Finita l'era di von Karajan emergono i documenti per ricostruire il rapporto tra i Berliner Philharmoniker e il nazionalsocialismo. Goebbels e il suo giocattolo, di Alberto Batisti e A torto o a ragione Furtwängler rimase, di Emilio Ranzato
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 15/12/2011 due articoli scritti da Alberto Batisti e Emilio Ranzato. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/12/2011)
1/ Goebbels e il suo giocattolo, di Alberto Batisti
Nella notte fra il 29 e il 30 gennaio 1944 le bombe americane distruggevano la Alte Philharmonie di Berlino, il tempio della tradizione sinfonica tedesca, custodita dai Filarmonici e dal loro direttore musicale, Wilhelm Furtwängler. Nell'incendio della storica sala da concerti andavano in cenere anche tutti i documenti amministrativi e artistici dei Berliner Philharmoniker, fondati nel 1882 come cooperativa di musicisti indipendente da teatri o istituzioni pubbliche. Con quella distruzione sembrava essere scomparso per sempre il materiale documentario sugli anni a un tempo gloriosi e terribilmente compromettenti del legame fra i Berliner Philharmoniker e lo Stato nazista, un innominabile patto faustiano fra arte e dittatura.
È merito dello storico canadese Misha Aster se le vicende di quegli anni tornano ora alla luce, grazie alle ricerche effettuate a Berlino negli archivi di Stato e in quelli personali dei filarmonici ancora in vita o degli eredi dei professori dell'Orchestra di Furtwängler. Il volume L'Orchestra del Reich - I Berliner Philharmoniker e il Nazionalsocialismo - pubblicato in Germania da Siedler nel 2007 e ora reso disponibile in traduzione italiana (Varese, Zecchini, 2011, pagine 340, euro 25) ricostruisce con dovizia di informazioni un'epoca che per troppi anni sembrava essere stata occultata nel tentativo di cancellare l'imbarazzante legame che l'incendio della Philharmonie e dell'archivio dei Berliner aveva in qualche modo favorito.
Nel suo meticoloso lavoro di ricostruzione, Misha Aster ha potuto contare su alcune circostanze favorevoli. In primo luogo, la volontà dell'Orchestra stessa di far luce su quegli anni che lasciavano una macchia sinistra sulla sua storia, come dimostrano i documenti messi a disposizione dello storico per la prima volta e la ricchezza di testimonianze dirette. Si deve tuttavia tener conto di due altre pre-condizioni che hanno reso possibile la ricerca: la fine dell'era incarnata da Herbert von Karajan, coincidente con la caduta del muro di Berlino nel 1989, e la riunificazione della città. È ben chiaro, infatti, che la presenza di Karajan sul podio dei Berliner dal 1954 rendeva impossibile ogni indagine su un periodo in cui il grande direttore, iscritto per ben due volte al partito nazista (meglio essere sicuri, non si sa mai), aveva costruito la sua fulminante carriera anche grazie a potenti protezioni politiche. Ed è altrettanto evidente che le ricerche della documentazione in una città divisa dalla cortina di ferro sono state improbe fino a quella che i tedeschi chiamano la Wende, la "svolta". Dal libro di Aster è nato anche un toccante film documentario col medesimo titolo, disponibile in dvd nel catalogo Arthaus e diretto da Enrique Sánchez Lansch, la cui produzione è stata voluta dall'Orchestra stessa, in occasione dei centoventicinque anni dalla fondazione.
I panni sporchi hanno cessato di essere occultati e l'Orchestra ha deciso di fare i conti col proprio passato. Aster dimostra come la trasformazione dei Berliner in orchestra di regime sia legata in primo luogo alla grave crisi finanziaria della cooperativa nel 1933. La vita dell'Orchestra, nell'anno in cui Hitler conquistava il potere, pareva esser compromessa da una seria esposizione debitoria, sulla quale intervenne con generosi aiuti il ministero della Propaganda popolare di Goebbels. Si trattava di carità pelosa. Nel giro di due anni, i musicisti avevano ceduto le proprie quote sociali al ministero, che di fatto diventava proprietario dell'orchestra. Goebbels ne fece il proprio fiore all'occhiello, scatenando le invidie di Goering, che a sua volta si era fatto padrino della Staatskapelle, l'orchestra dell'opera di Stato e del giovane astro nascente Karajan, l'anti-Furtwängler.
Dopo un iniziale scontro sull'autonomia di Furtwängler nel disegnare i programmi dell'orchestra, culminato nel 1934 con le dimissioni del direttore e con una immediata fuga in massa del pubblico dai Philharmonische Konzerte, si trovò un compromesso, che consisteva nel lasciare al maestro il primato nella presentazione del grande repertorio germanico, con qualche concessione a quello contemporaneo non incluso nel famigerato elenco della "musica degenerata".
Nel frattempo, i tre musicisti ebrei dell'orchestra, fra i quali anche il celebre violino di spalla Szymon Goldberg, erano stati costretti a emigrare, e tutti i compositori di sangue israelita, fra i quali Mendelssohn e Mahler, venivano cancellati dai programmi dei Philharmoniker. In guisa di un giocattolo personale di Goebbels, la Filarmonica di Berlino fu esibita alle adunate oceaniche di Norimberga, ai concerti per lavoratori Kraft durch Freude, e soprattutto come prezioso e prestigioso strumento di propaganda germanica all'estero.
In cambio, i Berliner Philharmoniker ricevettero un trattamento economico che nessuna orchestra europea poteva vantare e, nel periodo bellico, l'esenzione dagli obblighi militari e persino dal servizio civile. Per volontà di Goebbels, i professori dell'orchestra avevano ottenuto lo status di "indispensabili alla Nazione". Anche nella Berlino ridotta a un cumulo di macerie, mentre tutte le attività di spettacolo venivano abolite, i Berliner continuavano a esibirsi, ospiti prima della Staatsoper e poi dell'Admiralspalast, come ultimo baluardo della cultura tedesca.
Mentre Berlino bruciava e gli adolescenti venivano mandati contro il fuoco russo nella scena finale della Götterdämmerung nazista, i Filarmonici continuavano a suonare, anche dopo che Furtwängler, l'idolo musicale di Hitler, aveva lasciato la Germania. "Un'orchestra è come un popolo: ognuno deve fare il suo meglio per piegarsi alla volontà del collettivo". Queste parole sono messe in bocca all'attore che impersonava Furtwängler nella prima bozza di sceneggiatura del film Die Philharmoniker prodotto da Goebbels per esaltare la potenza del suo prezioso giocattolo di propaganda. In esse si riassume il senso di un capitolo sinistro nella storia della più illustre fra le orchestre europee e del suo grande direttore. Che è poi la tragica storia dell'abbraccio mortale fra il popolo tedesco e le belve naziste
(©L'Osservatore Romano 15 dicembre 2011)
2/ A torto o a ragione Furtwängler rimase, di Emilio Ranzato
Finita la guerra, bisogna lanciare un segnale inequivocabile all'umanità, e punire in modo esemplare chi si è macchiato anche solo marginalmente dei crimini nazisti. Non bisogna dunque farsi intimidire dalla statura degli indiziati. Anzi, più il personaggio è grosso, più è forte il messaggio che la sua caduta veicola al resto del mondo.
Il maggiore dell'esercito statunitense Steve Arnold (Harvey Keitel) è stato istruito a dovere dai suoi superiori mentre le immagini dell'orrore dei lager gli scorrevano davanti agli occhi. Perciò quando si ritroverà al cospetto del grande direttore d'orchestra Wilhelm Furtwängler (Stellan Skarsgård) la sua missione sarà quella di lanciarsi a testa bassa per ottenere l'ammissione di colpa del musicista, che ora si professa nemico del nazismo, ma che fino a pochi mesi prima suonava in onore di Hitler. Per entrambi sarà l'inizio di un viaggio a ritroso verso le tenebre di un'epoca appena conclusa, ma soprattutto fra le pieghe più recondite dell'animo umano.
Il titolo originale del film di István Szabó del 2001 è Taking Sides, come dire: scegliere da che parte stare. E la raffinatezza del testo di Ronald Harwood da cui la pellicola è tratta, adattato fra l'altro per lo schermo dallo stesso autore, consiste proprio nel far credere inizialmente allo spettatore che queste parti da prendere siano rappresentate semplicemente da chi è stato a favore e chi contro il nazismo. Si tratta d'altronde del punto di vista di uno dei due protagonisti, il maggiore Arnold interpretato da Keitel con la determinazione tipica dell'eroe senza macchia e senza paura.
Lungo il film, tuttavia, i valori in campo trascoloreranno gradualmente in qualcos'altro. Ci si rende infatti conto piuttosto presto che nell'ottica strettamente storica e ideologica tutti i personaggi sono in realtà dalla stessa parte: l'antinazismo è un valore tanto per le gerarchie militari statunitensi quanto per i segretari di Arnold, che pure mostrano di avere più ampie vedute del loro capo, quanto per l'illustre indiziato, malgrado le ambigue apparenze dettate dal suo passato.
E l'incaponirsi di Arnold nel voler dimostrare a tutti i costi come questi sia stato un vero nazista, va non a caso di pari passo con lo svelamento della personalità ligia ma in fondo meschina del militare, con i suoi metodi violenti, con la sua rozzezza intellettuale e il suo conseguente complesso d'inferiorità nei confronti del grande artista che ha di fronte.
La soluzione dell'enigma Furtwängler, però, non sta nemmeno nell'idealismo che il direttore d'orchestra esprime a parole, e che lo porta a giustificare la propria scelta di rimanere in Germania con l'amore per la musica e per la nazione. Motivazioni probabilmente anche sentite. Ma se questa è la superficie del suo animo, un raffinato sottotesto fatto di illazioni e mezze ammissioni insinua nel personaggio l'idea dell'ambizione personale di chi sa che deve rendere giustizia al proprio talento, e vuole a tutti i costi sconfiggere la concorrenza delle nuove leve, capitanate da quel von Karajan più volte sventolato da Arnold come uno spauracchio.
Il piano dell'ideologia e della storia si sovrappone dunque a quello personale dell'ambizione, del talento e della carriera, alla dimensione tipicamente asociale e astorica del genio e del fuoco dell'arte. E il risultato di questa sovrapposizione è una zona grigia quasi camusiana, in cui la coscienza dei personaggi subisce uno sfibramento, ma allo stesso tempo sfugge a qualsiasi possibilità di giudizio.
Il tema del film, quindi, diventa fino a che punto l'uomo può e deve essere un animale politico. E quanto il dovere morale, pure di fronte a simili orrori, trovi delle resistenze contro l'insopprimibile bisogno di realizzare se stessi e la propria natura. Un bisogno egoistico ma purtroppo anche molto umano. La regia di Szabó, dal canto suo, non rende del tutto giustizia al testo originale, su cui spesso si accovaccia pigramente, e che qua e là mortifica, per esempio nel rendere i personaggi minori mere figure di contorno cui delegare passaggi utili ma didascalici. Tuttavia le scenografie povere, quasi astratte del grande Ken Adam risultano particolarmente congeniali a questa lotta che si svolge sempre più all'interno dei personaggi, lasciando la Storia con la esse maiuscola sullo sfondo. Declivi su cui Harwood tornerà con lo script de Il pianista (Roman Polanski, 2002) vincendo anche un Oscar.
Ma il film finisce per essere inevitabilmente un po' teatrale anche perché vampirizzato dalla grande interpretazione dei protagonisti. E se Keitel è incisivo mantenendosi tuttavia un po' monolitico, Skarsgård nei panni del maestro lascia filtrare barlumi sospetti attraverso una coltre di rispettabilità, tanto da ricordare a tratti il Claus von Bülow impersonato da Jeremy Irons qualche anno prima. Anche se in extremis alcune immagini di repertorio assolvono comunque il vero Furtwängler dal torto più grande, quello di aver apprezzato il Führer.
(©L'Osservatore Romano 15 dicembre 2011)