La catechesi del Buon pastore: provocazioni per l'iniziazione cristiana. File audio di una relazione di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /11 /2011 - 00:00 am | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio le registrazioni ed i testi commentati nell'incontro tenuto da Andrea Lonardo sulla Catechesi del Buon pastore nell’esperienza di Sofia Cavalletti presso la parrocchia di Santa Maria della Salute in Roma, il 25 ottobre 2011. Nella prima parte dell'incontro non registrata erano stati presentati alcuni dati sulla vita della Cavalletti. Sulla catechesi del Buon pastore vedi su questo stesso sito In memoria di Sofia Cavalletti: una vita per l'infanzia. Fondò la Catechesi del Buon pastore, di Andrea Lonardo e gli ulteriori testi lì segnalati.

Il Centro culturale Gli scritti (9/11/2011)

 

Ascolto audio

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Riproducendo "bpastore01".



Download: Buon Pastore

TESTO DISTRIBUITO AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO

Andrea Lonardo (www.gliscritti.it www.ucroma.it )

 

Provocazioni per l’iniziazione cristiana a partire dalla catechesi del Buon pastore

1/ La dimensione religiosa del bambino (la famiglia non è tutto!)

D.: Dal nostro catechismo parrocchiale i bambini scappano annoiati. La prima risposta che ci si dà è che la fede, la religione si possono capire solo maturando, ma per i bambini sono ancora un elemento esterno.
R.: Io non limiterei il fatto religioso al risultato di sollecitazioni culturali. Una componente culturale è certamente presente, ma c'è anche - e forse soprattutto - un livello ben più profondo. È un campo in fondo ancora tanto controverso questo: alcuni negano addirittura che il bambino sia capace di un rapporto con Dio, concentrano tutto sul fatto razionale; quindi prima dei sei anni il bambino non ha un pensiero razionale compiuto, è incapace di rapporto con Dio... Però questo contrasta anche col fatto che battezziamo il bambino fin dalla nascita: allora dovremmo aspettare l'età della ragione! Invece, quello che in genere concedono gli studiosi più "generosi" in questo campo, è un certo "innatismo religioso" nel bambino. A me non soddisfa neanche questo, dirò la verità: mi piace di più parlare di connaturalità del bambino con Dio. Non ho una sufficiente preparazione filosofica per chiarire bene la differenza fra innatismo e connaturalità, comunque l'innatismo mi fa pensare a qualche cosa di un po' passivo, che c'è nel bambino, ma sta lì e dorme; la connaturalità mi piace soprattutto per questa particella con, che esprime il rapporto. Parlo di connaturalità, non parlo sul piano teorico, ma in base a quello che ho visto: ho visto come bambini di questa età possano godere in modo vitale, profondo, globale di un rapporto con Dio; questo mi fa pensare a persone che abbiano trovato corrispondenza essenziale, cercata, che appaga esigenze profonde; che abbiano trovato l'ambiente, la persona che cercavano.

Significa che i bambini "sentono" o "capiscono" Dio?
Ogni persona umana cerca la relazione, ma sembrerebbe che nella persona di Dio il bambino trovi una connaturalità, una rispondenza; tante volte ho avuto l'impressione, entrando nella stanza dove i bambini lavorano, di "pesci nell'acqua", come di chi ha trovato l'ambiente vitale che lo può appagare, nell'intimo più profondo. E allora vengono fuori questi fenomeni di concentrazione profonda, di gioia particolarissima e di godimento che quasi si palpa nell'aria, come di chi ha trovato l'ambiente vitale e dice: "Come sto bene qui". Il desiderio di starci, di restarci, di non andar via, di continuare nell'esperienza sono fenomeni che ormai abbiamo visto in tanti bambini in tante parti del mondo, in tanti livelli sociali e culturali diversi: si può affermare dunque che questo, in base a ciò che abbiamo visto, è la risposta del bambino all'esperienza religiosa. Che significa? Significa che c'è questa attrazione particolare: Adele Costa Gnocchi, stretta collaboratrice di Maria Montessori, diceva che Dio e il bambino "se la intendono". Mi sembra un'espressione tanto buona, tanto adeguata. C'è come un filo diretto; lo possiamo chiamare connaturalità o come vi pare, ma un filo diretto c'è tra Dio e il bambino. Si trovano bene, uno attira l'altro, stanno bene insieme.

Quale influenza ha l'ambiente?
Certamente ad un certo momento l'ambiente ha una sua influenza, tanto è vero che, per quello che io posso dire, chi è veramente forte nel difendere questa connaturalità con Dio è il bambino piccolo; man mano invece che il bambino apre nel crescere all'influsso della società più ampia, allora questo rapporto è meno forte. Direi che è abbastanza chiaro: l'ambiente ha una sua valenza, qualche volta negativa e qualche volta positiva. Non è negativa soltanto negli ambienti non religiosi, qualche volta pure quelli religiosi comprimono certe potenzialità per troppa "super-nutrizione" scorretta in una direzione sbagliata. Non posso dire che i bambini di famiglie particolarmente praticanti siano i più sensibili.

Normalmente si parte dall'importanza della famiglia: buon esempio di amore paterno e materno. Il bambino può capire l'amore di Dio.
A me pare che fare dell'amore dei genitori o comunque di chi è più vicino al bambino il canale necessario dell'amore di Dio è estremamente limitante; si limita l'amore di Dio alla dimensione umana, lo si considera secondario rispetto alle condizioni in cui il bambino vive. Ma a me sembra - parlando sempre in base a quello che ho potuto osservare - che l'amore di Dio sia primario nell'esperienza umana del bambino piccolo. Certo è bello poter dire ad un bambino: "Papà e mamma ti vogliono bene"; però si tratta sempre di un amore umano e quindi limitato. E quando questo non succede? Un bambino rifiutato dai genitori è forse una creatura perduta per Dio?
No, Dio prende le sue creature anche al di fuori dell'amore umano: l'ho visto in tanti bambini non accettati in famiglia che invece all'annuncio del Pastore che "li chiama per nome" si aprivano ad un immenso godimento (1).
Dunque bisogna distinguere fra esperienza ed esigenza: l'esperienza è qualche cosa che si è vissuto, può essere una cosa che ha dato un approccio positivo alla vita o negativo, comunque è dipendente dall'esperienza: deve succedere un fatto perché io abbia l'esperienza. L'esigenza, a mio avviso, è ciò che sta più profondamente nella persona umana e che non dipende da questa o da quella esperienza: è una potenzialità che chiede di essere appagata. Questa è l'esigenza, che quindi prescinde dall'esperienza.
Con l'esperienza siamo al livello di fatti, potrei dire di storia, qualcosa quindi che cambia da persona a persona; con l'esigenza stiamo alle radici stesse della vita. In ogni essere umano c'è l'esigenza di relazione, cioè di trovare qualcuno che mi cerca - per parlare con le parole della parabola del buon Pastore: che mi "chiama per nome" - e a cui posso rispondere. L'esigenza è come una fame che cerca il cibo necessario, una fame che può fare l'esperienza di trovare il suo appagamento, ma può anche non trovarlo, e resta viva anche non trovandolo.
Il fatto religioso si pone al livello di esigenza vitale e quindi a un livello più profondo dell'esperienza. La catechesi, molto diffusa oggi, che vuole partire dall'esperienza, si situa a un livello abbastanza superficiale.

«Nell’aiutare la vita religiosa del bambino, lungi dall’imporgli qualcosa che gli è estraneo, rispondiamo a una sua silenziosa richiesta».

Perché il bambino – afferma – è un “metafisico”, come provano le sue domande: «Chi è Dio? Dove stavo prima di nascere? Con chi stava Dio prima della creazione? Dove sta la nonna che è morta? A te piace la vita?».

2/ Una catechesi che lavora intorno all’essenziale, che parte da esso e vi torna sempre

Come si può semplificare senza diventare banali?
C'è una grossa differenza tra semplicità e semplificazione. La semplificazione è un'operazione di riduzione, di rimpicciolimento; la semplicità è un modo di essere, e le cose grandi sono semplici. Dio è semplice, il mistero della Trinità sarebbe semplice se noi non lo complicassimo; ai bambini certamente vanno date le cose semplici, ma le cose semplici corrispondono alle cose essenziali, quindi alle cose grandi. Devono essere date in un certo modo, corrispondente all'essenzialità del soggetto stesso e di chi lo riceve. Ma la semplificazione no. Quel bamboleggiare col bambino: l'angioletto, il bambinello...
Racconto sempre l'episodio di quel bambino che, informato dell'esistenza dell'angelo custode ha risposto che non sapeva che fare dell'angelo; aveva già il Buon Pastore. Chi ha scelto fra i due? Il Buon Pastore! Il bambino va a cercare le cose grandi.

Dunque né complicazione, né semplificazione: la parola giusta qual è?
Essenzialità. La grande disciplina che impone la catechesi dei piccoli è proprio questa: la fedeltà all'essenziale. Nella scelta dei temi e nel modo di presentarli. Si vede chiaramente soprattutto in un bambino piccolo: se si abborda una cosa secondaria, ti accorgi subito che non ti segue. Oppure se dici troppe parole: sei finito. Bisogna annunziare il Kerygma nella sua essenza.
Questa è stata l'esperienza più grande per noi, perché ci ha obbligato ad un'essenzialità che non è facile, perché sono spietati, i bambini: appena "scantoni" un po', ti abbandonano, ma in modo chiaro. Il più grande ormai è abituato alla scuola, per cui porta pazienza; il bambino di due anni se ne va, fisicamente: prende la sedia e se ne va. È una scuola dura proprio per gli adulti-catechisti, però è bellissima.

Mi sembra una visione un po’ diversa del modo usuale di fare catechesi...
L'adulto deve trasmettere quello che ha ricevuto, evidentemente, però tenendo presente innanzi tutto che non è un insegnamento scolastico, che il bambino non è un sacco vuoto da riempire. L'annuncio dev'essere dato nel modo più "disinteressato" possibile: io te lo do, e poi lo amministri tu; una volta che ho fatto la mia parte, basta. Per questo è così importante per il nostro lavoro il materiale (2) che serve a lasciare il bambino indipendente dall'adulto nell'ascolto di quanto ha ricevuto. Altrimenti l'adulto interferisce sempre con una presenza che può disturbare e invece di aiutare la comunicazione, può impedirla. L'importante è quel secondo momento in cui il bambino sta da solo, ripensa a Gesù buon pastore, cosa fa, come conosce le pecorelle...
Il nostro materiale non è didattico, cioè un aiuto all'insegnante per rendere il suo insegnamento più attraente; è un materiale di carattere montessoriano, cioè un aiuto alla meditazione del bambino, permette al bambino di continuare a considerare quanto è stato presentato, indipendentemente dalla presenza dell'adulto
. L'adulto ha la funzione di indicare alcuni punti, però poi deve essere abbastanza bravo da ritirarsi e lasciare il posto all'intima conversazione con il Maestro interiore. Siamo in genere troppo interventisti. Mi scriveva adesso una allieva croata catechista: una bambina di tre anni aveva fatto un disegno, poi ne aveva cominciato a fare un altro e lei, per zelo, le si è avvicinata e le ha chiesto: "Adesso che stai facendo?". E lei ha risposto: "Scostati! Scostati! Vai via!". Solo a disegno finito gliel'ha fatto vedere. Evidentemente era un intervento assolutamente indebito: il momento del lavoro personale è il momento costruttivo: è l'ascolto del Maestro interiore. Non siamo noi che insegniamo. e questo per gli adulti è difficile.

Come è diverso questo dalla mentalità corrente, quando si pensa che per interiorizzare la fede basti spiegare delle cose, basti dire: "Ne abbiamo parlato"...
Questa è la mentalità scolastica, ma la catechesi è qualcosa di molto più profondo e più ampio. Anche certe prediche che si sentono: danno spiegazioni e chiudono l'argomento. Ma non è questa la catechesi, che deve essere rivolta all'apertura al mistero. Come dice Stefano Levi della Torre: è il mistero a dar respiro alla conoscenza, a farla lievitare nelle più mirabili costruzioni della cultura. Il mistero, cioè, fa lievitare la conoscenza; se invece delimitiamo, spieghiamo, definiamo tutto, cominciando dalle parabole, che sono le ultime cose che andrebbero spiegate, il mistero non c'è più. Non è più attraente: se mi fai vedere i limiti, non mi interessa più.

Sta dicendo che nel nostro catechismo noi spieghiamo troppo?
Sì, non si esce dalla mentalità scolastica: insegnamento, apprendimento, verifica. E così ho limitato tutto. Ma il limitato non è attraente, è l'immenso; il mistero che attrae. Se vedo il limite, e ne urto il confine, ad un certo momento mi vengono i lividi. Invece, che ricchezza, che saggezza che ha il metodo delle parabole:
"Vuoi sapere com'è il ‘Regno dei cieli’? Guarda un po' un semino piccolo, piccolo...
Pensaci, guardalo, continua a guardarlo, vedrai che poi..."

Non c'è nessuna pretesa di esaurire l'argomento, si apre invece una possibilità di indagine: è un atteggiamento. Credo che le parabole siano uno strumento di educazione alla fede molto grande, perché aprono a quello che non si vede. Vedi un semino e dici: Il Regno di Dio quello? Eppure così è. La piccola Cristina, cinque anni, stava impastando la pasta con il lievito (in relazione alla parabola del Regno come lievito che fermenta tutta la pasta) e le hanno chiesto: "Cosa stai facendo?". Lei ha risposto: "Guardo come cresce il Regno di Dio!". Questo è vedere l'invisibile: a loro non fa nessuna difficoltà.


3/ Il fenomeno “gioia”

Noi riteniamo che il fenomeno ‘gioia’ nell’esperienza religiosa indichi l’appagamento di una esigenza vitale profonda, che resta presente anche in ambienti negativi da questo punto di vista. Noi riteniamo che essa indichi tra il bambino e Dio l’esistenza di una connaturalità, che emerge attraverso un annuncio di carattere religioso, o in base a elementi imponderabili, come un ‘incontro’ tipo quello che abbiamo riportato sopra.

L’amore è per il bimbo più necessario del cibo; è stato scientificamente provato. Nel contatto con Dio egli sperimenta un indefettibile amore. E nel contatto con Dio egli trova il nutrimento che il suo essere richiede e di cui ha bisogno, per svilupparsi nell’armonia. Dio – che è amore – il bimbo, che chiede l’amore più del latte materno, s’incontrano quindi in una particolare corrispondenza di natura; e il bimbo, nell’incontro con Dio, gode per la soddisfazione di un’esigenza profonda della sua persona, di una autentica esigenza di vita.
Nell’aiutare la vita religiosa del bambino, lungi dall’imporgli qualcosa che gli è estraneo, rispondiamo a una sua silenziosa richiesta: “Aiutami ad avvicinarmi a Dio da me”.

La gioia, indice della vera crescita (da p. 22)
La gioia – dice la Montessori – è l’indice della crescenza interiore come l’aumento di peso è l’indice della crescenza del corpo.

da Maria Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano, 1987, p. 324
Religiosi e liberi nelle loro operazioni intellettuali e nel lavoro che il nostro metodo offre, i piccoli si mostrano spiriti forti, robusti eccezionalmente; come sono robusti i corpicciuoli di fanciulli ben nutriti e puliti. Crescendo in tal guisa non hanno né timidezza, né paura. Danno prova di piacevole disinvoltura, coraggio, conoscenza serena delle cose, fede soprattutto in Dio autore e conservatore della vita.
I bambini sono così capaci di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali, che la loro intuizione ci ha fatto pensare ad un periodo sensitivo religioso: la prima età sembra congiunta con Dio come lo sviluppo del corpo è strettamente dipendente dalle leggi naturali che lo stanno trasformando. Io ricordo una bambina di due anni, che, messa davanti ad una statuina del Bambino Gesù, disse: «Questa non è una bambola».

da Maria Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano, 2008, I edizione del 1909, nuova edizione del 1950, pp. 152-153
Anche il problema dell’educazione religiosa, la cui importanza ancora non sentiamo pienamente, dovrà essere risolto dalla pedagogia positiva. Se le religioni nacquero insieme alle civiltà, esse ebbero probabilmente radice nell’umana natura. Noi abbiamo assistito allo spettacolo edificante di un istintivo amore alla sapienza dei fanciulli, che avevamo giudicati [per] un pregiudizio dediti ai divertimenti [e] ai giochi vuoti di pensiero. Il fanciullo che disprezza il gioco dinanzi al sapere si è rivelato il vero figlio di quell’umanità che fu attraverso i secoli creatrice della scienza e del progresso civile. Noi avevamo deturpato il figlio dell’uomo relegandolo invece a giocattolo degradante, nell’ozio e nel soffocamento di una disciplina male intesa.
Ora il fanciullo dovrà […], nella sua libertà, rivelarci se l’uomo è veramente in natura la creatura religiosa. Negando a priori il sentimento religioso nell’uomo, e privando l’umanità dell’educazione di questo sentimento, potremmo incorrere in un errore pedagogico, simile a quello che ci faceva a priori negare nel fanciullo l’amore alla conoscenza e al sapere: e che ci spingeva a domarlo nella schiavitù, per renderlo apparentemente disciplinato. Anche affermando che solo l’età adulta è adatta all’educazione religiosa, potremmo incorrere in un profondo errore, quale è quello che ci fa oggi dimenticare l’educazione dei sensi nell’età in cui essi sono educabili, cioè nel bambino; mentre la vita dell’adulto è poi praticamente un’applicazione dei sensi della raccolta di sensazioni nell’ambiente, dal che risulta il fallimento della vita pratica e uno squilibrio che disperde tante forze individuali.
Non per fare un paragone tra l’educazione dei sensi come guida alla vita pratica e l’educazione religiosa come guida alla vita morale, ma, solo per servirmi a scopo illustrativo di un’analogia, noto come spesso nella vita morale si osservano dei fallimenti nei non religiosi e molte forze individuali, che pur riconosciamo preziose, [si disperdono] miseramente. Quanti uomini hanno fatto l’esperienza di ciò! E allorché alcuni hanno la tardiva rivelazione della propria coscienza religiosa nell’età adulta o sotto la squassante esperienza del dolore, la mente è inabile a stabilirsi un equilibrio, perché fu troppo stabilmente formata in un campo privo di spiritualità. Allora vediamo spettacoli egualmente pietosi o di conversioni a un fanatismo di religiosità formale e inferiore o di lotte intime drammatiche tra il sentimento che cerca tra le tempeste l’unico suo porto e la mente che riconduce inesorabilmente la coscienza tra i flutti travolgenti dell’alto mare senza pace. Fenomeni psicologici di altissima importanza; e problemi umani la cui gravità è forse tra tutti gli altri suprema.
Noi siamo ancora in Europa e specialmente, tra le più civili nazioni, in Italia, pieni di pregiudizi e di preconcetti su tale argomento – veri schiavi del pensiero. Noi crediamo che la libertà di coscienza e di pensiero consista nel negare alcuni principi di sentimento – come per esempio quelli religiosi -, mentre la libertà non esiste mai là ove si combatte per soffocare qualche cosa, ma solo dove si lascia l’espansione illimitata alla vita. Chi veramente non crede, non teme ciò che non crede e non combatte ciò che non esiste: e se crede e combatte, allora diviene soldato contro la libertà.

da Fabio Narcisi, Comunicare la fede ai bambini. Pastorale battesimale ed educazione religiosa in famiglia, Edizioni Paoline, Milano, 2009, p. 140 che rimanda a Maria Montessori, L’autoeducazione, Garzanti, Milano, 2007, p. 310
Maria Montessori rimaneva [...] colpita dall’esistenza di un sentimento religioso in bambini che non avevano ricevuto alcuna formazione in questo campo, o che addirittura provenivano da famiglie atee. È il caso di un suo allievo di 7 anni cui un amico di famiglia, vedendolo particolarmente sveglio, provò a descrivere l’evoluzione secondo i principi di Darwin. Il bambino seguì con attenzione il discorso e poi domandò: Ebbene, l’uomo viene dalla scimmia e questa da un altro animale e così via: ma il primo da chi viene? La risposta che ricevette fu: Il primo si è formato a caso. Allora il bambino scoppiò in una gran risata e disse concitato: Ma senti che grande sciocchezza: la vita si forma per caso! Questo è impossibile. Alla madre che gli domandò come allora si forma la vita, il bambino rispose con convinzione: È Dio.

4/ Un esempio: la storia della salvezza

Il messaggio biblico dicevamo – è particolarmente legato al tempo, e al tempo nella concretezza degli eventi della storia. È proprio il senso storico che distingue Israele dagli altri popoli dell’antichità. Per senso storico intendiamo la percezione del concatenamento degli eventi, e quindi di un pensiero che soggiace ad essi; il senso storico è «una forma speciale del pensiero causale, applicato a una successione di eventi politici di una certa estensione»[4]. In Israele non troviamo una filosofia della storia, ma «una intelligenza della storia»[5], cioè una penetrazione sapienziale in essa, una capacità di scrutarne i dati in profondità, per scoprirvi un livello che va oltre i dati. Il profeta, che è l’esponente della spiritualità ebraica, è interprete della storia[6].

E la storia della salvezza opera questa unificazione della storia proprio a partire dalla rivelazione del Dio unico[7]:

La storia biblica conserva la necessaria globalità perché in essa gli avvenimenti sono legati insieme dalla costante presenza del Dio unico; è il Dio uno che fa «una» la storia. Le generazioni si susseguono; ma oltre la moltitudine di personaggi maggiori e minori che popolano in folla la scena d’Israele, c’è in essa sempre la presenza costante del Signore della storia. Egli è già presente all’origine di essa e anche prima, perché è l’artefice della creazione, e l’accompagna nel suo fortunoso svolgersi, proiettando la sua presenza alla conclusione di essa.

La Cavalletti sottolinea come la “storia della salvezza” acquisisce significato ancor più oggi quando taluni vorrebbero misconoscere le cosiddette “grandi narrazioni” per ritenere plausibili solo micro-narrazioni di frammenti di vita personale. La catechesi è chiamata a custodire tutta l’ampiezza della prospettiva biblica[8]:

Il messaggio biblico è un messaggio di speranza. Non si tratta di un progressismo consolatorio, né di un ottimismo preconcetto, che il pensiero post-moderno rifiuta. Lyotard si domanda se oggi sia più possibile «organizzare la folla degli avvenimenti che ci vengono dal mondo, umano e non umano, mettendoli sotto l’Idea di una storia universale dell’umanità»[9]. Vattimo lo nega; per lui «il rendersi conto dell’universalità della storia ha reso impossibile la storia universale»[10]. Perché noi lo affermiamo? Il messaggio biblico si basa su una sapienza, che è così grande da essere considerata rivelata, e su un avvenimento: la risurrezione di Cristo. In lui la vittoria sul male e sulla morte è già una realtà del nostro mondo; ma è limitata alla sua persona. Il progetto di Dio riguarda l’universo. Noi viviamo nel tempo dell’attesa e della speranza.

La catechesi del Buon pastore, ideata dalla Cavalletti, non si sofferma così innanzitutto sui singoli episodi della storia biblica, ma prima ancora sulla sua vastità e sulla sua unità[11]:

La Bibbia [...] ci permette di parlare dei singoli eventi senza che questi perdano di tensione, a condizione di non perdere d’occhio, nelle singole narrazioni, la globalità della storia in cui esse si realizzano. A nostro avviso la narrazione delle singole bellissime storie bibliche va fatta in riferimento costante al tempo colto nella sua globalità come pure nelle scansioni fondamentali di passato, presente e futuro. È su questa base globale che potranno poi porsi tutte le successive considerazioni sui vari aspetti della storia e sui singoli eventi.
La prima considerazione verterà dunque sulla vastità della storia biblica, vastità che va insieme al suo carattere unitario.
Il racconto iniziale si appoggia su un materiale che tende a colpire l’immaginazione, guidando alla presa di coscienza della lunghezza della storia[12]: una striscia, lunga oltre 50 metri, viene svolta insieme ai bambini, dicendo che in essa ogni filo rappresenta oltre mille anni. Un filo non è nemmeno un millimetro; quanti fili ci saranno in tutta la storia? Quanti milioni di anni passano fra le nostre mani, mentre svolgiamo la striscia? Il racconto che accompagna questa presentazione parte dalla creazione e dal lunghissimo tempo in cui essa viene realizzata, prima che nel mondo ci sia la presenza della creatura umana. Quando questa appare trova il suo ambiente vitale già pronto; c’è nel mondo tutto quello che può essergli necessario per viverci. Queste sono constatazioni che emergono dall’osservazione stessa della realtà. Da esse può sorgere spontanea la domanda: chi può aver preparato tutto questo per me?
La Bibbia fornisce la risposta a questo interrogativo: è Dio che ha creato il mondo, l’uomo e la donna. La Bibbia dà il nome all’artefice della realtà che ci circonda. Tutto è stato fatto per la creatura umana e per questo essa arriva ultima nell’opera della creazione, come l’invitato al banchetto arriva quando la mensa è stata posta e imbandita.
Dall’inizio Dio accompagna l’umanità, che, una generazione dopo l’altra, viene a popolare la storia nel suo svolgersi per tappe successive, fino ad entrare egli stesso nella vicenda umana, nella persona di Gesù Cristo. È il momento che chiamiamo redenzione[13].
La presenza costante di Dio dà un senso alla storia e la guida verso una meta: quella di accogliere in pienezza la pienezza di Dio, «Dio tutto in tutto». È quel momento che chiamiamo parusia.
Ritroviamo le scansioni fondamentali del tempo – passato, presente e futuro – tenute insieme dalla presenza costante di Dio. Alla percezione di esse – esperienza umana fondamentale – il messaggio biblico aggiunge la presenza di una Persona: quella del Dio della storia. Non siamo soli nel fluire del tempo; c’è Dio che guida la storia con sapienza e amore. La storia si presenta così unitaria e acquista significato: oggi riceviamo l’eredità del passato e conosciamo il traguardo verso cui ci muoviamo. L’incognita del futuro si riempie di speranza.

Da questo passaggio emerge la centralità dei tre grandi capisaldi della storia biblica: la creazione, la redenzione che si realizza con l’incarnazione e la parusia. La storia tutta diviene significativa e non è più il regno del caso e della morte di tutto.

Proprio questo sguardo ampio come la storia intera permette al bambino di accogliere la propria piccolezza, senza perdere fiducia, anzi maturando la grande speranza[14]

Queste considerazioni si svolgono in un continuo gioco tra piccolo e grande ed educano a prendere il giusto atteggiamento nella realtà. Si dà allora uno strano paradosso: più piccoli ci si sente e più grande è la gioia. La piccolezza diventa in certo modo il «metro» per misurare la grandezza dell’amore di Dio.
La piccolezza della creatura, lungi dall’essere coscienza mortificante, dà ali allo spirito, aprendo la persona alla relazione nello stupore e nella gratitudine, in un inno di gioia e di lode.

La Cavalletti sottolinea che questa visione unitaria che nasce dall’orizzonte biblico è pienamente confacente alle necessità di un’educazione piena[15]:

A nostro avviso ogni opera educativa per essere costruttiva deve essere unitaria, condurre cioè a un punto di convergenza da cui tutto prende significato. Il frammentario non educa nel profondo. Il punto di convergenza però deve essere tale da far spaziare lo sguardo verso l’illimitato.

In particolare, proprio la “storia della salvezza” spalanca al bambino orizzonti grandi e non miseri ed ottusi. La Cavalletti si richiama qui alla sua grande ispiratrice pedagogica, Maria Montessori[16]:

Queste riflessioni dei bambini sembrano essere espressione di quello che la Montessori chiama «educazione dilatatrice»[17], un’educazione cioè che fa affacciare il bambino a finestre aperte verso l’infinito e l’attrae verso orizzonti sconfinati. L’educazione deve essere tale sul piano conoscitivo, per poterlo essere anche sul piano morale dei comportamenti. «Ingrandire il mondo», ella dice, abbattere ogni barriera che possa impedire la respirazione dell’essere umano nella pienezza delle sue capacità; dare a chi è l’immagine di Dio il cibo che gli corrisponde, perché possa esplicare tutte le sue potenzialità. È quanto già i medioevali chiamavano extensio animi ad magna.

Il bambino, infatti, come sottolinea tutto il lavoro della Cavalletti, si nutre e gode di un orizzonte di fede. Esso non si sovrappone a lui come una dura imposizione esterna, bensì gli è connaturale poiché anch’egli è uomo[18]:

È nostra convinzione, basata sull’osservazione delle reazioni dei fanciulli, che la teologia essenziale è il cibo che il bambino e il fanciullo cercano, per appagare la loro esigenza di trovare il loro posto nella realtà.

E ancora[19]:

La sete del fanciullo, non meno di quella del bambino, è teologica. La sete dell’essere umano è teologica.

5/ Un secondo esempio: la liturgia

Perché la liturgia? (pp. 90-91)
Perché la liturgia? È una domanda che ci si può porre soprattutto se si è convinti che la Bibbia è un pilastro essenziale della nostra cultura occidentale, che mette a fuoco realtà fondamentali, appagando esigenze essenziali del vivere umano. Per una solida formazione della persona non basta dunque il Libro? Sappiamo che elemento importantissimo di una formazione cristiana è l’iniziazione alla liturgia; ma entrando nel fatto celebrativo, restiamo allo stesso livello di essenzialità a cui ci troviamo quando ci accostiamo alla Bibbia? Notiamo innanzi tutto che il fatto celebrativo è un’espressione universale, non solo del mondo religioso; esso corrisponde alla necessità di vivere di tanto in tanto in modo particolarmente intenso realtà fondamentali presenti, e spesso latenti, nel nostro quotidiano. Realtà continuative e onnicomprensive della nostra esistenza hanno bisogno di essere messe a fuoco di tanto in tanto e vissute con intensità particolare; si potrebbe dire che siano necessari alcuni momenti che potremmo chiamare di «condensazione». Se amiamo qualcuno, lo amiamo in ogni momento della nostra giornata, ma abbiamo bisogno di momenti speciali di incontro con la persona amata, in cui vederla, parlarle, abbracciarla. Sono i momenti in cui la relazione si esprime e, facendolo, si nutre e si rinsalda; e senza questi momenti rischia di affievolirsi.
Le scienze umane sottolineano che il celebrare è una necessità personale e sociale; le feste sono infatti considerate periodi di «intensificazione della vita collettiva e dell’esperienza sociale» ed assumono così la fisionomia di tempo sacro. Nella celebrazione della festa, parole, atti, gesti significano la realtà celebrata e ne diventano «segno»; in essi la realtà si esprime e si vive. La celebrazione ha un solido fondamento antropologico e sociale, che affonda le sue radici nella realtà stessa, e nella natura del rapporto uomo-mondo. Il celebrare risponde a un’esigenza fondamentale dell’animo umano, tanto che gli psicologi studiano gli effetti negativi, nella cultura e nella Chiese, del venir meno del processo rituale dovuto ad una certa diffidenza diffusa nel nostro mondo verso la ritualizzazione, tanto che si parla di «guerra contro il rituale». Erikson afferma che si diventa umani nella misura in cui si assimila il repertorio rituale di una comunità umana. Questa è la base antropologica e sociale in cui si innesta la ritualità del mondo biblico, con la sua specifica.

Il bambino e le preghiere eucaristiche (da p. 112)
Che i bambini amino il lavoro di copiatura sarà per alcuni una sorpresa, come lo è stato per noi. Ci siamo convinti della sua importanza quando abbiamo visto i bambini di 8/9 anni copiare – con grande entusiasmo e del tutto spontaneamente – tutto l’ordinario della Messa in forma completa. Abbiamo visto bambini ricopiarlo fino a tre volte, senza dare nessun segno di stanchezza.
Questo lavoro ha uno sviluppo particolare. Si comincia con la Preghiera Eucaristica, si prosegue con i riti di Comunione, poi si risale alla preparazione dei doni per terminare con la Liturgia della Parola. Perché questo cammino tortuoso? Perché il fenomeno della perfino triplice copiatura si è verificato da quando i bambini cominciano il lavoro partendo dalla Preghiera Eucaristica; quando si iniziava dalla Liturgia della Parola quasi nessuno è arrivato in fondo. Credemmo allora di proporre la copiatura della sola Preghiera Eucaristica e dei riti di Comunione; allora, e del tutto spontaneamente, nacque l’entusiasmo per copiare l’intero rituale. Evidentemente partendo dal nucleo vitale della celebrazione l’interesse è più forte ed è tale da sostenere tutto il lavoro.

L’immaginazione e lo stupore nella catechesi (da p. 113)
Il pensiero riflesso è essenzialmente un pensiero che scinde e divide. «Ogni progresso verso la riflessione – dice Ricoeur (P. Ricoeur, Finitude et culpabilité, I, Paris, 1960, p. 37) – è un progresso verso la scissione». Da qui la necessità di non dimenticare di nutrire l’altro approccio alla realtà, la conoscenza di carattere globale, che si indirizza verso l’immaginazione e la infiamma, che suscita lo stupore di fronte a una realtà di cui non riusciamo a vedere i confini.

Le specie eucaristiche (da p.116)
Le specie eucaristiche sono di una semplicità disarmante; che cosa è più semplice di un pezzo di pane? Eppure tutto l’universo vi è concentrato. Fra gli infiniti elementi con cui il Creatore ha imbandito la mensa del mondo per le sue creature, ha scelto un piccolo pezzo di pane per concentrarvi il suo amore e farne lo strumento unico della presenza divina.
Prima di essere pane, esso era un seme, arido e secco, che un giorno è stato messo in terra e la terra era brulla e nuda. Ma i succhi della terra hanno cominciato ad affluire dal profondo verso il seme, mentre il sole e la pioggia dall’alto lo vivificavano con altri succhi e con il calore. Attraverso un lavorio lungo e nascosto, il seme è diventato filo d’erba e poi, quando il sole era ormai caldo, spiga matura. Uomini e donne sono tornati sul campo con grandi macchine, hanno fatto il raccolto, lo hanno lavorato; quello che era stato il seme è passato attraverso tante mani, è diventato farina e infine pane, pronto ad essere portato sulle nostre tavole. Radunati intorno alla mensa uomini, donne e bambini lo spezzano, lo mangiano, se ne saziano; ne godono il sapore e la fragranza. La ricchezza degli elementi della natura che hanno contribuito a trasformare il seme e il lavoro di tante mani, che sono venute preparandolo, confluiscono nelle case degli uomini.
A questo punto le mani dell’uomo non possono fare altro che trasformare il pane; il loro lavoro è arrivato al termine. Eppure il pane è ancora in attesa. Attende una trasformazione che non può più venire dall’uomo, ma solo da Dio e che non può essere altro che invocata nella preghiera: «Manda il tuo Spirito a santificare il pane e il vino, perché diventino il corpo e il Sangue di Gesù Cristo nostro Signore».
In quel pane ritroviamo tutti i livelli della realtà: da quelli nascosti nel profondo della terra all’amore eterno con cui Dio ci ama (cf. Ger 31,3). Man mano che il seme si sviluppa e perviene a livelli sempre più alti non elimina i precedenti, essi si vengono permeando di una vitalità sempre più ricca, fino a raggiungere, nell’Eucarestia, il culmine. In quel Pane, che viene posto nella mia mano, in quel Pane di cui Gesù dice: «Questo è il mio corpo», l’universo è come condensato nella sua totalità.
L’universo e un pezzo di Pane. L’immenso e il piccolo; l’immenso contenuto nel piccolo. Già questo è una meraviglia difficile da afferrare; ma quel Pane va oltre i confini dell’universo, perché «serve di sostrato, e come di arcano e trasparente veicolo, alla presenza reale e sacrificale di Cristo, e così, a suo modo, è profondamente associato a tutto quel flusso di vita divina che il sacrificio eucaristico porta agli uomini, vivi e defunti, di gioia agli angeli e ai santi in cielo e di gloria a Dio» (C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia, Brescia, 1957, p. 255).