mondo l’oscurità è mescolata alla chiarezza. Un certo grado di ingiustizia qui è inerente al sistema. Tuttavia è chiaro che il lavoro porta frutti. L’oscurità si manifesta là dove ci sono degli uomini: datori di lavoro e lavoratori. Il male non compare come errore delle regole del gioco, perché il gioco corre, ma assume forma umana. E allora per gli uni sarà l’ingordo capitalista che cerca il massimo profitto, per gli altri sarà l’operaio sfaticato che dà troppo poco e chiede troppo. Tutto porta a concludere che la colpa non è del sistema, ma degli uomini.
Domina la convinzione che nonostante tutto l’uomo sia al di sopra del sistema e non il sistema al di sopra dell’uomo. Uomini buoni sarebbero in grado di costruire un sistema buono.
Si pone allora la questione: in che modo si possono rendere migliori gli uomini? Si ravvisa la possibilità di salvarsi dal male del sistema nel cambiamento morale dell’uomo. Sebbene Marx affermi che il cambiamento morale non porta a nulla, gli uomini vivono nella speranza. C’è bisogno di tanto poco per cambiare tante cose! Nascono utopie sociali, programmi, strategie. Il marxismo stesso ne è un esempio. Scoppiano scioperi e rivoluzioni. Ciò porta a cambiamenti parziali. Le tasche degli operai si riempiono, ma passa poco tempo e le merci rincarano, oppure compaiono articoli più di lusso, e allora le tasche tornano a vuotarsi.
Non c’è nulla di irragionevole in questo: l’uomo che lavora deve avere davanti a sé un traguardo concreto che lo stimoli a produrre uno sforzo. La distanza tra quello che si ha in tasca e quello che si vede in giro come ricchezza del mondo è il presupposto fondamentale di un regolare funzionamento di questo sistema di lavoro.
La distruzione del lavoro può assumere anche un’altra forma. Vediamo concretamente: sono fermo davanti a quello che si chiama comunemente un negozio, questa volta con le tasche piene di soldi, ma quello che vedo è il negozio vuoto.
Un negozio senza merce è il segno eloquente del fatto che il lavoro ha cessato di produrre frutti. Ciò non significa però che il lavoro sia scomparso del tutto. La gente si reca sul posto di lavoro e vi svolge coscienziosamente il proprio compito. Il suo lavoro individuale porta frutto. Però gli effetti individuali del lavoro non concorrono a formare un tutto.
L’epoca moderna, come è noto, ha operato la scomposizione del lavoro in parti, per moltiplicare in questo modo la quantità e migliorare la qualità del lavoro. A un certo punto avviene qualcosa di strano: le parti cessano di adattarsi l’una all’altra, ci sono i frammenti, ma non c’è unità, c’è un’orchestra, ma i suoni individuali non si amalgamano a formare una sinfonia.
Che cosa è successo? Si è avuta una disgregazione della struttura fondamentale del lavoro, il senso del lavoro è andato smarrito. In tale situazione ogni lavoro parziale è soltanto uno spreco di energie e di materiali. La ruota costruita in una fabbrica non si adatta all’asse costruito in un’altra fabbrica. I macchinari promessi per la fabbrica in costruzione arrivano sì alla data stabilita, ma la costruzione non è ancora terminata, e allora le macchine restano ad arrugginirsi alla pioggia e sotto la neve. Ogni lavoro che esiga la collaborazione di più persone e un ritmo che deve essere assolutamente rispettato, si ammala.
Resistono solo i lavori semplici, antichi, primitivi. Il progredire della malattia del lavoro si manifesta in questo convincimento, che lavoriamo al buio, senza un senso.
Ancora una volta si pone la domanda: di chi è la colpa? La risposta adesso non è così semplice come prima. Prima i sospettati erano noti, avevano un nome e un cognome, a volte dei marchi di fabbrica. Qui il soggetto della responsabilità è invece un grande pseudonimo. Là era possibile segnare a dito, qui resta solamente il sospetto. Là la colpa assumeva il carattere di una colpa morale, qui alle colpe strettamente morali si è aggiunto un difetto mentale. Là la modalità della riflessione sul lavoro era l’accusa mossa ai colpevoli, qui è una sospettosità diffusa. Questo è il segno che ci muoviamo nel buio.
Si può parlare ancora, in questo caso, di sfruttamento? Se sì, in ogni caso non nel senso in cui ne parlavamo prima. Infatti qui è stato violato non tanto il principio della giustizia, quanto la verità della convivenza tra gli uomini. Sappiamo bene che negli ultimi decenni si è verificato un enorme progresso del lavoro, consistente nel fatto che nel lavoro è diminuito il peso della fatica fisica ed è cresciuto quello mentale, o meglio è cresciuta l’importanza dell’informazione. Il corretto funzionamento dei sistemi di lavoro richiede il corretto funzionamento dei sistemi informativi e della buona organizzazione del lavoro che su di essi si basa. Tutte le volte che l’informazione si è interrotta, si è spezzata anche l’organizzazione e il lavoro è andato in crisi.
Non è stata una crisi delle sue energie, ma una crisi del suo senso. Il lavoro si è trasformato in un balbettio sconnesso dal quale è fuggita via la grammatica. C’è ancora posto, qui, per una speranza? Sembra a volte che forse sia il caso di far ritorno al lavoro primitivo, il quale non ha bisogno di informazioni e organizzazioni così complesse: ritornare alle falci, ai deschetti da ciabattino, all’incudine del fabbro ferraio.
Ma la cosa è veramente possibile? Anche il lavoro primitivo aveva un proprio mondo entro il quale veniva praticato, e questo ambiente era un elemento specifico di esso. Oggi questo mondo non c’è più. C’è ancora, qua e là, qualche ciabattino, ma non c’è più chi fa lo spago da calzolaio e i chiodi per scarpe.
L’uscita da questa crisi deve dunque essere un’altra. Occorre fare un salto verso l’alto e non verso il basso. Infatti dal balbettio al discorso di parole non si giunge attraverso la quantità, ma attraverso la qualità: non è sufficiente moltiplicare le parole, occorre trovare un livello diverso. Questo può essere fatto soltanto compiendo un lavoro sul lavoro. Il compito fondamentale del lavoro è la riflessione sulla storia in atto del lavoro, la valutazione della situazione del lavoro nello stadio di sviluppo nel quale esso oggi si trova [...].
Siamo invischiati giorno dopo giorno in un lavoro stravolto, in un balbettio senza grammatica, passiamo da un incontro all’altro col nonsenso. E che cosa udiamo all’orecchio? Quale ideale di lavoro sul lavoro? Udiamo il linguaggio dell’assurdo. Ogni minatore e ogni operaio dei cantieri lo sa: l’assurdo è che le ragioni politiche sono al tempo stesso ragioni etiche, e infatti contro questa identificazione protesta ogni monumento innalzato negli ultimi tempi alle vittime delle repressioni antioperaie. Lo sa ogni operaio, ogni contadino: l’assurdo è che la colpa più grande dell’uomo sia la colpa dell’individualità, perché le grandi individualità sono non soltanto santuari dell’umanità, ma anche autori del nostro progresso del lavoro.
L’assurdo è la presunzione che il ritmo comune del lavoro salvi il nostro lavoro, poiché la sua malattia non è la mancanza di forza, ma di senso. L’assurdo è che il lavoro di per se stesso umanizzi l’uomo, poiché la verità è che il lavoro senza senso disumanizza l’uomo. L’assurdo è che ciò che è più umano sia fuori dall’uomo, perché la verità è che la più umana delle cose umane si trova nell’uomo ed è l’onestà umana. L’assurdo è anche che si possa trasformare il campo del lavoro in un sanatorio del lavoro.
All’origine dell’assurdo sta la tesi che il lavoro non sia altro che lotta. No, mai nessuno sarà capace di costruire l’ethos del lavoro sull’ethos della lotta. Eppure questo è il linguaggio che sentiamo parlare sopra le nostre teste. Ecco dunque qual è il nostro paesaggio oggi: dal basso il nonsenso, dall’alto l’assurdo.
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