'Basta con il diritto al capriccio dobbiamo tornare moralisti'. Un’intervista di Franco Marcoaldi a Vittorio Sermonti
Riprendiamo da Repubblica del 29/10/2011 un’intervista di Franco Marcoaldi a Vittorio Sermonti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2011)
Leggo dalla bandella della sua Eneide di Virgilio (Rizzoli), che tra le molteplici attività di Vittorio Sermonti - narratore, saggista, traduttore, regista, attore - c'è stata anche quella di docente. Vorrei pertanto cominciare questo nostro incontro incentrando l'attenzione su qualcosa che ha rappresentato, io credo, un giro di boa decisivo per le sorti dell'autorità giusto all'interno della scuola. Non saprei dire con precisione quando è accaduto, ma da un certo giorno in avanti, di fronte a qualunque conflitto tra allievo e docente, la famiglia, che in precedenza era sempre stata dalla parte del docente, ha cominciato immancabilmente a prendere le parti dell'allievo, ovvero del figlio. Creando non poca confusione di ruoli.
«Credo anch'io che si sia trattato di un passaggio cruciale, che a ben vedere va ricondotto a un fenomeno sociale iniziato negli anni Sessanta, quando i cuccioli del dopoguerra, i famosi giovani, vengono universalmente promossi dalle strategie pubblicitarie al privilegio di un illimitato protagonismo, in quanto ottimi conduttori di consumi. Ho l'impressione che questo aspetto della promozione generazionale consacrata dal Sessantotto, che peraltro sbandierava l'anticonsumismo, non sia stato studiato abbastanza.
«Successivamente, fra gli anni Ottanta e i Novanta, la dilatazione-globalizzazione del mercato ha travolto anche la diga dei giovani ed ex giovani ormai viziati da qualche nostalgia, per tracimare su altri soggetti, più aggressivamente indifesi: i bambini. Da qui una vera e propria pedagogia pubblicitaria del consumo. E in concomitanza con i nuovi assetti familiari, tarlati dal rimorso di genitori magari separati o entrambi in carriera, si è affermata l'elezione dei piccini a despoti assoluti degli acquisti. A giudici inappellabili dei gusti alimentari, emozionali ed informatici delle famiglie. A consumatori modello di un futuro sempre più assillante e puerile».
Poveri insegnanti: in un quadro come questo dev'essere ben duro provare ad esercitare l'autorità.
«Autorità? Ma quando mai? Tanto per cominciare, gli insegnanti non guadagnano una lira e dunque vengono comunemente guardati dall'alto in basso. E poi, come dice il nostro primo ministro, l'educazione che impartiscono è l'esatto opposto di quella che viene proposta a casa! Faccio notare, en passant, che considerare la famiglia come nucleo della società è tipico del cattolicesimo, mentre invece considerare la famiglia come alternativa alla società, è tipico della mafia. Ebbene, a questo disastro socio-politico tutto italiano si è aggiunta poi la slavina delle nanotecnologie, che hanno messo un bambino di sei anni in condizione di insegnare a me cose molto più "importanti" di quante gliene possa insegnare io, che ne ho ottanta passati. In un quadro siffatto, il rispetto per l' esperienza e per l'età non ha più alcun senso. D'altra parte, ci aveva pensato già Antonio Machado ad ammonirci: "Ti consiglio in quanto son vecchio?/E tu non seguire il consiglio"».
Eppure, la nostalgia dell'autorità e l'aspirazione al ripristino del suo valore è molto diffusa, radicata.
«Sì, però anche qui dobbiamo metterci d' accordo. Si potrebbe dire che viviamo in un campo di tensione tra il desiderio dell'autorità e il terrore dell'autoritarismo. O, esattamente al contrario, tra il desiderio di autoritarismo e il terrore dell'autorità. Per certo, questa aspirazione tanto diffusa quanto confusa che reclama la restaurazione di un'autorità purchessia, sconta oggi una difficoltà supplementare: il fatto che la sua demolizione sia stata immediatamente rimpiazzata da un assillante culto del potere. Per molti, troppi, ciò che importa è che chi decide, decida di decidere. Il "valore-potere", intendo dire, ha invaso lo spazio del "valore-autorità" e nell'atto stesso di svuotarlo l'ha otturato di sé. Difficile rianimare l'autorevolezza bocca a bocca, posto che chi decide lo voglia. Perché l'esercizio attivo-passivo dell'autorità è troppo rischioso: pretende risorse obsolete, come la riconoscenza e l'ammirazione. Pensare è ringraziare, ha detto qualcuno. Beh, io non vedo in giro molta voglia di ringraziare».
La parola autorità è imparentata anche con auctor, colui che genera, che crea. E lei ha una grande dimestichezza con i grandi creatori del passato, segnatamente con Dante e con Virgilio. Sulla base della sua esperienza, è ancora possibile, per le nuove generazioni, un rapporto fertile con questi giganti?
«Direi proprio di sì, ed è un'ipotesi verificata grazie a una recente e protratta esperienza con i ragazzi a cui leggevo l'Eneide in chiesa, in piazza, a scuola. Qualcuno che andava al sodo mi chiedeva come, secondo me, un giovane che passa ore inchiodato alla play station, che filma col cellulare ogni grinza del quotidiano, che pratica l'ubiquità comunicando in rete con la Nuova Zelanda, possa occuparsi dell'epica classica. Insomma, voglia perder tempo con l' Eneide. Non ho idea. Fatto sta che intanto io constatavo che la "ragazzità" di un ragazzo non lo esonera oggi - come non ha mai esonerato nessuno - dall'unicità e dalla fragile grandezza della persona intera che è. È molto probabile che la psiche degli umani e la modalità del loro vivere associato rispondano a modelli un po' meno labili e fluttuanti nel tempo di quanto vorrebbero farci credere sociologi, pubblicitari e sondaggisti. Insomma, non credo che la lunga durata dell'antropologia, e della grande poesia, tenga il galoppo che quelli pretendono da noi. Anche perché vale per ciascuno, giovane o vecchio che sia, ciò che ci ha ricordato con brusca esattezza George Steiner. "I grandi classici continuano a leggerci più di quanto noi li leggiamo"».
Mettiamola diversamente: c'è ancora uno spazio pubblico ampio, influente, riconosciuto, che ci consenta di mettere a frutto l'autorità emanata dalla grande cultura del passato? Un'autorità capace di offrici, ad esempio, quell'orizzonte di trascendenza inter-generazionale che la nostra società, schiacciata sul presente, sembra avere perso?
«Difficile rispondere. Perché noi viviamo in una sotto-società, che è quella italiana, in cui si afferma il primato della politica, che è poi l'anti-politica, la quale a sua volta è dominata dall'economia che a sua volta è dominata dalla finanza. Ora, in una situazione come questa, la grande cultura, a maggior ragione quella classica, sembrerebbe non avere più spazio alcuno. Ma io non credo che la storia umana sia una storia lineare. Dunque non credo che l'attuale rapporto tra il presente e il passato debba necessariamente compromettere, in modo assoluto, il rapporto tra presente e futuro. Oggi lamentiamo, e non a torto, una perdita di orizzonte trascendente nelle nostre società, ma nulla sappiamo di un eventuale sacro prossimo venturo. Sappiamo invece che viviamo in un infelice anarchismo capillare, magari in nevrotica balia delle agenzie di rating. Sappiamo che il diritto al desiderio, il diritto a un infaticabile consumo, il diritto ancor più grave al capriccio, non ci hanno portato da nessuna parte e ci hanno reso piuttosto infelici. Sarò banale, ma io credo sia cruciale il ripristino di una diffusa cultura della moralità. Sì, banale e moralista. Mi va benissimo. Il fatto che qui da noi il termine "moralista" abbia un unico significato deprecativo, la dice lunga sul genere di moralismo che pratica chi lo depreca. Vedo mestamente imperversare l'etica truccata, verticale e consumistica del desiderio, mentre io amerei che si ripristinasse un patto comune, capace di riattivare l'orizzontalità dei rapporti tra cittadini, con tutti i suoi negoziabili vantaggi».
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