Bibbia all’Opera, qui si canta l’Italia, di Alessandro Beltrami
Riprendiamo da Avvenire del 26/11/2011 un articolo scritto da Alessandro Beltrami. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (30/11/2011)
«Oh mia patria sì bella e perduta! / Oh membranza sì cara e fatal!». I petti si gonfiano, sulla pelle un brivido. E magari scende anche qualche lacrima.
Nonostante la disillusione che caratterizza il nostro tempo e i tentativi, tanto antistorici quanto recidivi, di trasformarlo nell’inno di un’improbabile Padania, il verdiano Va, pensiero (sì, così: senza apostrofo, come scrive nel libretto Temistocle Solera) è il vero solo canto che riesce a risvegliare negli italiani un po’ di amor di patria. Accadde nel 1949 a Napoli quando il 22 dicembre al termine del coro del Nabucco il San Carlo esplose nelle grida «Viva l’ Italia! Viva Trieste italiana» (e Va, pensiero fu l’inno degli esuli istriani, fiumani e dalmati dopo il secondo conflitto mondiale).
È accaduto il 13 marzo scorso quando Riccardo Muti all’Opera di Roma come bis lo fece intonare a tutto il teatro (questa volta contro i tagli alla cultura). Ma a riprova che Va, pensiero, per gli italiani è innanzitutto un mito, un’icona sonora, gran parte del pubblico cantò la prima quartina, bofonchiò qualche parola della seconda, esplose sulla «patria perduta» e si spense su quanto seguiva.
Non c’è dubbio che questo coro infiammi i cuori italiani oggi soprattutto grazie alla musica di Verdi. Ma al suo debutto le parole, che oggi suonano un po’ farraginose nell’italiano aulico della poesia per musica, dovettero essere una miccia davvero efficace. È noto che a intonare dal 1842, anno della prima, la «patria perduta» è Israele in esilio.
«Non è un caso» spiega Giuseppe Langella , docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica di Milano: «Il tema biblico dell’esilio e delle terra promessa è ricorrente nella produzione culturale dell’Italia risorgimentale. Avviene anzi una vera e propria identificazione dell’oppressione dell’Italia con quella subita da Israele. Diviene una sorta di archetipo, adottato in tutte le arti».
Ma è proprio la potenza e la diffusione del melodramma ad averne garantito una penetrazione culturale in ogni strato della società. Queste radici bibliche si sono però in parte offuscate. Alla loro riscoperta è dedicato oggi e domani “Sull’ali dorate. Ispirazione biblica nel melodramma italiano del primo Risorgimento”, convegno presso il Conservatorio di Milano organizzato da Biblia, a cui partecipano storici (come lo stesso Langella e Francesca Sofia) musicologi (Philipp Gossett e Claudio Toscani) biblisti (Piero Stefani e Daniele Garrone).
«La materia biblica come paradigma della situazione politica dell’Italia risorgimentale, evidente ad esempio in autori come Manzoni, era propria anche di chi non faceva parte dello schieramento cattolico - prosegue Langella -. Certo per tratteggiare la figura dell’esule vengono presi a prestito anche modelli classici, ma la storia biblica è vincente. Gli artisti romantici, che ambivano a comporre i loro lavori per educare il popolo all’amor di patria e alla libertà, sapevano che la Bibbia era l’immaginario collettivo delle nostre genti cristiane».
Nonostante la forte pressione politica applicata alle sue pagine, la storia biblica non subisce una sorta di processo di secolarizzazione. «In un certo senso, è stata la sua ricezione a caricare Nabucco e in particolare del Va, pensiero di valenze patriottiche - dice Piero Stefani, della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale - C’è in realtà una preoccupazione, anche se romanzata, a rendere esplicito la prerogativa del vero Dio, quello d’Israele, di guidare la storia. La dimensione religiosa è invece molto evidente ad esempio nel Mosè di Rossini, una sorta di oratorio in versione scenica».
Un’attenzione costante quindi al contenuto più autentico della fonte, c’è. Anche se il risultato è un po’ pasticciato, spiega Stefani: «Il fatto è la Bibbia è sempre una fonte indiretta, mediata da altri drammi. Nonostante questo ci sono tentativi di inserire sottotesti biblici. Ad esempio, ogni atto del Nabucco si apre con una citazione di Geremia, dalla versione italiana di Diodati. Solo che due di loro sono sbagliate… Ma c’è Geremia ad esempio nel rimprovero che Zaccaria fa al popolo ebraico proprio dopo il Va, pensiero. Popolo ebraico che, si badi, è sempre considerato come entità uniforme e monolitica, eredità di un pregiudizio antico. E nel Nabucco infatti in esilio in Babilonia ci va tutto il popolo. Mentre nella Bibbia la separazione è solo di una sua parte. Fatto che determina una visione dinamica interna a Israele, del tutto assente nell’opera». Tra i motivi c’è il fatto che all’epoca era conosciuta la storia sacra ma non il testo biblico. «Analizzato in senso stretto, in realtà lo stesso apparentamento tra la “patria perduta” di ebrei e italiani è solo una suggestione». Però davvero efficace.
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