Sud-Sud. Dove non passa lo «straniero», di Lorenzo Fazzini
Riprendiamo da Avvenire del 13/11/2011 un articolo scritto da Lorenzo Fazzini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sotto-sezioni La libertà religiosa e le persecuzioni delle minoranze e Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura, nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (13/11/2011)
Donne, bambini, anziani, persone fuggite in cerca di un domani migliore: quasi 1400 cittadini del Ciad - insieme a immigrati di altre nazionalità - sono stati rimpatriati a forza, tramite voli aerei, dalla Libia post-Gheddafi nella loro patria.
Alcune settimane fa, tramite 10 voli aerei, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) ha assistito 1398 cittadini del Ciad a lasciare, costretti, diverse località libiche - Tripoli, Misurata, Bengasi - verso il centro di transito di Sebha e quindi la capitale del loro Paese, Njadema.
I migranti dal Ciad non sono i primi a subire una sorte simile: l’Iom ha reso noto che la guerra libica ha causato una migrazione di ritorno verso l’Africa sub-sahariana di una certa entità. Lo dimostra il dato - 200 mila - di quanti sono stati forzati a ritornare nelle loro nazioni dopo l’inizio del conflitto civile nel Paese nordafricano.
Se la globalizzazione ha raggiunto ogni latitudine, con i suoi benefici e svantaggi, anche su questo il Nord del mondo ha contagiato il Sud: l’immigrazione irregolare spaventa governi e politici di ogni latitudini, al punto che le espulsioni di massa non interessano solo maghrebini in Italia o sans papier in Francia, ma anche di viaggiatori in cerca del meglio in Sudafrica, Bangladesh, Malaysia e altrove.
Nel Continente nero, singolare (e preoccupante) è quanto accade in Sudafrica, uno degli Stati del Sud del mondo dove con più forza si riscontrano diffidenza, ostracismo e ostilità verso gli stranieri. Non si hanno neppure cifre precise sulla presenza di immigrati dall’estero nella terra di Nelson Mandela. Lo ha ammesso, a denti stretti, lo stesso ministro degli Interni, Nkosozana Dlamini-Zuma: «Non sappiamo quanti siano i migranti nel nostro Paese».
I dati ufficiali più aggiornati risalgono al lontano 1996 quando si riteneva che in Sudafrica ci fossero tra i 2,5 milioni e i 4,1 milioni di stranieri “senza documenti”. Ma tale numero deve essere aumentato di molto se è vero che solo dal 2000 ad oggi circa 3 milioni di cittadini dello Zimbabwe sono fuggiti dallo Stato del padre-padrone Mugabe. E i dati forniti dalla polizia di Pretoria parlano di un numero che oscilla tra i 3 e i 6 milioni di immigrati clandestini, pari all’11% della popolazione. Di fronte a questa realtà il governo di Pretoria ha messo in atto una misura draconiana: dal 31 dicembre scorso i zimbabwani senza passaporto vengono espulsi immediatamente. Lo stesso ministro degli Interni Dlamini-Zuma aveva preannunciato così la misura: «Nel 2008 abbiamo avuto 110 mila richieste di asilo, solo 10 mila sono state concesse, ad altri è stato affidato lo status di rifugiato. Il resto dovrebbe andarsene, o con respingimenti coatti o volontariamente».
L’avversione ai “forestieri” contagia anche altre nazioni africane. Nell’ottobre 2009 l’esecutivo del Botswana aveva deciso di annullare il permesso concesso ai leader religiosi di poter evitare alcune restrizioni in tema di immigrazione: un escamotage con cui molti profughi dello Zimbabwe sono riusciti a sfuggire dal feudo di Mugabe. Ora invece una nuova norma sancita dal ministero dell’Interno e del Lavoro del Botswana esige che dopo i primi 90 giorni di soggiorno uno straniero, anche un leader spirituale, debba produrre un passaporto valido, altrimenti può essere cacciato. «Da queste nuove regole ne consegue che centinaia di stranieri, in particolare da Zimbabwe e Nigeria, potrebbero essere deportati nei loro Paesi di origine» hanno denunciato le organizzazioni umanitarie.
Anche in Asia il dramma delle espulsioni di migranti irregolari punteggia l’atlante geografico. Quanti lasciano la Birmania - Paese socialista a guida militare - ne sono un esempio: i tanti birmani che scappano dal loro Paese, guidato con pugno di ferro da una giunta militare socialista, hanno vita difficile e rischiano deportazioni nella loro terra di origine quando riparano nei Paesi limitrofi. Lo comprovano i circa 500 mila birmani illegali in Malaysia, per lo più impegnati nel settore edilizio e nell’agricoltura, che rappresentano un numero molto maggiore dei 92 mila connazionali ufficialmente registrati come lavoratori nel Paese islamico. Diversi enti umanitari denunciano come tale situazione di illegalità esponga i migranti del Myanmar ad arresti, imprigionamenti ed espatri forzati da parte della polizia malaysiana.
Qualche tempo fa aveva fatto scalpore il caso di un orfanotrofio di piccoli rifugiati birmani sul confine Thailandia-Myanmar. Nel novembre del 2009 - secondo quanto riferito dall’ong “International Christian Concern” - la polizia di frontiera thailandese ha effettuato un’incursione nella struttura Shekinah (letteralmente “Gloria a Dio”) che accoglie orfani birmani nella provincia frontaliera di Mae Hong. Gli agenti hanno segnato il nome di tutti i residenti e hanno preavvertito gli stessi presenti di prepararsi ad essere rimpatriati in modo coatto in Myanmar.
Tragica, nel suo paradosso, la sorte dei rohingya, una minoranza etnica dell’ex Birmania di religione musulmana. Installati per lo più nello stato nordoccidentale del Rakhine, cercano nei vicini Paesi a maggioranza islamica - Bangladesh, Malaysia, Indonesia - una via di sopravvivenza dalla dura persecuzione dei generali di Yangoon. Ebbene, è dell’anno scorso la denuncia (rilanciata da AsiaNews) di un “ong” americana - Physicians for Human Rights - secondo la quale tra i 200 e i 300 mila rohingya residenti in Bangladesh subiscono «arresti arbitrari, espulsioni illegali e internamenti forzati» dalle autorità di Dacca. Qualche tempo fa anche la Thailandia si è accanito su alcuni rappresentanti di questa minoranza: nel dicembre 2008 412 profughi rohingya vennero abbandonati dalla polizia di Bangkok in acque internazionali a nord delle isole Surin mentre stavano fuggendo in Thailandia su battelli di fortuna.
In America latina, purtroppo, la situazione non è diversa e la guerra di “espulsioni tra poveri” imperversa anche a queste latitudini. Qualche tempo fa sulla rivista “Envìo”, edita dai gesuiti dell’America centrale, il ricercatore nicaraguense José Luis Rocha segnalava la pesante condizione dei diritti umani dei migranti senza documenti in diversi Stati del Centro america: «A San Carlos (in Nicaragua, ndr) abbiamo incontrati nicaraguensi espulsi dal Costarica, e a Guasaule ci siamo imbattuti in nostri connazionali cacciati indietro dal Messico. A Managua abbiamo parlato con asiatici, africani e latinoamericani detenuti come migranti “illegali” nel nostro Paese. Nel solo 2008 nei 32 centri per l’immigrazione sono stati espulsi dal Messico 55.561 immigrati centroamericani illegali».
Pure in Medio oriente per i migranti “esterni” la vita è tutt’altro che facile. Sul confine tra Egitto e Israele la sorte di questi “ultimi” risulta decisamente a rischio, anche all’indomani della “primavera araba”. Tanto che l’ente umanitario “The Sons of Darfur” ha stigmatizzato il ripetersi di uccisioni, perpetrate dall’esercito del Cairo, di immigrati che cercavano di superare il confine egizo-israeliano.
Durante il solo 2011 sono stati almeno 32 i fuggiaschi stranieri (per lo più africani) uccisi lungo la linea di demarcazione egizo-israeliana dalle forze di polizia de Il Cairo: ai primi dello scorso settembre è stata la volta di un esule sudanese che cercava di raggiungere la “terra promessa”. «Ma ritengo che si possa dire con certezza che vi siano centinaia di morti “sconosciute” sul confine» ha affermato Sigal Rose, coordinatore di “Moked”, un’“ong” a servizio dei rifugiati in Israele.
Nepal e Buthan. Espulsi e perseguitati cinquantamila indù
Anche sul tetto del mondo si “litiga” su profughi e immigrati altrui. È il caso della querelle che da anni sta interessando Nepal e Bhutan, due Stati asiatici limitrofi (sebbene separati da una lingua di territorio indiano) dove rimane calda la situazione di 50 mila rifugiati bhutanesi di origine nepali - l’etnia nepalese, di religione indù - espulsi dal Bhutan tra il 1977 e il 1991 all’interno di una politica di “nazionalizzazione” di quest’ultimo, piccolo Stato d’Asia dichiaratamente buddista. Da quell’anno, i nepali del Buthan che hanno tentato di ritornare nella loro terra di origine sono stati arrestati, imprigionati o confinati in campi profughi. Ad oggi circa la metà degli originari 108 mila profughi nepali sono stati ricollocati dall’agenzia Onu per i rifugiati in un altro Paese, per lo più (43 mila) negli Stati Uniti, ma anche in Australia e in Canada. La questione è ritornata di attualità qualche tempo fa, durante una visita del premier bhutanese Lyonchhen Jigmi Y Thinley a Kathamandu. Ma al momento non si vedono sbocchi per una soluzione. Come ha segnalato “AsiaNews”, nonostante l’apertura democratica avvenuta nel 2006, «il Bhutan ha abbandonato per ben 15 volte il tavolo dei negoziati con il Nepal» sulla questione dei 50 mila profughi, «denunciando la presenza di terroristi fra i rifugiati e rimandando al mittente appelli e lettere aperte di attivisti e associazioni per i diritti umani». Sulla vicenda non mancano speculazioni e l’azione di loschi trafficanti di esseri umani: nei mesi scorsi le autorità bhutanesi hanno arrestato una donna nepalese nella località di Damak perché prometteva ad alcuni rifugiati di farli passare in un Paese occidentale grazie alla semplice qualifica di “profugo bhutanese”. (L.Fazz.)
Congo e Angola. Deportazioni con uccisioni sommarie e stupri
Di mezzo ci sono diamanti e giacimenti di materie prime preziose. Ma tra Congo e Angola la guerra è di espulsioni umane. Sono ben 111 mila gli angolani che vivono nella Repubblica democratica del Congo, per lo più grazie allo status di rifugiati politici, essendo fuggiti dalla guerra civile che ha insanguinato Luanda e dintorni all’indomani dell’indipendenza dell’ex colonia portoghese nel 1975. Da parte sua il governo angolano non ha usato mezzi termini per deportare migliaia di migranti congolesi infiltratisi nel suo territorio, soprattutto come commercianti illegali di diamanti. Dal 2003 si sono susseguite 6 ondate di espulsioni forzate che hanno ricondotto in Congo ben 140 mila immigrati irregolari penetrati nello Stato sudoccidentale dell’Africa. L’ultima è quella definita dalle organizzazioni umanitarie come “molto violenta”, con uccisioni sommarie, stupri e violenze, avvenuta nell’ottobre dello scorso anno, come riporta l’agenzia Irin: oltre 150 congolesi sono stati deportati dall’area di Tempo, nel sudovest dell’Angola, e altri 40 dalla zona di Kasongo-Lunda, sempre nella provincia di Bandundu. Ma il caso più emblematico di questa “guerra fredda di espulsioni” si è verificato nell’autunno del 2008: 42 mila rifugiati angolani sono stati espulsi dalla Repubblica democratica del Congo, «sebbene alcuni di loro avessero in mano i documenti del loro status di rifugiati» ha denunciato l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. Ma anche dall’altra parte del confine non si è rimasti a guardare: nel 2009 una sorte simile è toccata a 18 mila congolesi che il governo di Luanda ha rimandato in patria in condizioni terribili: «Siamo stati attaccati, alcuni di noi feriti, altri uccisi con i machete e pistole da parte di soldati, polizia, funzionari del settore immigrazione che ci hanno spogliato di tutto» ha detto a Radio Okapi il rifugiato congolese Jean-Pierre Larandja.( L.Fazz.)